La condanna del ceto medio è essere meri consumatori pur non avendone più la possibilità economica - THE VISION

Aristotele, ne La politica, associava la caduta del “ceto medio” all’avvento di tre possibili scenari: un dominio degli oligarchi, una violenza di massa o una tirannide. Oggi, nelle società occidentali, la situazione è un po’ diversa, eppure l’affanno del ceto medio in seguito a crisi economiche e a politiche decennali più che scellerate sta portando a una polarizzazione delle classi sociali. Non siamo ai livelli di Paesi come l’India o il Brasile, dove esiste una maggioranza poverissima e una minoranza – l’oligarchia profetizzata da Aristotele – che detiene una ricchezza spropositata, ma l’andazzo è la disgregazione di quella che un tempo veniva definita piccola borghesia, che oggi non ha gli strumenti per portare avanti quel processo che il sociologo Giuseppe De Rita chiamava negli anni Novanta cetomedizzazione. La crescita della disuguaglianza sociale ha prodotto una realtà in cui i poveri sono ancora più poveri e il ceto medio, che reggeva l’economia del Paese, sta facendo il percorso inverso rispetto a quello del secolo scorso, quando il proletariato si trasformava in piccola borghesia. Il risultato è lo sfaldamento del tessuto sociale. 

Se il ceto medio a livello statistico ha rappresentato per decenni la parte più rilevante della popolazione, oggi non è più così. Il rapporto dell’Ipsos Flair 2021 mostra lo smottamento di un’intera classe sociale in seguito alla pandemia: si è passati dal 40% del pre-Covid al 27%. Questo significa che i tratti che caratterizzavano questa fetta di società non possono più essere mantenuti. Pur non essendo parte dei benestanti, un tempo il ceto medio poteva permettersi – non senza qualche sacrificio – di comprare una casa di proprietà attraverso un mutuo, di pagare gli studi ai figli fino all’università, comprare una o più automobili, arrivare alla fine del mese senza patire la fame, viaggiare e in generale avere un tenore di vita, appunto, medio. Niente lussi, ma nemmeno il terrore di restare senza niente, grazie anche all’appartenenza alla generazione del posto fisso.

Il governo Meloni – come tutti i suoi predecessori – ha tentato di realizzare una misura a sostegno del ceto medio, ma invece ha creato un accrocchio anacronistico che peggiora soltanto le cose. Riassumendo nello specifico: il Decreto Lavoro darà tra gli 80 e i 100 euro in più in busta paga proprio a chi viene considerato canonicamente un membro del ceto medio, ovvero la fascia con i redditi lordi fino a 35mila euro l’anno. Il problema è che suona come una mancetta in stile “bonus Renzi”, che almeno era strutturale, e durerà soltanto fino a novembre. Inoltre, il decreto rischia di suonare come un inno alla precarizzazione, in controtendenza rispetto agli ultimi provvedimenti, in quanto sembra incentivare i datori di lavoro alla firma di contratti a tempo determinato, invece che indeterminato: per i contratti annuali, rinnovabili per un altro anno, infatti, vengono annullate le causali che erano state inserite nel DL n.81 del 2015; e amplia altresì la possibilità di ricorrere ai voucher. Ed è un errore associare la precarietà alla fascia più povera della piramide sociale, in quanto il ceto medio è coinvolto direttamente in questa piaga di lavoretti part time sottopagati, tirocini e apprendistato infinito. Quello che il governo non ha capito è che il ceto medio si sta estinguendo, e i figli di questa classe sociale sono più poveri dei loro genitori e con molte meno prospettive lavorative.

L’altro giorno discutevo con un amico di famiglia che rientra a pieno titolo nel ceto medio. Professore al liceo lui, dipendente comunale la moglie. Il figlio, un trentenne laureato, si dimena tra stage e lavoretti per potersi permettere l’affitto di un monolocale in una città del Nord. Con quello che guadagna non sempre ci riesce, ed è costretto a chiedere una mano ai suoi. Il padre ha concluso con una frase laconica che descrive appieno un gap generazionale e le varie ed eventuali incertezze sul futuro: “Mio figlio guadagna meno della nostra colf”. Ed è vero, ed è probabilmente anche meno tutelato. Queste parole rispecchiano il decadimento del ceto medio a livello di significato originario. In principio era il passaggio da proletari a consumatori, con una creazione di una vera e propria classe di acquirenti. Il problema è sorto quando la crescita economica del secondo dopoguerra si è tramutata in un meccanismo fine a se stesso che, a lungo termine, non è stato proiettato a un miglioramento della vita di tutti, ma alla nascita di quelli che il sociologo Luciano Gallino chiamava classi di servizio, ovvero il ceto medio, al servizio delle classi dominanti.

Essendo, per lo meno in passato, il ceto medio la fetta più estesa della popolazione, è stato usato dai politici come bacino elettorale di riferimento o come mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Questo già ai tempi del fascismo, quando il ceto medio veniva manovrato dall’alto per opporsi alla temutissima classe operaia e non certo come mezzo per rinnovare il Paese dalle fondamenta. In tal modo il ceto medio ha fatto – involontariamente? – gli interessi degli industriali e del regime. Anche Silvio Berlusconi ha cercato l’appiglio del ceto medio, a modo suo. Ha portato infatti i suoi rappresentanti a sognare un trampolino per “diventare altro”, per fare un salto sociale attraverso l’Italian dream dell’imprenditore che si autodetermina e “ce la fa da solo”. Ha appiattito culturalmente un’intera classe sociale trasformando il ceto medio nella società media – curiosamente proprio attraverso i media: i suoi – e la Seconda Repubblica è stata segnata dall’aumento selvaggio del debito pubblico e dalle promesse elettorali irrealizzabili e irrealizzate. Il tentativo del processo di emulazione – “chiunque può diventare Berlusconi” – è inevitabilmente fallito perché poggiava le sue colonne sui bordi più fragili del capitalismo, e tutte le manovre politiche realizzate negli ultimi trent’anni – comprese quelle del centrosinistra – hanno causato un rinculo socioeconomico che ha trasformato la promessa iniziale trasformandola in “Chiunque può tornare proletario”. 

Un tempo, la piccola borghesia veniva quasi osteggiata per i minimi privilegi che poteva vantare. Un professore o un impiegato in banca, rispetto a un operaio o a un bracciante, per fare un esempio, godeva di uno status che cristallizzava la sua posizione nella società garantendogli la certezza di una vita quantomeno ordinaria, senza i patemi della precarietà o della battaglia per resistere fino alla fine del mese. Le rivolte sociali, come spesso accade, hanno messo contro gli ultimi contro i penultimi, e quindi il Sessantotto non ha messo nel mirino soltanto i “padroni”, ma anche le classi di servizio di Gallino, in quanto conniventi di non si sa quale azione. Col tempo, il ceto medio del Sessantotto è rimasto tale o è stato declassato, mentre i sessantottini sono diventati borghesi e, in alcuni casi, hanno rinnegato le loro stesse battaglie finendo dall’altro lato della barricata.

Il ceto medio è stato osteggiato negli anni anche per un pregiudizio nato in seguito agli scritti di Marx ed Engels. Nel Manifesto del Partito Comunista per esempio è scritto: “La classe media lotta contro la borghesia perché essa compromette la loro esistenza in qualità di classe media. Per conseguenza essi non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché si sforzano di far retrocedere il cammino alla storia. Se essi agiscono rivoluzionariamente è per la paura sempre presente di cadere nel proletariato”.

Oggi, con lo spostamento della distribuzione del reddito che rende sempre più debole proprio la classe media nei Paesi occidentali, la “paura di cadere nel proletariato” è diventata più che fondata. Se fossero vivi, Marx ed Engels oggi probabilmente sarebbero meno netti nella distinzione tra le classi e considererebbero il ceto medio non tanto una realtà da conservatori o addirittura reazionari, ma una classe composta da vittime della società, non meno di quelle inferiori, in quanto ugualmente sfruttata dai “padroni”. In un’intervista, Sergio Marchionne spiegò bene il ruolo del ceto medio: “Qualche emiro che compra una Ferrari lo troverò sempre, ma se il ceto medio finisce in miseria chi mi comprerà le Panda?”.

La condanna degli appartenenti al ceto medio è proprio questa: essere meri consumatori e restare in questa categoria di riferimento anche quando i mezzi economici non garantiscono più loro una tale nomea. Un ceto medio precarizzato non può permettersi neanche la Panda, il bollo dell’auto e tutto ciò che ne consegue. Il suo crollo provoca dunque un effetto tsunami che coinvolge direttamente anche i più poveri e aumenta ulteriormente il divario con i ricchi. Allora sì che c’è il rischio di allinearci ai Paesi in via di sviluppo e alle loro discrepanze sociali. Solo che lo faremmo come nobili decaduti, diventando a tutti gli effetti un Paese in via sottosviluppo.

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