Che Salvini basi gran parte della sua perenne campagna elettorale sul commento del fatto di cronaca del giorno non è certo un mistero. C’è un reato che funziona benissimo come oggetto della sua macchina comunicativa perfettamente oliata: la violenza sessuale. Se commessa da uno straniero o da un italiano di origine straniera, è l’occasione per scagliarsi contro gli invasori che come ha detto in un’occasione il ministro, riferendosi agli islamici, con la loro cultura mettono in pericolo “le nostre donne”, quasi fossero una proprietà privata del ministro; se commessa da un italiano, di solito passa sotto silenzio, a meno che non si tratti di un fatto clamoroso come la violenza presumibilmente compiuta a Viterbo da due esponenti di Casapound, un consigliere comunale e un militante, ora arrestati. In quel caso, il vicepremier può sfoggiare uno dei suoi refrain preferiti: la castrazione chimica.
Salvini ha prontamente risposto al problema delle violenze sessuali con un video girato davanti a un cespuglio, dicendo che “chi spezza un fiore, non merita solo la galera, ma necessita di essere curato. Castrazione chimica e non lo rifanno più”, accogliendo il giubilo dei suoi seguaci su Facebook, che incalzano con i soliti: “Tagliamoglielo via!”, “Castrazione fisica, altro che chimica!”, e via dicendo. Posto che le donne sono esseri umani e non decorazioni vegetali da mettere sul tavolo del soggiorno, è facile capire a cosa allude Salvini: la parola“castrazione” evoca un immaginario di vendetta alla Kill Bill, un’idea di giustizia basata sull’occhio per occhio (quanto di più lontano da uno stato di diritto o da una democrazia come quella italiana), quando in realtà – e sembra assurdo che il ministro non lo sappia – è una procedura reversibile e volontaria. È un’idea machista, che riduce la violenza sessuale a un unicum, e riconduce la responsabilità della violenza non alla persona, ma al suo organo genitale. Niente di più sbagliato.
C’è da dire, innanzitutto, che la maggior parte delle persone hanno un’idea errata di cosa sia, nei fatti, la castrazione chimica. Si tratta di una procedura reversibile e temporanea, basata sulla somministrazione di alcuni ormoni che agiscono sull’ipofisi, rallentando la produzione di testosterone. Attualmente è in uso in alcuni Paesi europei come terapia opzionale per i sex offender, in particolare per i pedofili, a cui i detenuti per questo reato si possono sottoporre volontariamente, firmando il proprio consenso. Quando Salvini evoca la castrazione chimica, a giudicare dal tono violento della maggior parte delle reazioni dei suoi follower, è più probabile che le persone si aspettino una scena da film di Eli Roth, in cui il condannato viene sottoposto a una sorta di tortura che gli impedirà per sempre di avere rapporti sessuali. Una cosa del genere è ovviamente impossibile perché l’art. 32 della nostra Costituzione dice chiaramente che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
La castrazione chimica non è soltanto anticostituzionale, ma anche pericolosa per il detenuto e per la sua reintroduzione nella società. Il farmaco attualmente utilizzato, il ciproterone acetato, è controindicato per chi è affetto da alcune malattie, può arrestare lo sviluppo per chi ha meno di 18 anni ed è inefficace per gli alcolisti cronici. “Inoltre il farmaco non incide sulla personalità e il soggetto può continuare ad avere fantasie sessuali e perciò aumentare la sua aggressività”, spiega al Corriere della Sera il segretario dell’associazione nazionale Funzionari di Polizia, Enzo Marco Letizia. “È un’utopia che lo stupratore segua il protocollo medico. Questo farmaco va somministrato per via orale tre volte al giorno e appena si sospende la somministrazione il testosterone viene prodotto in maggiore quantità con l’aumento della libido del violentatore”.
Com’è noto a medici e psicologi, la sessualità non si riduce al pene o alla vagina, ma è soprattutto una questione mentale, ed è influenzata anche da fattori ambientali e sociali, che non si possono cambiare con gli ormoni. Inoltre, come evidenziato da Mark Dell Kielsgard in una ricerca della City University di Hong Kong, non solo la castrazione chimica obbligatoria ha dei costi non indifferenti per lo Stato e non sortisce alcun effetto sul comportamento degli stupratori, ma è anche in contrasto con i diritti umani internazionali, come il diritto alla privacy e alla procreazione, in modo non proporzionale all’offesa.
Pensare che la castrazione chimica sia la soluzione per la violenza sessuale significa spostare l’attenzione da chi commette l’abuso allo strumento con cui viene commesso: lo stupro non è una questione di “ormoni”, ma un esercizio di potere. In molti casi chi stupra non lo fa solo perché vuole avere un rapporto sessuale, ma perché per lui la violenza è la prova del potere che può esercitare nei confronti di una donna. Pensare che eliminare lo strumento elimini in modo radicale la violenza è ingenuo tanto quanto pensare che bandire le armi da fuoco conduca alla pace nel mondo. Infatti, non serve un pene per stuprare, a meno che non smettiamo di considerare violenza sessuale quella perpetrata usando oggetti, o quella commessa dalle donne ai danni degli uomini, un’eventualità rara che però è possibile, e che si regge sulla stessa idea di riduzione a oggetto a uso e consumo di chi usa violenza.
Invocando la castrazione chimica, inoltre, si nega che la violenza maschile sia spesso un problema strutturale e la si relega al piano emergenziale. Questa visione univoca della violenza sessuale si incastra perfettamente nella propaganda salviniana, volta a farci vivere nella percezione di una paura continua. Per Salvini tutto è un’emergenza, un allarme, rendendo più facile invocare pene esemplari che sembrano più vendette che strumenti di rieducazione, e far approvare decreti per la tanto sbandierata “sicurezza”. È la stessa logica del Codice rosso, che fa allarmismo già dal nome e che originariamente prevedeva anche l’introduzione della castrazione chimica: non si fa altro che mettere una toppa su una singola e circoscritta espressione del fenomeno, anziché riconoscere la natura globale e strutturale della violenza.
Non è un caso se Salvini dica che chi stupra – anzi, chi “spezza i fiori” – “va curato”, perpetrando l’idea che gli stupratori siano affetti da patologie mentali. Nell’immaginario comune lo stupratore è il maniaco con la bava alla bocca che ti assale nei vicoli bui. Nella realtà la violenza sessuale è anche e soprattutto altro: è il marito, l’ex fidanzato, il conoscente, l’amante, l’amico, il collega. Persone “perbene”, per usare un termine caro al vicepremier, che non sono né malate né pazze, ma perfettamente consapevoli di quello che fanno: in oltre sei casi di abuso su dieci, il colpevole è il partner o l’ex partner.
La società non ha bisogno della castrazione chimica, ma di prevenzione. Deve cambiare radicalmente il modo in cui intende e tratta la violenza di genere, non più come un problema di sicurezza o privato, ma come una questione sociale e politica che riguarda tutti. Servono sanzioni certe, perché invocare la severità è inutile se solo per il 2,3% degli stupri commessi da un partner segue una condanna; serve il supporto ai percorsi per uscire dalle situazioni di abuso e non il taglio dei finanziamenti ai centri antiviolenza, uniche forme di sostegno a lungo termine per le vittime; serve l’educazione alle differenze a scuola, nei luoghi di lavoro, in famiglia.
Noi donne non siamo fiori, come ci vorrebbe Salvini, ma come diceva un vecchio detto femminista “vogliamo anche le rose”. Di meno spine non ce ne facciamo niente.