L’altro giorno mi è capitato di guardare una foto dei primi del Novecento. In una non precisata città degli Stati Uniti – una bandiera è l’unico indizio che mi ha permesso di individuare almeno la nazione – ci sono centinaia di uomini in piazza. Tutti hanno il cappello. L’ho trovata buffa come immagine; non solo per il fatto che adesso nessuno indossi più il cappello, se non al limite quello moderno con la visiera, ma perché nessuno si distingueva dalla massa. Ogni uomo era la fotocopia dell’altro. Riflettendoci più a fondo, mi sono accorto di come quella fosse soltanto una moda passeggera, e di come la vera omologazione sia molto più accentuata nel 2024, nonostante le capocce libere e l’illusione di essere “diversi dagli altri”.
Se per omologazione intendiamo un’aderenza agli usi e ai pensieri di una maggioranza o di un gruppo dominante, è evidente come a livello storico sia aumentata con l’arrivo di mezzi di diffusione sempre più capillari. Il senso di appartenenza e di emulazione come collante sociale non è mai mancato sin dalla nascita dell’essere umano, ma per uniformarsi in modo radicale era necessaria un’evoluzione tecnologica. Un tempo la diffusione di idee avveniva oralmente. Poi è arrivata l’invenzione della stampa, e anche solo avere materialmente dei testi sacri ha rafforzato una delle principali leve di omologazione di sempre, ovvero le religioni. Nella prima metà del Novecento erano la radio e il cinema a diffondere messaggi e immagini, ma solo con l’avvento della televisione si è entrati letteralmente nelle case di tutti. La televisione è diventata un mezzo di propaganda politica, un contenitore pubblicitario, il salotto di imbonitori, il catalizzatore di mode, movimenti e costumi che mai avevano avuto una spinta persuasiva di tale portata. Eppure non era ancora il mezzo definitivo, lo strumento di appiattimento sociale in grado di condizionare un intero pianeta. È così arrivato Internet, e con lui i social e i dispositivi che ci portiamo dietro ovunque. Adesso un ragazzino di Buenos Aires e uno di Pomezia possono commentare la stessa foto dei primi del Novecento con i cappelli sulle teste degli uomini, e l’emoticon della risata che inseriranno sarà il segno identitario, e inconsapevole, del conformismo.
Non per martellare sempre sullo stesso argomento, ma il ruolo del capitalismo in questo processo è realmente centrale. Avere una massa di individui simili tra loro, se non addirittura identici, è un vantaggio politico, commerciale, sociale e facilita il compito di qualsiasi fenomeno dominante – che sia il capitalismo stesso, un governo in carica, una religione o una multinazionale. Non a caso l’omologazione oggi non è collegata a un desiderio di uniformarsi a valori comuni, ma al timore di un’esclusione sociale. E ci si adegua alla massa anche attraverso il consumismo, per esempio acquistando prodotti che non possiamo permetterci solo per non restare indietro rispetto al gruppo e al concetto distorto di progresso tecnologico. È un meccanismo che ha spiegato bene il sociologo Zygmunt Bauman in diversi suoi saggi: l’esclusione sociale non si basa più sull’impossibilità di poter soddisfare un bisogno primario, ma sul non poter comprare qualcosa che renda l’individuo aderente alla modernità e ai canoni comuni. La frustrazione delle persone meno abbienti è per Bauman causata dal timore di non essere accettati come consumatori, non potendosi permettere un prodotto di massa. Il consumo è quindi il fattore predominante dell’omologazione, che dunque è foraggiata direttamente dal capitalismo.
I social hanno però allargato le reti del conformismo fino a creare anche un’estetica dell’omologazione. La mia esperienza è particolare: fino all’anno scorso non mi ero mai iscritto su Instagram. Ero un animale da Facebook. Inizialmente percepivo anche lì il tentativo di seguire dei trend per restare aggrappati a una sorta di “treno dell’hype”. Tutti commentavano le stesse cose, e chi non lo faceva aveva la sensazione di aver perso qualcosa di importante, generando una fomo dei social. Poi Facebook è diventato sostanzialmente il social degli anziani. L’esodo su Instagram non mi ha riguardato per anni; sono rimasto tra le immagini profilo della maschera di V per Vendetta e della ragazzina col binocolo di Moonrise Kingdom, poi diventate bandiere italiane, foto di cani o di fiori con il salire dell’età. Quando poi, nel 2023, sono approdato su Instagram, mi sono sentito sperduto, fuori dal tempo. Non riuscivo a capacitarmi di un fatto: i profili erano tutti uguali.
Le foto delle vacanze, le storie con Lana Del Rey in sottofondo, i filtri, i reel di vite vissute allo specchio. E poi i sottogruppi: bookstagrammer con le foto dei libri tra le foglie autunnali e le tisane, i cineasti con i frame di un film di Truffaut, i palestrati no-pain-no-gain. Qualunque fosse la filter bubble, tutto riconduceva a una comunione d’intenti anche a livello visivo. Persino i pensieri più nobili mi sono sembrati la scia dell’omologazione. Le bandiere palestinesi, All eyes on Rafah, i perenni coccodrilli virtuali – muore Alain Delon, un giorno intero di “Quanto era bello” e l’indomani l’oblio. Entrare in quel mondo è stato come assistere al festival dell’emulazione. L’antropologo francese René Girard ha studiato per tutta la vita le dinamiche legate al conformismo, spiegando come l’imitazione sia la caratteristica fondamentale dell’essere umano. Nella sua teoria mimetica afferma che tutte le azioni dell’essere umano sono determinate dal desiderio di imitare qualcuno che gli appaia felice per poter possedere quella stessa felicità. E così Instagram è la più grande prova della teoria mimetica. Gli utenti seguono gli influencer di turno, bramano il loro stile di vita, vogliono ardentemente appropriarsi non solo dei loro averi, ma anche del loro pensiero, e di conseguenza l’emulazione viene spontanea. A tal punto da non riuscire più a distinguere un influencer da un suo follower, con quest’ultimo che tende a diventare un misto tra un clone e un seguace fanatico.
La soluzione in teoria dovrebbe essere l’anticonformismo. Lo stesso Girard però ci mette in guardia spiegandoci come l’ossessione dell’anticonformista sia spesso l’incapacità di ammettere la somiglianza con gli altri, e quindi per elevarsi sopra la massa segue ugualmente una teoria mimetica imitando anticonformisti arrivati prima di lui o utilizzando gli stessi luoghi e gli stessi mezzi della massa da cui vuole emanciparsi. Viene da chiedersi allora quale sia l’antidoto all’omologazione. I più radicali potrebbero rispondere l’assenza. Intesa come disconnessione, fuga dalla società o rifiuto di essa. C’è una scena nella serie TV The Young Pope di Paolo Sorrentino dove viene elogiata l’invisibilità di Salinger, di Mina, di Banksy, dei Daft Punk. Nascondersi come rimedio all’iper-esposizione, e allo stesso tempo un boost di iconicità e “fantomatico mistero”. Eppure noi non abbiamo scritto Il giovane Holden, dunque fuggire non ci conferirebbe chissà quale dose in più di prestigio. Forse il metodo è accettare certi fenomeni come inevitabili. Accettarli senza venirne invischiati eccessivamente e studiarli a fondo. D’altronde ci sono tanti studi di psicologia a riguardo. L’effetto bandwagon – banalmente “salire sul carro del vincitore” – è una delle punte massime dell’omologazione, così come l’effetto spettatore quando ci troviamo di fronte a una situazione spinosa e siamo in mezzo al gruppo. Gruppo che ci protegge anche quando vogliamo affrancarcene, perché ci deresponsabilizza e ci permette di seguire una strada già tracciata. Forse la verità che non vogliamo ammettere è proprio questa: l’omologazione è comoda.
La comodità consiste nel cercare il modo più sicuro per essere accettati dagli altri. E torniamo quindi al timore dell’esclusione. E forse il conformismo non può che essere un ossimoro, qualcosa che temiamo e al contempo aneliamo. In Sessanta racconti, Dino Buzzati parlava del conformismo proprio usando una doppia valenza: “La pace di colui che si sente in armonia con la massa” ma anche “una forza tremenda, più potente dell’atomica”. Quindi da un lato dobbiamo accettare di essere “come gli altri” senza elevarci a livelli di mitomania preoccupanti, anche perché siamo solo esemplari di passaggio di una specie che rappresenta lo 0,01% di quelle presenti sulla Terra. Dall’altro è necessario trovare una nostra unicità e non cadere nel tranello dell’omologazione. “Siamo diversi, ma uguali agli altri” urlava Nanni Moretti nella scena finale di Palombella rossa. La soluzione credo sia quella di evitare l’imitazione, l’appiattimento come individui – e in senso moralmente più ampio come consumatori – per non alimentare quel processo che tende ad annullarci come singoli per rimaterializzarci come massa indefinita. Senza indossare i caschi dei Daft Punk o i cappelli di inizio Novecento. Basta la nostra testa, e per quanto non sia nulla di speciale è comunque nostra.