Ammalarsi per eccellere nello sport non significa darsi una disciplina, ma subire un abuso di potere - THE VISION

Uno dei ricordi più nitidi che ho dell’ultimo anno di scuole medie comprende tutti i pomeriggi passati a casa delle mie amiche, quando dopo aver finito di affrontare un’espressione con le frazioni o qualche esercizio di analisi logica, potevamo dedicarci all’immancabile appuntamento con Ginnaste – Vite Parallele, un programma del pomeriggio di Mtv a cui ci eravamo appassionate fin dalla prima puntata. La stagione d’esordio di questo docu-reality è uscita nel 2011 e ha accompagnato il mio passaggio al liceo con il racconto della vita di sette ragazze più o meno della mia età, alle prese con la loro nascente carriera sportiva nel campo della ginnastica artistica. Lo show era estremamente coinvolgente, perché si concentrava sull’emotività delle protagoniste, che veniva esplorata e mostrata allo spettatore passando per i grandi temi dello sport: il senso di appartenenza alla squadra, la costante pressione competitiva, l’importanza della disciplina e dello spirito di sacrificio. La forza del programma consisteva proprio nel conciliare la cronistoria della performance sportiva – fatta di faticosi allenamenti, della preparazione psicologica per le gare e di grandi aspirazioni, come quella di partecipare ai Mondiali di Tokyo 2011 o alle Olimpiadi di Londra 2012 – con una narrazione parallela, che catturava il pubblico adolescente perché si basava su sentimenti tipici di quell’età – la sensazione di non essere capiti; le difficoltà nell’affrontare la rivalità con i coetanei; il tentativo di gestire le aspettative nei confronti del futuro e l’analfabetismo sentimentale che rende così eccitanti le prime cotte.

All’interno del programma, la realtà sportiva costituiva una sorta di lente d’ingrandimento funzionale allo spettacolo, perché le condizioni eccezionali che caratterizzavano la quotidianità delle sette ginnaste professioniste contribuivano a creare delle occasioni perfette per enfatizzare le loro emozioni, veicolandone una rappresentazione chiara e potente che favoriva l’immedesimazione dello spettatore. La distanza dell’esperienza delle atlete da quella dell’adolescente medio, dunque, era compensata dall’analisi di un vissuto emotivo del tutto comparabile, le cui manifestazioni venivano accentuate, in particolare, dal contesto in cui le protagoniste si muovevano seguendo rigide regole e una disciplina ferrea. La disciplina, infatti, è un concetto fondamentale nel mondo dello sport (e non solo), un elemento strutturale che accomuna tutte le specialità, individuali e di squadra, perché rappresenta il requisito – non sempre sufficiente, ma assolutamente necessario – per poter sviluppare il proprio talento e portare il rendimento fisico all’eccellenza. Tutti gli aspetti della vita di uno sportivo sono regolamentati dall’obiettivo finale, ovvero un miglioramento delle performance indirizzato alla vittoria della gara. È dunque questo scopo ultimo a scandire la frequenza degli allenamenti, la qualità della dieta, i ritmi di sonno e la cura di un corpo che deve mantenersi sempre al massimo delle sue potenzialità.

Questa normatività intrinseca definisce la natura dello sport come professione, ma anche come passione coltivata a livello amatoriale, perché è grazie alla costanza e alla ripetizione di una serie di abitudini che il nostro fisico impara a essere sempre più prestante e a superare se stesso, sia quando si corre per l’oro olimpico, sia quando si gioca per il goal decisivo al calcetto del mercoledì sera con gli amici – nonostante le due vittorie abbiano un peso diverso. La stretta interrelazione fra la capacità di darsi una disciplina e il miglioramento delle prestazioni rappresenta, però, un aspetto molto delicato, che può far scattare dei veri e propri meccanismi di dipendenza, dei cortocircuiti che portano l’atleta ad annullarsi, a sprofondare nel suo stesso spirito di sacrificio, rendendo quelli che sono dei mezzi per migliorare la propria condizione fisica, degli agenti patogeni a tutti gli effetti. La “dipendenza da disciplina”, infatti, si traduce in atteggiamenti malsani e compulsivi, spesso orientati alla ripetizione ossessiva, come il rifiuto di riposarsi o di saltare un allenamento, l’impiego di restrizioni alimentari sempre più pesanti – che possono tradursi in un deficit calorico, ma anche in una dieta sbilanciata nel senso dell’eccesso, soprattutto per quanto riguarda i cibi proteici – e in una generale paura dello sgarro, un’ansia incontenibile nei confronti di ogni possibile variazione dello schema, perché essa viene vista come l’irreparabile compromissione di settimane, mesi, anni di lavoro.

Per evitare di oltrepassare la sottile linea che divide eccellenza e malattia, tutti gli sportivi sono affiancati da un team di specialisti e guidati da allenatori, che oltre a dare indicazioni tecniche sulla preparazione della performance, hanno il compito di fornire un adeguato supporto psicologico ed emotivo, che permetta all’atleta di gestire lo stress derivante dalla fatica dello sforzo fisico, dagli alti livelli di competizione – a volte soffocanti – e dal senso di fallimento totalizzante che può assalire a seguito di una gara andata male. L’allenatore e il suo team, dunque, hanno un ruolo e un potere enorme, perché lavorano con un soggetto emotivamente a rischio – come dimostravano i frequenti sfoghi delle ginnaste di Mtv –, che può diventare vittima in primis di se stesso, lasciandosi divorare dall’autodisciplina e arrivando a sacrificare tutto – anche la propria salute – per un’ipotetica vittoria, nella ferma convinzione che non ci sia niente di più giusto da fare. Il ruolo dell’allenatore dovrebbe essere quello di prevenire o di individuare tempestivamente certi comportamenti deleteri, mantenendo l’atleta in uno stato di equilibrio, in modo tale da riuscire a lavorare insieme a lui in uno spazio dove la disciplina è una risorsa e non un principio distruttivo.

Lo scandalo che nel corso delle ultime settimane ha travolto il mondo della ginnastica ritmica è la drammatica attestazione di quanto un ruolo fondamentale come quello dell’allenatore – dotato di autorità, ma anche di grandi responsabilità – se incarnato dalla persona sbagliata possa causare la rottura di questo delicato equilibrio, con ripercussioni violente sulla vita degli atleti e delle atlete, che si manifestano nella forma di gravi discriminazioni, ma soprattutto di veri e propri abusi di potere. La prima a denunciare i maltrattamenti subiti durante la sua parentesi in Nazionale è stata l’ex Farfalla Nina Corradini, che ha parlato di aggressioni verbali e umiliazioni pubbliche da parte degli allenatori, soffermandosi in particolare sul rapporto maniacale con il peso a cui le atlete vengono educate. Corradini definisce gli appuntamenti con la bilancia come dei “rituali”, durante i quali le ragazze sono costrette a pesarsi in mutande davanti a tutti per poi incassare i giudizi severi dei responsabili tecnici, in una dinamica di mortificazione spietata che è comune anche al mondo della danza classica, come è emerso a seguito del caso delle ballerine della Scala risalente a qualche anno fa. Questi dettagli sono stati confermati da Anna Basta – due volte campionessa mondiale della ritmica, oggi ritiratasi – che ha dichiarato di aver sofferto di attacchi di panico e di aver maturato pensieri suicidi quando era all’apice della sua carriera, sottolineando come l’apparato manageriale Azzurro vieti anche solo di mangiare un frutto o di bere mezzo litro d’acqua alla fine degli allenamenti, nonostante sia nota l’importanza di reintegrare sali minerali e vitamine dopo uno sforzo fisico. Questo genere di prescrizioni instaurano un clima di terrore e senso di colpa degno dei blog pro ANA che infestano Tumblr, e che spesso spingono le atlete a sviluppare disturbi come l’anoressia, la bulimia, il binge eating disorder o a ricorrere all’uso spasmodico di lassativi per non ingrassare.

La denuncia delle due ginnaste ha dato il via a una catena di segnalazioni – al momento se ne conterebbero oltre cento – che coinvolgono tutta la ginnastica tricolore. Le stelle dell’artistica Carlotta Ferlito – la cui fama deriva anche dalla partecipazione al programma di cui parlavo sopra –  e Vanessa Ferrari si sono infatti schierate al fianco delle colleghe, la prima dedicando al tema dei disturbi alimentari un lungo video TikTok, dove elenca con precisione delle cifre di peso che risalgono a quando aveva solo otto anni e che ricorda perfettamente, come se fossero dei dati di estrema rilevanza; la seconda, invece, condividendo la sua esperienza attraverso un discorso che si concentra sul fulcro del problema: la demarcazione tra “severità in ottica di disciplina e cattiveria” che nello sport, spesso, non è sufficientemente chiara. 

Carlotta Ferlito

La ginnastica, però, è solo una piccola parte dell’agonismo sportivo, dove il concetto di disciplina viene spesso distorto e abusato proprio da chi dovrebbe tutelare gli atleti, per fare leva su un temperamento perfezionistico che fa parte della professione – e che stando ai dati riportati dalla specialista Renee McGregor, li porterebbe ad avere una prevalenza del 20% di disturbi alimentari rispetto alla popolazione comune – trasformandolo in una fissazione dannosa che ha ricadute decisive sulla loro salute mentale e fisica. Problematiche assimilabili a quelle delle ginnaste, infatti, sono state rilevate anche nel salto in alto, dove la campionessa Alessia Trost – bronzo mondiale e argento europeo indoor – ha rivelato di aver mangiato “quaranta fette di torta” dopo l’eliminazione dal mondiale di Londra 2017 durante una delle sue abbuffate bulimiche, scatenata dalla dieta ferrea e dalla forte delusione. Ancora, nel ciclismo, il bronzo mondiale e olimpico Elisa Longo Borghini ha parlato del difficile rapporto con il cibo come un problema “da non sottovalutare”, imputando le sue cause a preconcetti malati che innervano l’intero ambiente sportivo.

Anche in specialità come il nuoto, lo sci di fondo, il tennis e il pugilato – spesso a partire dalle categorie più basse e non soltanto in Nazionale – si assiste a fenomeni simili, in cui le pressioni e le aspettative, soprattutto quando sono gli allenatori a imporle con violenza, generano una gabbia di regole estremamente costrittive, che non agiscono soltanto sui disturbi dell’alimentazione, ma su tutti i meccanismi di dipendenza legati alla distorsione della disciplina. La suscettibilità del soggetto sportivo e le sue inclinazioni ossessive, dunque, creano il terreno ideale per lo sviluppo di queste particolari forme di dipendenza e depressione, che finiscono per causare ulteriori problemi di salute agli atleti, come l’aumento degli infortuni e l’abbassamento delle difese immunitarie. In questo senso, un abuso di potere può innescare e velocizzare un processo per cui lo spirito di sacrificio, invece di condurre a un miglioramento della condizione fisica, porta il corpo dello sportivo ad ammalarsi. 

Alessia Trost

Il fenomeno di denuncia delle ginnaste invita a riflettere sulla natura bifronte della disciplina, che rappresenta un canale per raggiungere l’eccellenza quando viene applicata nelle giuste misure, ma può trasformarsi in un atteggiamento patologico quando viene portata all’eccesso. Inoltre, mette in luce un pregiudizio pericoloso che innerva il mondo dello sport e che spesso viene trasmesso a chi lo pratica proprio dai suoi insegnanti, gli allenatori, che molte volte educano gli sportivi a mirare al solo risultato, anche quando esso comporta una grave sofferenza o un danno alla salute, tale da poter compromettere irrimediabilmente la loro carriera – o anche la loro vita. Che la pratica sportiva sia basata sulla competizione e sulla vittoria delle gare non è in discussione, ma individuare e contrastare certi abusi di potere significa evitare di alimentare le distorsioni di un ambiente che è per molti aspetti marcio e che necessita di un cambio di paradigma. Per provare ad attuarlo, bisognerebbe innanzitutto garantire un percorso di formazione che prepari gli allenatori non soltanto dal lato tecnico, ma anche da quello psicologico, escludendo dall’esercizio di una professione così delicata chiunque veda nella sua posizione un diritto di sopraffazione sull’altro.

La figura dell’educatore, a prescindere dal settore di cui si occupa, dev’essere adeguatamente preparata a gestire la sua autorità, ma anche le responsabilità che ha nei confronti dei suoi allievi, per evitare vessazioni e soprusi che si verificano anche in ambiti diversi dall’agonismo sportivo, come il mondo del lavoro, dell’arte o della scuola. Dall’altro lato, occorre lavorare con gli atleti, gli studenti e i giovani lavoratori sulla consapevolezza che chi approfitta del proprio potere rappresenta un potenziale pericolo e non qualcuno che agisce per il loro bene, nemmeno quando racconta di volerli rendere la nuova Nadia Comaneci.


Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con Athleta Magazine

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