L’attenzione ha assunto un ruolo determinante nel sistema economico capitalista. Come le altre merci, anche l’attenzione ha un suo valore specifico che, con l’avvento dei social e delle piattaforme digitali, è aumentato in modo esponenziale. L’espressione “economia dell’attenzione” è stata coniata per la prima volta dal Premio Nobel per l’economia Herbert Simon, in una conferenza tenutasi a Washington il primo settembre del 1969, in cui ha spiegato come un mondo ricco di informazioni generi una povertà di attenzione in chi le riceve, con serie conseguenze su un’economia che punta alla dematerializzazione dei servizi.
“In una società ricca di informazione deve dunque mancare qualcosa: questo qualcosa è l’attenzione”, dice Herbert nel suo intervento. Cinquant’anni dopo, le sue previsioni sembrano essersi avverate. L’eccesso di informazione e dati che abbiamo a disposizione ha causato un calo drastico della nostra attenzione.
Questo processo ha un impatto sul nostro stile di vita: passiamo sempre più tempo online (circa sette ore al giorno, quasi lo stesso tempo che passiamo dormendo), abbiamo sempre meno capacità di concentrazione e le occasioni per il nostro tempo libero si vanno riducendo, mentre, con l’incentivo allo smart working, il confine tra lavoro e vita privata diventa sempre più sfumato.
Il ruolo di internet, dei social network, delle piattaforme digitali, insieme all’ascesa delle big-tech e di nuovi strumenti e supporti tecnologici (primo su tutti lo smartphone) si sono rivelati decisivi nella costruzione del nuovo scenario. Da quando una parte importante della nostra vita si è trasferita online, anche il nostro approccio ai contenuti e la nostra capacità di concentrazione hanno subito un profondo cambiamento. Cruciale è stata anche la decisione dei media e dei giornali di puntare progressivamente sul digitale, abituando i lettori ad avere a disposizione una quantità esorbitante di contenuti informativi. Uno studio condotto da Neil Thurman e Richard Fletcher del Reuters Institute di Oxford ha evidenziato che i lettori tra i 18 e i 34 anni spendono, in media, poco più di 40 secondi sul sito di una testata o sull’app di un giornale, contro i circa 23 minuti che dedicano alla lettura delle edizioni dei giornali cartacei, dimostrando l’evidente diversità di fruizione dell’informazione e la differenza di tempo dedicata a online e supporto fisico, anche fra le nuove generazioni.
Il paradosso dell’abbondanza e della maggiore facilità di accesso alle informazioni di oggi sta nella minore percentuale di tempo che i giovani dedicano a informarsi rispetto al passato. Comparando il tempo speso a leggere i giornali nel 2016 con quello speso all’inizio del millennio, quando la diffusione del giornalismo online era ancora limitata, lo studio ha evidenziato un calo complessivo del 40% e una diminuzione dell’attenzione, soprattutto da parte dei giovani (-64%) e dei lettori di mezza età (-57%).
Barbarba Demeneix, scienziata francese esperta di disturbo della concentrazione, sostiene che “al giorno d’oggi è impossibile avere un cervello normale”. I risultati di diversi studi sembrano confermare questa tesi: uno studio del 2015 di Microsoft, effettuato su un campione di oltre duemila persone, ha mostrato che nel giro di quindici anni il tempo medio di concentrazione di un essere umano è sceso di quattro secondi, passando dai 12 del 2000 agli 8 del 2015. Le motivazioni di questo calo risiederebbero nell’abitudine sempre più diffusa al multitasking, ma anche nella dipendenza da smartphone, che induce i soggetti a sviluppare una vera e propria bulimia di informazioni, veicolate soprattutto attraverso i social network. Lo confermano anche dati più recenti, come quelli raccolti dal progetto Smartphone addicted: vissuto dei giovani e strumenti di contrasto realizzato dall’Eures: l’82% dei giovani italiani è a rischio dipendenza da smartphone; il 22% degli oltre 1.800 studenti intervistati si trova nell’area critica di rischio elevato, in cui la rilevazione di una serie di “sintomi comportamentali” indicano la presenza di un rapporto patologico (condizionato da nomofobia, ansia, Iad o internet addiction disorder); la dipendenza da smartphone è riconosciuta come “problema generazionale” dall’85% dei giovani.
La mancanza di concentrazione derivante dall’uso compulsivo del cellulare ha effetti negativi, non solo sul nostro equilibrio psico-fisico, ma anche su altre aree di interesse, come il rendimento scolastico e il lavoro. È chiamato “switch cost”, costo dello spostamento dell’attenzione, e indica il tempo che dedichiamo, per esempio, a controllare le notifiche sul telefono mentre stiamo lavorando, ma anche il tempo che impieghiamo per ritrovare la concentrazione perduta. Uno studio condotto nel laboratorio di interazione tra esseri umani e computer della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, in Pennsylvania, su 136 studenti ha provato a quantificare il costo di questo calo di attenzione. Gli studenti sono stati divisi in due gruppi e sottoposti a un test: il primo doveva spegnere il telefono, il secondo poteva tenerlo acceso e ogni tanto riceva dei messaggi. Gli studenti con il telefono acceso, hanno ottenuto, in media, risultati del 20% più scarsi in ambito scolastico.
Se da un lato le nuove tecnologie e la digitalizzazione hanno portato indubbi vantaggi economici per le aziende e una semplificazione della vita quotidiana, dall’altro, l’utilizzo sconsiderato degli strumenti digitali ha dato vita o aggravato distorsioni del sistema, fenomeni di dipendenza, come il workaholism (la dipendenza dal lavoro), oltre a dare la possibilità di essere sempre connessi, e quindi raggiungibili in qualsiasi luogo e momento della giornata.
In un mondo sempre più caratterizzato da lavoro agile, smart working e dalla cultura tossica della performance, la risposta può essere organizzata su due piani: quello individuale, che viene portato avanti con l’allontanamento intermittente da strumenti e piattaforme digitali o con vere e proprie strategie di rifiuto permanente del modello attuale, come dimostra anche il fenomeno recente delle cosiddette Grandi Dimissioni a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi; quello collettivo, più efficace, che prevede pressioni sulle aziende e sui governi per il riconoscimento, per esempio, del “diritto alla disconnessione”, come avvenuto già in Portogallo e Belgio, o della settimana lavorativa corta, che ha dato ottimi risultati dal punto di vista della produttività e del benessere dei lavoratori.
Attualmente nell’Unione europea mancano linee guida per la regolamentazione dello smart working e della disconnessione e ogni Paese si muove in modo autonomo. L’ultimo, in ordine cronologico, è stato appunto il Belgio, dove a inizio febbraio è passata una legge che permetterà a 65mila dipendenti pubblici di non essere reperibili fuori dall’orario di lavoro. Adesso il governo del Paese sta pensando di estendere la misura anche alle aziende private. Con l’implementazione dello smart working per l’avvento della pandemia, le occasioni di essere contattati dal proprio datore di lavoro oltre l’orario di impiego si sono moltiplicate, e con queste l’esigenza di una legge che disciplinasse la materia. I dati parlano chiaro: i casi di burnout, stress e depressione, strettamente correlati al lavoro da casa e alle conseguenze della pandemia, sono in forte aumento, soprattutto tra i Millennials e la della Generazione Z.
In Germania non esiste ancora una legge specifica sul diritto alla disconnessione, ma la materia è comunque regolata dai contratti collettivi o inserita nelle policy aziendali e alcune grandi aziende si sono già mosse in autonomia. La casa automobilistica Volkswagen, per esempio, già nel 2011 ha introdotto un vero e proprio divieto per i propri dipendenti di aprire l’email dopo l’orario di lavoro. La BMW ha deciso di convertire il tempo che i dipendenti impiegano nel rispondere alle mail fuori dall’orario di lavoro in ore “bonus” da detrarre alla somma totale delle ore di lavoro previste.
Nel 2017 è stato il turno della Francia, che ha stabilito che una società con più di 50 dipendenti deve garantire a questi ultimi il diritto di ignorare messaggi, email e comunicazioni dopo l’orario di lavoro. Una delle scelte più drastiche è però arrivata dal Portogallo, dove lo scorso anno è passata una legge per cui i datori di lavoro possono essere addirittura multati se scrivono messaggi, chiamano al telefono o inviano email ai dipendenti fuori dall’orario di lavoro. Inoltre le imprese, che grazie allo smart working hanno risparmiato in bollette dell’elettricità e in utilizzo della rete internet, dovranno contribuire alle spese dei loro dipendenti che usano la luce e il WiFi di casa.
A oggi lo smart working in Italia, sia per il settore pubblico che per quello privato, è disciplinato dalla Legge 22 maggio 2017, n.181. Con l’emergenza dovuta al Covid-19, tra il 2020 e il 2021, sono stati emanati decreti che hanno introdotto nuove regole per il lavoro agile, sia per il settore pubblico che per quello privato. Inoltre, il 7 dicembre 2021, è stato firmato il protocollo nazionale dello Smart Working nel settore privato che prevede nuove tutele e accordi tra lavoratori e datori di lavoro. Il protocollo prevede però che l’adesione allo smart working avvenga su base volontaria ed è subordinata alla sottoscrizione di un accordo individuale.
Il concetto di produttività e di iperconnessione ha permeato ogni aspetto della nostra esistenza, cancellando i confini tra tempo libero e giornata lavorativa. Così facendo, rischiamo di dimenticare che è la tecnologia a essere a nostro servizio e non il contrario. Dobbiamo quindi controllare e regolamentare con maggiore efficacia le piattaforme digitali e il modo in cui la tecnologia digitale influenza la nostra vita reale, incentivando un migliore bilanciamento tra lavoro e vita privata. Riconoscere il diritto alla disconnessione è il primo passo per la libertà di vivere, almeno una parte della propria giornata, lontano da notifiche, messaggi e email di lavoro, riappropriandoci del nostro tempo e dell’attenzione che ci sono stati rubati.