La crime fiction ha portato al pubblico alcune delle serie più interessanti degli ultimi anni. Ci ha stupito l’unione di realtà e finzione di serie come The Jinx e Making a Murderer che ripercorrono, a metà tra documentario e ricostruzione, le vicende giudiziarie di alcuni casi celebri della cronaca nera statunitense. Siamo rimasti affascinati da The Night Of, un noir ambientato a New York valorizzato dalla recitazione di John Turturro. Ora è il momento di When they see us, che attraverso il genere crime riesce a portare al centro del dibattito pubblico il tema dell’ingiustizia e del razzismo.
Anche in questo caso la serie prende spunto da una vicenda davvero accaduta: a New York, il 19 aprile del 1989, una trentina di ragazzi neri di Harlem si ritrova a Central Park per “biancheggiare”, ovvero per “fare casino” commettendo atti di vandalismo. Poche ore dopo la polizia trova una donna in fin di vita in seguito a una violenza sessuale e, pensando immediatamente che i ragazzi siano coinvolti, ne arresta alcuni, che hanno tutti tra i 14 e i 16 anni. Le evidenti brutalità subite dalla donna, la pressione dell’opinione pubblica e l’urgenza di trovare un colpevole fa montare il caso in poche ore. La polizia decide di torchiare i ragazzi e, grazie a una serie di condizionamenti psicologici, riesce a estorcere un’ammissione di colpevolezza a cinque di loro, pur essendo innocenti. Da questo punto prende avvio un processo in cui parte della stampa li tratta alla stregua di una baby gang, mentre altri si schierano in loro difesa invocando la questione razziale. Come chiarito nell’esordio del primo episodio, i cosiddetti “cinque di Central Park” verranno tutti condannati nonostante la giovane età.
La serie mette in scena la New York degli anni Ottanta, con Run DMC e Public Enemy in sottofondo, vestiti e citazioni d’epoca, e i richiami a quell’immaginario che hanno fatto la fortuna di un altro prodotto Netflix come Stranger Things. L’atmosfera cambia velocemente quando nella vita dei ragazzi irrompono i poliziotti, privandoli della libertà sulla base di speculazioni arbitrarie. La violenza psicologica degli interrogatori, la pressione subita dai presunti colpevoli e la decisione di incolpare dei neri di estrazione modesta perché è più facile identificarli come carnefici, richiamano quanto già visto in The Wire. La mediatizzazione della giustizia e l’ambizione inquinano il corretto funzionamento della macchina statale, che quando deve trovare un colpevole in tempi brevi cede spesso al pregiudizio razziale.
Gli accusati sono i quattordicenni Kevin Richardson, picchiato dalla polizia nel momento dell’arresto, Antron McCray, spinto a confessare il falso dal padre già pregiudicato e intimorito dagli agenti, e Raymond Santana, ispanico ingannato da una falsa promessa di libertà dei detective. A questi si aggiunge il quindicenne Yusef Salaam, che viene interrogato in assenza dei familiari, e Korey Wise, che viene fermato in un secondo tempo, perché si presenta in commissariato per aiutare l’amico Yusef. Gli investigatori li spingono ad accusarsi l’un l’altro in modo da costruire il movente del branco.
Il racconto del processo mostra da una parte l’accusa che si focalizza sulla retorica della violenza di gruppo aggravata dal pregiudizio razziale, cercando di convincere il pubblico e autoconvincersi, fino a fabbricare prove false pur di vincere il processo. Dall’altra ci sono gli adolescenti, che fanno fronte comune, imparano a conoscersi e rafforzano un’amicizia che durerà molti anni. Nel mezzo si trova un’opinione pubblica divisa, le contestazioni e i titoli sensazionalistici della stampa, le arringhe di chi vuole condanne severe, come un giovane Donald Trump che compra la prima pagina di vari giornali newyorkesi per invocare la reintroduzione della pena di morte.
Fuori e dentro le aule del tribunale si muovono due attori importanti: la famiglia e la difesa. Alle famiglie toccano il peso delle polemiche e delle spese legali e l’impotenza di fronte al potere delle forze dell’ordine che hanno messo sotto accusa i loro figli. Il dramma degli adolescenti è quello delle madri che combattono e rilasciano dichiarazioni ai media, alla costante ricerca di un sostegno morale ed economico. Il processo finisce per logorare la stessa coesione dei nuclei familiari, creando nuovi problemi e aggravando quelli già esistenti. A supportarli si trova il pool di avvocati della difesa, coinvolti nel processo per i motivi più disparati. C’è il brillante avvocato d’ufficio – come Mickey Joseph, interpretato da Joshua Jackson –, chi cerca di sfruttare l’occasione per farsi pubblicità, chi lo fa per questioni politiche, o chi lo fa per solidarietà nei confronti dei ragazzi, pur non avendone le capacità. La diversità di motivazioni e opinioni degli avvocati sarà una delle cause principali dell’esito del processo.
When they see us non è il solito legal drama ambientato nelle aule dei tribunali statunitensi. La serie cerca di andare oltre la vicenda processuale, mostrandoci la vita dei ragazzi condannati al carcere. Negli episodi vengono raccontati gli anni di detenzione dei condannati e, una volta scontata la pena, il loro reinserimento nella società. L’accusa mossa dalla serie – con la capacità di allargare il punto di vista all’intera società, ancora come nella scrittura di The Wire – non è solo al sistema giudiziario statunitense, ma anche a quello carcerario. I cinque ragazzi avranno destini differenti: per alcuni la vicinanza della famiglia e la forza di volontà basteranno per superare l’esperienza, ma altri dovranno affrontare le gerarchie ufficiose del carcere, imparando cos’è il crimine proprio negli istituti che avrebbero dovuto rieducarli.
Lo stigma della condanna accompagna i cinque anche quando ritornano in libertà nei primi anni Duemila. Di nuovo il prodotto Netflix è minuzioso nel raccontare l’impatto con la vita degli ex detenuti, con le famiglie che nel frattempo hanno cambiato composizione o atteggiamento nei loro confronti, la difficoltà di trovare un lavoro e sentirsi accettati nella società e la paura di essere ancora indicati dai passanti come stupratori. I cinque di Central Park sanno bene che la loro vita, sconvolta dalla condanna per un crimine che non hanno commesso, non è più la stessa: alcuni soffrono in solitudine per la loro condizione, mentre altri scelgono il crimine per sopravvivere.
Ogni sfumatura della vicenda viene trattata con la giusta dose di complessità: la capacità di non focalizzarsi su un solo elemento – come il procedimento in tribunale o la ricostruzione del crimine –, ma di prendere in considerazione l’intera struttura del caso, diventa il principale punto di forza di When they see us. Se il processo ha occupato le prime pagine di tutto il mondo, è stato il disinteresse collettivo ad accompagnare i 15 anni di carcere dei condannati, il peso di sapersi innocenti e il difficile ritorno in una società cambiata, dopo aver perso l’intera gioventù in prigione. Il caso è anche un’occasione per riflettere su una frattura sempre più profonda della società statunitense ancora difficile da sanare: la piaga della discriminazione si mostra nella serie in tutta la sua ferocia, insieme ai meccanismi e alla retorica dietro al pregiudizio razziale.
When they see us denuncia le estreme conseguenze a cui può portare lo stereotipo dell’uomo nero che minaccia una donna bianca, un falso mito radicato tanto nella società statunitense quanto in quella europea, che dimentica come le violenze sessuali siano commesse per la maggior parte da uomini bianchi. La serie non dimentica neanche le disfunzioni del sistema giudiziario, di quello carcerario e della società che fatica a reintegrare chi si trova ai suoi margini. Il ventaglio di temi affrontati da When they see us in modo così rigoroso e fedele ai fatti la rende una visione fondamentale in un momento in cui i diritti civili sono sotto attacco in tutto il mondo e la sorte dei cinque di Central Park potrebbe toccare a chiunque di noi.