C’è qualcosa di strano e allo stesso tempo affascinante nei sentimenti che proviamo per gli oggetti. A volte infatti sembra che dedicare un tale sforzo emotivo alle cose inanimate sia un investimento assurdo, che appare sulla carta come un sentimento di serie B, a prescindere dalla sua intensità, proprio perché dall’altra parte non possiamo essere ricambiati. Anche in un momento storico in cui siamo soliti chiamare un assistente vocale per nome, esattamente come se fosse qualcuno che conosciamo, se mi fermo a pensarci continuo a trovare insolito che quasi il 25% delle persone negli Stati Uniti abbia deciso di battezzare la propria auto con un nome proprio di persona – e lo stesso accade anche con altri tipi di oggetti di uso comune, come alcuni strumenti da lavoro –, quasi a giustificare l’affezione che prova nei suoi confronti.
Eppure, in un sistema che si basa sul culto della merce, tutte le piccole ossessioni e cortocircuiti affettivi che ci legano alle cose, e ancor più alle nostre cose, sono ormai passati sottopelle. Dall’alto valore dato agli oggetti posseduti da celebrità (che valutiamo quasi fossero in qualche modo imbevuti dell’essenza delle persone famose che li hanno indossati o utilizzati) alla tendenza generalizzata all’accumulo che accomuna sempre più persone (anche senza sfociare nella patologia), sono numerosi gli atteggiamenti che esasperano il senso di responsabilità e protezione che proviamo verso ciò che ci appartiene – moltiplicando, di conseguenza, i video di decluttering sul feed dei nostri social, per rispondere a un bisogno sempre più sentito di riordinare, di farsi spazio tra tante cose a ben vedere inutili.
Questo fenomeno irrazionale di attaccamento alle cose che possediamo è noto in psicologia come “effetto dotazione”: un bias cognitivo per cui tendiamo a dare un valore più alto agli oggetti quando ci appartengono. Da un lato, ciò ha a che fare con un innato istinto del possesso, che ci porta a identificarci con le cose che consideriamo nostre, come se custodissero in sé il tratto di esperienze, ricordi e sensazioni che abbiamo vissuto da quando le possediamo, e per questo potessimo affidare loro, almeno in parte, il nostro senso dell’Io; dall’altro lato, rappresenta una sorta di direzione antropologica su cui il capitalismo sembrerebbe aver lavorato per decenni, arrivando a convincerci di essere, letteralmente, ciò che possediamo. Abituati a muoverci in un sistema che funziona per possesso, accumulazione e consumo di beni, abbiamo infatti imparato a considerare le cose che acquistiamo e di cui disponiamo (che siano merci, oggetti, o servizi, esperienze, maschere sociali, rappresentazioni) come un dato profondamente identitario: più sono costosi, desiderabili, inaccessibili, più saranno in grado di attestare il nostro valore personale. Una convinzione che sovrappone fino a rendere praticamente indistinguibili il benessere economico e la realizzazione, e che influisce sui nostri comportamenti e la nostra autostima più di quanto siamo disposti ad ammettere.
Di recente, però, questo automatismo per cui tendiamo ad associare spontaneamente il nostro valore personale a ciò che possediamo sembra aver iniziato a incrinarsi. Lo testimoniano i dati raccolti nel Rapporto Coop 2024 sulle abitudini di consumo degli italiani, da cui emerge quanto negli ultimi anni l’acquisto e il possesso di beni abbiano perso la loro spinta aspirazionale, venendo progressivamente privati di tutti quegli attributi di gratificazione e di riconoscibilità sociale, quando non personale, che hanno caratterizzato una lunga fase della nostra società degli ultimi decenni. Per l’85% degli italiani, infatti, la misura del proprio benessere individuale non dipende più da fattori meramente economici, ma viene fatta risalire alla dimensione intima e privata – a partire dalla famiglia, dalla propria situazione affettiva e anche dal dispiegarsi delle proprie doti etiche e morali – che sono arrivate a caratterizzare la percezione di sé stessi molto più dei fattori materiali. Si tratta di una vera e propria inversione di tendenza, legata a doppio filo al momento storico che stiamo vivendo – dato che negli ultimi anni sono state numerose le occasioni in cui ci siamo resi conto che certe difficoltà e angosce sono impossibili da sopire attraverso gratificazioni materiali – e che sembra aver iniziato a corrodere le fondamenta di un modello consolidato, facendo largo non solo a un potenziale ripensamento del nostro sistema, ma anche a una riflessione parallela sul piano identitario, che riguarda ciò che dà valore e significato alla nostra realizzazione, ciò che conta davvero per la nostra felicità.
All’origine di questa parziale marginalizzazione del possesso e della ricchezza ci sono di certo delle cause oggettive, legate all’impennata dell’inflazione e alla riduzione del potere d’acquisto medio delle famiglie italiane. Accanto ai dati sempre più preoccupanti sulla povertà nel nostro Paese, che non avevano mai toccato livelli così alti negli ultimi dieci anni, anche la porzione di popolazione riconducibile al ceto medio si trova oggi in una situazione di precarietà, vivendo il paradosso per cui si trova ancora a essere categorizzata come la classe sociale “dei consumatori”, pur non disponendo più dei mezzi economici che dovrebbero garantirle tale nomea. L’estensione dell’instabilità finanziaria a cui stiamo assistendo, dunque, ha inevitabilmente rimodellato il legame emotivo che buona parte della società ha con il denaro: se per i nostri genitori, e ancor di più per i nostri nonni, i soldi rappresentavano in primis una garanzia di sicurezza, uno strumento che, se ben utilizzato, poteva dissolvere molte delle loro preoccupazioni e consentire l’accesso a una vita migliore, oggi, i primi sentimenti che associamo al denaro sono negativi, assimilabili ad ansia, stress e senso di colpa. Per questo, l’acquisto di beni materiali rimane un gesto di gratificazione spensierato solo per i ricchi, sempre meno numerosi, che si possono permettere tutto ciò che fuoriesce dal necessario, senza andare incontro ad alcuna conseguenza – sia sul piano strettamente economico, sia su quello del ritorno emotivo.
Parallelamente, sono sempre più tangibili gli effetti di quella che è una vera e propria rivoluzione sul piano valoriale, un cambiamento di paradigma in senso anti-capitalistico che le nuove generazioni stanno portando avanti attraverso un’idea di benessere individuale scorporata dal guadagno. Come si legge nello studio Report FragilItalia su giovani e lavoro, la priorità dei lavoratori delle nuove generazioni sta infatti nel trovare un appagamento che ha poco a che fare con la dimensione monetaria, perché concepisce la realizzazione – anche professionale – come il raggiungimento di un equilibrio interiore, in cui non viene tolto spazio ad alcuno degli aspetti che ci interessano nella nostra vita. Distanziandosi dalle logiche dell’auto-sfruttamento e dell’ascesa – economica e di carriera – a ogni costo, la maggior parte dei giovani si dice infatti disposta ad accettare uno stipendio più basso pur di avere maggiore flessibilità nell’orario lavorativo o pur di condurre una vita meno stressante. Non solo: in una scala di valori il lavoro e il guadagno si piazzano in sesta posizione per i giovani, dietro alla famiglia, all’amicizia e all’amore, considerati più importanti, così come la propria salute mentale e fisica. Si tratta quindi di una sorta di ritorno all’intimità, che dedica una particolare attenzione a tutto ciò che ci fa stare bene e ci gratifica sul piano personale, soprattutto se per ottenerlo dobbiamo prenderci un impegno ben diverso – più lungo, magari faticoso, ma di certo più appagante – da quello di un semplice acquisto.
Quando sento parlare di un presente inerte, che sembra aver perso la capacità di generare qualsiasi spinta rivoluzionaria, penso agli “spostati” di cui parlava il sociologo tedesco Robert Michels, che utilizzava questo termine per riferirsi a tutti coloro che erano stati in grado di incarnare nei loro gesti quella potenza sovversiva che abolisce lo stato delle cose, trasformandolo. E penso a quanto tutti noi ci siamo sentiti “spostati” dagli eventi degli ultimi anni, avvenuti nel quadro del crollo progressivo di un sistema che ci aveva illuso di poter continuare a funzionare, e a quanto questo ci abbia intimorito, lasciandoci spesso paralizzati dai nostri sentimenti negativi, invece che accendere il nostro istinto di sopravvivenza. È innegabile che stiamo parlando di processi a lungo termine, ma il decentramento del possesso e della ricchezza a cui stiamo assistendo rappresenta un principio di rifiuto al modello capitalistico, di cui abbiamo finalmente iniziato a vedere le storture e in cui, per questo, non riusciamo più a riconoscerci.
Se è vero che per uscire dalle crisi, come ci è stato spesso dimostrato dalla storia, serve un cambio di paradigma, un rivolgimento delle regole e delle prospettive, che ci permetta di adeguare il nostro sguardo a un modo nuovo di interpretare la realtà, l’idea di mettere in discussione un sistema ormai incompatibile con le nostre priorità può diventare un’enorme occasione. La crisi economica che abbiamo attraversato di recente si sta infatti rivelando una crisi anche politica, culturale, sociale, che non può che far sentire ciascuno di noi in qualche modo “spostato”, orfano delle convinzioni che aveva coltivato a lungo, immerso in un costante sentimento di fine di un’epoca. Ma proprio per questo, da “spostati” che hanno bisogno di ritrovare un nuovo equilibrio, abbiamo la possibilità di affidare le nostre speranze di crescita e di benessere individuale a un modello diverso, che sia in grado di adattarsi non solo a esigenze geopolitiche mutate, alla difesa di un pianeta che sta esaurendo le sue risorse, o alla degenerazione degli ideali politici, sempre più populisti e nazionalisti, ma anche ai nostri nuovi desideri personali, tra cui una felicità che non ha nulla a che fare con ciò che possediamo.
Se le vecchie regole non sono più valide, ha senso provare a inventarne di nuove guardando a ciò che ci preme davvero, agli aspetti della nostra vita a cui non vogliamo più rinunciare. Per questo, allontanarci da un sistema che incolla la felicità a ricchezza e possesso può anche essere l’occasione per riscoprire un’introspezione che ci siamo abituati a mettere da parte, considerandola inutile, di troppo; e per investire su quella dimensione intima – fatta della coerenza con i nostri valori e con le scelte che reputiamo giuste, dei nostri affetti, dei comportamenti che ci fanno sentire realizzati e valorizzati – che ci siamo resi conto essere ben più incisiva nel determinare il nostro benessere, e non solo nei momenti di difficoltà. Si tratta quindi di fare spazio, anche in senso figurato, tra cose che abbiamo tenuto con noi a lungo, ma che oggi vediamo come inutili, ingombranti, o addirittura dannose, di spostare loro e non noi stessi, per tenere solo quelle che ci fanno stare meglio nel posto in cui siamo.