“Unrelated” ci mette davanti alle possibili scelte che avremmo potuto prendere e non abbiamo preso - THE VISION

La realtà, probabilmente, non è mai stata tanto mobile, instabile, mutevole quanto lo è oggi. Ci troviamo continuamente ad assistere a rivolgimenti che, pur avvenendo in un luogo preciso del mondo, spesso anche molto distante da quello in cui ci troviamo, mostrano con evidenza la loro risonanza globale, coinvolgendoci in un enorme effetto farfalla che, tra le altre cose, ha modificato in modo radicale anche il nostro concetto di “casa”. In un mondo dove tutto può cambiare da un momento all’altro – e che spesso ci costringe a cambiare con lui –, infatti, casa non è più qualcosa di dato, di fisso e immutabile, legato a doppio filo con le nostre origini e con le scelte della nostra famiglia, ma qualcosa che dobbiamo cercare, costruire, fare nostro, ritagliandoci uno spazio il più possibile adatto a noi. Ci penso ogni volta che torno nel posto in cui sono nata, dove anche se le cose sembrano muoversi in slow motion, ai ritmi della provincia, tutto mi appare sempre diverso e irriconoscibile, estraneo alla mia vita per com’è ora – senza riuscire mai davvero a capire che cosa sia cambiato davvero, se io o ciò che ho intorno.

Casa, oggi, può essere ovunque, in qualsiasi luogo con cui sentiamo di avere un’affinità, a patto che accettiamo di nutrire questo legame, coltivando un’affezione fatta dei ricordi che vi abbiamo costruito, delle persone che abbiamo incontrato, delle scelte che ci hanno segnato e che abbiamo fatto proprio lì, magari imprimendo una nuova direzione alla nostra esistenza. Come in una sorta di poligamia geografica, che ci connette ai luoghi della nostra vita, quelli a cui sentiamo di appartenere anche se sono diversi e distanti, o se ci abbiamo trascorso soltanto una vacanza, e che saranno per sempre casa quando decideremo di tornarci, perchè li abbiamo in qualche modo “conquistati”. È questa l’esperienza che vive Anna, la protagonista di Unrelated, esordio alla regia dell’autrice inglese Johanna Hogg, in un momento in cui sente il bisogno di cercare casa lontano dal luogo che ha sempre riconosciuto come tale, nel corso di un’estate in Toscana che sembra durare una vita.

La potenza di Unrelated – che significa letteralmente “privo di legami” e in italiano si traduce come straniero, alieno, estraneo – sta infatti proprio nella ricostruzione di Anna (interpretata dall’attrice inglese Kathryn Worth) alla ricerca di casa, intesa come luogo interiore più che fisico. La sua permanenza in un casale in Toscana, ospite di un’amica d’infanzia che sta trascorrendo le vacanze estive in compagnia della famiglia, diventa la metafora di un’impresa che è faticosa per chiunque tenti di compierla: mettere radici, trovando rispecchiamento non solo in un particolare luogo del mondo, ma soprattutto nelle scelte che per mille diversi motivi ci hanno portato ad abitarlo – che sia per reale desiderio, necessità o per caso. La fuga estiva della protagonista lontano dalla sua “vita vera” continua così a oscillare per tutto il film tra l’occasione e l’esilio, tra la possibilità di emanciparsi da una vita che non la soddisfa più, provando a immaginare un altrove in cui costruirsene una nuova; e la paura di sradiscarsi, lasciando ciò che già c’è per qualcosa di diverso, ignoto.

Il motivo per cui Anna si sente un’aliena, un’estranea che deve – e apparentemente vuole – imparare ad adattarsi a un contesto sconosciuto, non è dovuto soltanto al divario sociale che la separa dai suoi ospiti, molto più ricchi di lei, e che Hogg segue nelle loro abitudini da borghesi annoiati – i lunghi bagni in piscina, gli aperitivi con il Negroni, le maratone di chiacchiere notturne a parlare di questo o quel saggio filosofico letto nel corso dell’anno – come se stesse girando un documentario scientifico su una specie animale ancora mai osservata dagli zoologi. La protagonista vive soprattutto un forte senso di instabilità emotiva che la fa sentire esclusa dall’agio e dal divertimento degli altri personaggi, perché si trova sulla soglia di diversi bivi esistenziali: non sa se lasciare o meno il marito, se cedere alla tensione sessuale che la lega al ventenne Oakley – ruolo interpretato da un giovanissimo Tom Hiddleston, alla sua prima apparizione in un film –, se assecondare le aspettative degli adulti, che la vorrebbero più partecipe ed entusiasta del loro mondo fatto di gite fuori porta, vernissages e costosi servizi da tavola in porcellana, o se seguire l’istinto di ribellione ai parametri sociali che la avvicinerebbe al gruppo di ragazzi ventenni, figli dei suoi coetanei, da cui sembra quasi voler assorbire un po’ della leggerezza di un’età passata. Se per un attimo Anna sembra trovare il suo posto nel gruppo di ragazzi, stringendo con loro un legame di amicizia nonostante la differenza anagrafica, l’umiliazione del rifiuto da parte di Oakley e l’incapacità di custodire un segreto che questi tenevano ai loro genitori finiscono per metterla di fronte alle loro inevitabili incompatibilità, sospingendola verso le responsabilità di un’età adulta che lei sembra voler a tutti i costi fuggire, forse perché pensa di non riuscire a reggerle tutte.

Il passato da regista televisiva di Hogg emerge dallo sguardo che dedica ai suoi personaggi, che vengono ripresi in attività quotidiane utilizzando una videocamera amatoriale come se si trattasse di un reality show, con gli stessi tempi dilatati della vita in streaming, scanditi da dialoghi e azioni che non sembrano pensati per far avanzare la trama, ma soltanto per perpetuare un’ordinarietà banale, fino a descriverla nei suoi minimi dettagli. Osservando i comportamenti dei personaggi dall’alto, senza soffermarsi mai sul loro approfondimento psicologico, la regista crea infatti una distanza tra il loro benessere e l’irresolutezza di Anna, che vive nel corso di tutta la vacanza la fatica delle scelte che sembrerebbe sempre in procinto di fare, anche se gli altri non danno l’impressione di accorgersene, come se fossero del tutto impermeabili al sentimento del dubbio. Questi contrasti appaiono ancor più stridenti se rapportati al paesaggio che fa da sfondo al film: quello di un agosto caldo e assonnato dove sembra non esistere il tempo, identico ai ricordi di ciascuna delle “vacanze italiane” trascorse con i miei genitori, e che non mi aspettavo di ritrovare con così tanta precisione negli occhi di una regista straniera. Le scene delle telefonate di aggiornamento che la protagonista fa al suo compagno, rimasto in Francia, si staccano dalle distese di campi arsi, dalle strade di una Siena febbrile in attesa del palio, dai lunghi sentieri sterrati che portano a chissà quale minuscolo comune toscano, in un’atmosfera che non può reggere il peso delle scelte di Anna, e sembra volerla trattenere nell’assoluto disimpegno delle ferie, come una forza di gravità che la tiene attaccata allo status quo, impedendole ogni possibile passo avanti.

Utilizzando Anna come suo alter ego, Hogg affronta fuori da ogni stereotipizzazione il tema degli anni che passano, dell’età che avanza e soprattutto quello dei pregiudizi che la società impone alla nostra vita – ancora particolarmente opprimenti quando si tratta di valutare le scelte di una donna, in termini estetici, di carriera, ma anche per quanto riguarda la sfera affettiva e il desiderio di costruirsi o meno una famiglia. Avendo girato il suo primo film a 47 anni, la regista inglese rappresenta infatti in prima persona l’esempio di un percorso artistico libero da deadline e presunti obiettivi a scadenza, quelli che spesso, guardando alle nostre personali aspirazioni, ci convinciamo di dover necessariamente portare a termine entro un certo limite anagrafico, pena il fallimento. Per questo l’esperienza di Anna viene raccontata evitando di farla rientrare in una sorta di “crisi di mezza età”, e approfondendo invece la fatica, il disagio, l’imbarazzo che la protagonista prova nel volersi riappropriare di una libertà che non pratica da tempo, probabilmente perché non la riteneva adatta alla sua età e ancor di più al ruolo che la società le ha cucito addosso, anche se ciò continua a renderla infelice. Il climax di questo malessere sopito esplode in una delle scene finali, quando Anna rivela alla sua amica d’infanzia di aver confuso alcuni dei primi sintomi della menopausa con i segnali di una gravidanza, subendo la profonda delusione di non poter più avere dei figli, anche se questo sarebbe stato uno dei suoi pochi desideri realmente sentiti, non imposti.

Unrelated, nonostante descriva una situazione di ostentata serenità, si rivela dunque un racconto doloroso e struggente che scava nei rimpianti, nelle speranze, nelle rinunce e nelle aspirazioni – vecchie e nuove – della protagonista, ormai da tempo incapace di sentirsi a casa nella vita che si è scelta. L’abilità con cui Hogg immerge lo spettatore in un continuo “what if”, che ci costringe a immaginare i possibili sviluppi di ognuna delle scelte alternative che Anna potrebbe intraprendere, mantiene la tensione fino all’ultima scena, che sembra annullare il potenziale slancio di queste linee narrative, nel momento in cui la protagonista lascia la Toscana per tornare dal compagno a fine vacanza, come se nulla in lei fosse cambiato. Mentre l’auto si allontana dal casale, è difficile dire se lo sguardo che Anna rivolge al paesaggio fuori dal finestrino riveli un sentimento di sincera accettazione o nasconda una rinuncia sofferta. Forse, a ben guardare, c’è dentro soltanto l’affetto nei confronti di un luogo che, per qualche settimana, l’ha accolta con la promessa di una vita nuova, permettendole di crederci un po’ di più.

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