“Fino a quando la società rifiuterà a una donna l’autorizzazione ad abortire quando sceglie di farlo, la paura delle auto-colpevolizzazioni post-aborto sarà certa ed effettiva come la legge che glielo proibisce. Il problema, allora, è come aiutare le donne ad affrontare la realtà delle emozioni post-aborto mentre si scrollano di dosso i sensi di colpa imposti da qualcun altro […] Forse condividere la mia esperienza personale potrebbe in qualche modo mostrare alle mie sorelle che la colpa e le sue emozioni connesse non devono necessariamente seguire un aborto”. A scriverlo è Carol Driscoll, una delle numerose autrici del manuale di salute della donna Our Bodies, Ourselves, scritto dal Boston Women’s Health Collective in risposta all’oscurantismo sul tema. Era il 1970, tre anni prima che l’interruzione volontaria di gravidanza venisse legalizzata negli Stati Uniti. La testimonianza di Carol è dolorosa e difficile da leggere, perché si tratta della storia di un aborto clandestino, eseguito sul tavolo della cucina di casa sua da un’infermiera. Carol non ha sensi di colpa, ma ricorda quella esperienza in modo negativo per la paura e il dolore che ha provato. È anche convinta che se l’aborto fosse stato legale e sicuro, l’avrebbe vissuto come una liberazione.
Oggi, in gran parte dell’Occidente, l’IVG è legale e sicura. In Italia, tolti i ben noti e gravi problemi sull’alto numero di obiettori, secondo la legge 194/78 che ha depenalizzato l’IVG nel nostro Paese, ogni donna ha diritto di abortire senza rischi e soprattutto di essere informata su quello a cui va incontro. Spesso, però, questo diritto si scontra con una visione a senso unico: che abortire sia sempre un trauma, un dolore insuperabile, un errore, un rimorso, una colpa, una scelta sbagliata. E così, esattamente come nel 1970, si ricorre a questa pratica con il terrore di quello che arriverà dopo essere uscite dall’ospedale. Quasi nessuno parla di aborto come di un’esperienza che può avere conseguenze diverse per ogni persona: per qualcuna sarà senz’altro quella del dolore – legittimo, comprensibile e rispettato – ma per qualcun’altra sarà quella della liberazione, del sollievo per la ritrovata autonomia. Ma questa narrazione, a differenza di quella del dolore e del senso di colpa, è un immenso tabù.
Negli anni Settanta, quando la discussione sul diritto di aborto entrò nel vivo, il neonato movimento femminista italiano si schierò in modo compatto attorno a uno slogan: “L’utero è mio e lo gestisco io”. Si rivendicava l’aborto libero come pratica di autodeterminazione proprio perché per ottenere quel diritto serviva assumere una posizione forte, radicale e inequivocabile. Poi, nel 1978 dopo un lungo compromesso con le forze democristiane e il referendum, la legge è arrivata e l’aborto è stato depenalizzato. Assieme però si è fermata anche la discussione sull’IVG nella società civile e così quella retorica a senso unico del dolore ha trovato un terreno fertile da altre parti – cioè tra chi si oppone alla 194 – ed è diventata in qualche modo quella egemone.
Una pratica molto comune degli ambienti pro life e antiabortisti in generale è quella di sfruttare l’esperienza di una donna che ha abortito e se n’è pentita per i propri fini, cioè dimostrare che l’aborto è un omicidio e che la legge 194 va cancellata. È la vittoria definitiva della retorica del dolore, che insiste su “bambini uccisi”, sofferenza, lacrime, donne pentite che si “mettono in ginocchio davanti a Dio” per chiedere perdono, “ingannate e illuse dalla imperante cultura di morte”. È uno sfruttamento utilitaristico del corpo e dell’esperienza femminile per fini politici – diciamolo apertamente, visto che le connessioni tra pro life ed estrema destra sono ben note. Una donna è libera di vivere l’IVG come un’esperienza dolorosa, così come un’esperienza positiva perché consapevole e ponderata, ma nessuno dovrebbe sentirsi legittimato a usare la sua storia personale per impedire ad altre donne di compiere una scelta che resta legittima, legale e sicura.
Anche senza arrivare agli estremismi dei pro life, questa retorica è scivolata in modo abbastanza facile nel discorso mainstream: articoli di giornale, film, libri raccontano l’aborto nei termini di un dolore che è sempre necessario, espiatorio, universale e che risponde a quell’idea che le donne siano tutte un unico gruppo compatto con le stesse aspirazioni, gli stessi sentimenti, lo stesso vissuto. E non mi riferisco a chi subisce un aborto spontaneo, ovviamente, ma chi compie la scelta di interruzione volontariamente e con coscienza.
C’è anche un nome per questa narrazione: “sindrome post abortiva” uno strillone che campeggia spesso e volentieri sulle testate cattoliche. Questa sindrome, molto simile a quella post-traumatica da stress, che includerebbe senso di colpa, ansia, angoscia, tristezza, senso di vuoto, dipendenze da alcool o da droghe, autolesionismo, pensieri e tentativi di suicidio, in realtà, non poggia su alcuna evidenza scientifica: un lungo studio dell’American Psychology Association, durato trent’anni, ha riscontrato che l’incidenza di depressione nelle donne che hanno terminato una gravidanza con l’aborto è uguale a quella delle donne che l’hanno terminata con il parto. Altre ricerche, come il Turnaway Study hanno invece dimostrato gli errori metodologici negli studi che hanno trovato una correlazione diretta tra salute mentale e IVG, osservando come le conseguenze più difficili siano state subite dalle donne che hanno trovato ostacoli e resistenze nell’accesso alla pratica.
In Francia la psicosi della sindrome post abortiva ha addirittura reso necessario l’intervento del governo, che ha passato una legge per punire i siti pro life che diffondevano false informazioni sull’aborto. Questi siti usavano un clickbait aggressivo, indirizzando a sé il traffico dei motori di ricerca sulle informazioni riguardo l’IVG. Il governo francese ha anche creato un sito dedicato, con guide scaricabili, una helpline telefonica, video e infografiche. In Italia una cosa simile è impensabile e infatti la divulgazione chiara e scientifica è in mano a volontarie, attiviste e ginecologi militanti che a volte dedicano la propria vita alla causa.
Tra queste, un progetto lodevole è il blog, e la pagina Facebook collegata, “IVG, ho abortito e sto benissimo”, curato dalla psicologa Federica Di Martino e dalla ginecologa e presidente dell’associazione Vita di Donna Elisabetta Canitano. L’obiettivo è quello di contrastare la retorica del dolore legata al tema dell’aborto, e di raccontare storie vere: “Oggi più che mai non si parla di aborto, se non in termini negativi, che instillano il senso di colpa tale da relegare questa esperienza a un tabù a cui non è più possibile accedere”, si legge nel blog. “Noi crediamo che la nostra vita si componga di storie e di racconti che, uniti in questo tentativo di raccolta testimoniale condivisa, possano inscrivere una nuova narrazione che ci veda come donne protagoniste nuovamente dei nostri corpi e dei nostri diritti”.
Sin dalla sua apertura nell’ottobre 2018, “IVG, ho abortito e sto benissimo” ha attirato molte attenzioni: “Ci sono state tantissime donne che hanno sentito l’esigenza di raccontare la propria esperienza e di trovare un luogo dove la propria storia potesse trovare accoglienza. Le donne che abortiscono e che per questo si sentono bene paradossalmente sono le più isolate, perché non sentono di poterlo raccontare”, spiega Di Martino. “Naturalmente ci sono state anche delle critiche: dire che ci si può sentire bene dopo una IVG è una cosa intollerabile per alcuni, che sono ancora legati all’idea che una donna nasca per diventare madre, e laddove questo non avviene per sua volontà, la donna viene tacciata di egoismo, di essere senza cuore, di non essere una ‘vera’ donna. Dire ‘ho abortito e sto benissimo’ è una rivoluzione minima rispetto a un assetto culturale patriarcale ormai determinato, ma necessaria”.
Notizie ProVita ha subito definito “IVG, ho abortito e sto benissimo” “il blog shock per rendere banale l’aborto”, anche se a voler ben vedere chi lo rende insignificante è proprio il movimento pro life, che ne parla in modo quasi ossessivo, diffondendo notizie false e allarmistiche come quelle sulla correlazione tra aborto (volontario o spontaneo) e cancro al seno, ampiamente sbugiardata. “C’è chi ci accusa di paragonare l’aborto a un metodo contraccettivo”, aggiunge Di Martino. “In realtà stiamo parlando di due pratiche totalmente differenti: l’uso della contraccezione va favorito e agevolato, ma questo non vuol dire che debba andare a scapito del diritto all’interruzione di gravidanza, che va sempre tutelato. Anche perché chi è più ferocemente contrario all’aborto, come i pro life, è anche contrario alla contraccezione”. Ma allora perché hanno così tanto seguito e riescono a infiltrarsi dappertutto, ad appendere i loro manifesti ridicoli nel centro delle nostre città e a monopolizzare a tal punto il discorso?
Secondo Elisabetta Canitano c’è stato un cambio di rotta: “I pro life hanno rinunciato alla battaglia istituzionale contro l’IVG, e quindi puntano direttamente alle donne. La bugia della sindrome post abortiva serve a travestire da bontà le idee di chi vuole impedire la loro libera scelta. Anziché dire ‘non vogliamo che voi donne possiate scegliere’, hanno cominciato a dire ‘noi ci preoccupiamo della vostra salute’, che è più efficace”. La ginecologa fa notare che lo stesso impianto retorico è stato usato per monopolizzare il dibattito sulla RU486, la pillola abortiva. “I pro life hanno contestato l’introduzione dell’aborto farmacologico dicendo due cose opposte: che è l’aborto facile, fai da te, e che la pillola uccide il feto e anche la madre, e che loro volevano semplicemente proteggerla. Ma allora com’è questa pillola, facile o mortale? Come puoi fare in casa l’aborto che ti ammazza? Non ha senso. L’importante è che la donna abbia paura di interrompere la gravidanza, e che dall’altro lato ci siano loro pronti ‘a difenderla’”.
Anche Chiara Lalli, esperta di bioetica e autrice del libro La verità, vi prego, sull’aborto, è dello stesso avviso: “I pro life hanno cambiato strategia. Hanno capito che parlare della vita dell’embrione è troppo difficile e rischioso, si va su un terreno filosofico, bioetico. Fa molta più presa dire a una donna che soffrirà per sempre dopo un aborto. Sono bravi: si sono presi lo slogan ‘Noi siamo a favore della vita’, e chi può contraddire a uno slogan simile? Nessuno è a sfavore della vita, solo un assassino, e su questo assunto retorico trionfano”. Un’altra argomentazione molto utilizzata è che dire che si può stare bene dopo un aborto significa banalizzarlo, o addirittura trasformarlo in un’esperienza divertente: “Nessuna donna si diverte ad abortire, è ovvio”, dice Lalli. “Esattamente come nessuna persona si diverte ad andare dal medico e sottoporsi a un qualsiasi trattamento sanitario. Non è che fare un’IVG debba essere per forza un trauma oppure un divertimento. È questa polarizzazione che è nociva e che dobbiamo combattere”.
Sia Lalli che le curatrici di “IVG, ho abortito e sto benissimo” riconoscono che negli ultimi anni c’è stato un enorme passo indietro sulla narrazione dell’aborto, quasi come se il diritto ormai garantito dalla legge fosse dato per scontato. Purtroppo, lo stigma e la retorica del dolore dimostrano che la legge non è sufficiente per dirci completamente libere di scegliere cosa è meglio per noi e per il nostro corpo, senza contare il problema endemico dell’obiezione di coscienza. Per contrastarlo, le ginecologhe Silvana Agatone, presidente di LAIGA (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della Legge 194/78), Elisabetta Canitano, Concetta Grande e
Giovanna Scassellati, Responsabile UOSD salute riproduttiva dell’Ospedale San Camillo di Roma hanno dato vita a una petizione per la corretta applicazione della 194, sottolineando che poco più della metà degli ospedali garantisce il rispetto della legge.
A questo si aggiungono due considerazioni necessarie: la prima, sollevata da Canitano, è che i pro life stiano invadendo sempre più il campo dell’aborto terapeutico. Dopo quarant’anni, hanno capito che le donne che sono costrette oppure vogliono interrompere la gravidanza per ragioni mediche sono molto più combattute di coloro che decidono di farlo per altre ragioni, questo perché si tratta di donne (e coppie) che un figlio lo vogliono avere. È il terreno perfetto per far aderire e trionfare la retorica del dolore, perché sono senza dubbio situazioni che lo prevedono: e così si sfrutta questo dolore per fare funerali e cimiteri di feti, muri del pianto virtuali per bambini mai nati, hospice di neonati terminali. L’obiettivo è quello di portare la donna al parto a prescindere dalle condizioni del feto, convincendola che fare altrimenti comporterebbe non soltanto l’ovvio dolore, ma anche la consapevolezza di aver commesso un omicidio con l’aborto. Questo, ovviamente, a prescindere dal benessere psicofisico e dalla salute della madre, senza considerare che il figlio che verrebbe al mondo, presumibilmente vivrebbe una breve vita di pura sofferenza. Una persona ovviamente ha diritto di credere che la vita cominci dal concepimento, ma questo non significa che le proprie convinzioni debbano diventare una legge morale da imporre alle altre persone, specialmente se questa imposizione avviene con l’inganno o mettendo in pericolo le donne. I recenti casi di cronaca lo dimostrano: la donna di Napoli in travaglio con un feto privo di battito cardiaco, salvata solo grazie all’intervento di un medico non obiettore di un’altra struttura; la vicenda di Valentina Milluzzo, lasciata morire a seguito di un’infezione dopo un aborto spontaneo; la madre suicida nel Tevere con due gemelle, con alle spalle la morte della terza, nate al Gemelli tramite procreazione assistita e gravemente disabili.
La seconda considerazione è che visto l’attuale clima reazionario in cui si trova il nostro Paese, ci sono tutti i segnali per dire che adesso, nel 2019, anche la legge 194 non è più così al sicuro. In molti comuni sono state approvate le cosiddette mozioni “a favore della vita”, documenti che parlano di “uccisioni nascoste” e presentano dati e numeri completamente inventati. Questa iniziativa non va sottovalutata. I pro life sono potenti: hanno un sacco di soldi, fanno lezioni nelle scuole e conferenze nelle sale del Senato, hanno mezzi di comunicazione di massa molto efficaci, hanno le loro sedi all’interno degli ospedali. Come se non bastasse, adesso hanno anche un ministro al governo e dalla loro parte quasi tutta la destra europea.
Ora più che mai è necessario parlare di aborto. E parlarne in modo realistico e responsabile, distruggendo la narrazione del dolore e tornando a rendere protagoniste le donne con le loro storie, tutte egualmente importanti, tutte egualmente legittime. Il libro più famoso del femminismo italiano, scritto dalle donne che hanno lottato nella stagione del referendum sull’IVG si intitola Non credere di avere dei diritti. Prima che ci tolgano il diritto all’aborto, proteggiamo il nostro diritto a raccontarlo.