
Da quando, nel 2017, Whatsapp ha introdotto la possibilità di condividere la propria posizione in tempo reale, mi pare che le informazioni sulle coordinate geografiche che occupiamo in un determinato momento siano in qualche modo diventate parte integrante del nostro codice affettivo. Anche se credo che nulla come la geolocalizzazione abbia influito negativamente sul senso dell’orientamento della maggior parte di noi, soppiantando bussole, cartine, e tentativi di lettura delle stelle, c’è qualcosa di molto rassicurante nella possibilità di apprendere all’istante la posizione di qualcuno che vorremmo incontrare, accorciando i tempi, restringendo l’attesa. Forse perché questa sensazione soddisfa almeno in parte un desiderio di controllo – più o meno sano – che abbiamo nei loro confronti; o forse perché in questo modo ci sentiamo per certi versi attori, creatori di una coincidenza perfetta. L’integrazione di questa funzione all’interno di un’app utilizzata da oltre due miliardi di utenti al mondo sembra dunque avere aperto la strada a un nuovo modo di comunicare l’affetto. Come se avessimo bisogno di una modalità di linguaggio non verbale che ci permetta di far sapere alle persone a noi vicine che, anche partendo da luoghi lontani, incontrarsi non sarà un problema.
Anna (Rosa Palasciano) e Nadia (Yeva Sai), protagoniste di Taxi Monamour – l’ultimo film del regista romano Ciro de Caro disponibile su Mubi – si incontrano così, con un incastro perfetto, come se si fossero condivise la posizione, trovandosi per coincidenza alla stessa fermata del bus durante una delle tante notti in cui i mezzi pubblici di Roma smettono di funzionare. A partire dal momento in cui Anna decide di seguire Nadia con la Volvo del marito, utilizzando l’auto proprio come fosse un Taxi per darle un passaggio a casa, tra le due donne inizia infatti a costruirsi un rapporto che è strettamente legato alle loro rispettive posizioni geografiche, alle distanze spaziali che le separano, e ai percorsi che devono fare per raggiungersi reciprocamente, dato che la loro confidenza cresce quanto più si infittisce la mappa dei tragitti condivisi in macchina.
Taxi Monamour, da questo punto di vista, sembra un road movie aggrovigliato su sé stesso, dato che le due protagoniste viaggiano continuamente, ma senza andare mai oltre lo spazio di un paio di isolati della città in cui vivono. L’auto guidata da Anna rappresenta fin da subito l’incubatrice del loro rapporto: il luogo in cui, da spettatori, si iniziano a notare tra le due donne delle somiglianze sempre più evidenti – seppur contrastate dall’aspetto di due attrici che dal punto di vista fisico, invece, non si assomigliano in nulla. Scena dopo scena, l’impressione è quella di arrivare a poterle considerare quasi come le due figure speculari di un doppio: entrambe fiaccamente tristi, escluse dalla rete sociale che le circonda – anche quella minima rappresentata dalla famiglia –, impotenti di fronte alle difficoltà che stanno rispettivamente cercando di affrontare – e che toccano alcuni temi d’attualità tra i più significativi, in particolare la descrizione della solitudine contemporanea. Per Anna, questi ostacoli si identificano in particolare con la precarietà lavorativa, la freddezza della relazione con il marito, e l’incapacità di accettare il confronto con una malattia ignota – allontanata al punto da non essere mai chiamata per nome nel corso del film, ma solo evocata attraverso i blister delle medicine che la donna si rifiuta di assumere. Per Nadia, migrante ucraina in fuga dalla guerra, riguardano invece i tentativi spesso fallimentari di trovare un posto in un Paese diverso da quello d’origine, cercando di convivere con l’impellente desiderio di voler tornare a casa. Ognuna delle due donne decide però di mantenere privato il proprio dramma, senza confidarlo a nessuno, tanto meno all’altra, quasi che a entrambe mancassero le energie per esternarlo, renderlo realtà.
Come aveva già fatto nel 2021 con il suo precedente lungometraggio Giulia – di cui Rosa Palasciano è stata protagonista, ma anche co-sceneggiatrice, come per Taxi Monamour – De Caro decide di indagare due figure femminili in costante lotta con una realtà che non sembra essere adatta alla loro esistenza. Così come era stato per Giulia, anche Anna e Nadia sono infatti costrette a muoversi in una spazio vitale – astratto, che non ha strettamente a che fare con la città che abitano, o almeno non solo – che per un motivo o per l’altro non le corrisponde – in termini di bisogni, aspirazioni, desideri –, rendendo quindi ogni momento della loro vita estremamente faticoso e frustrante, e facendo della loro difficoltà un elemento incomunicabile a chiunque non si trovi nella medesima situazione – dunque incomprensibile ai personaggi maschili, che in Taxi Monamour non sono altro che apparizioni fugaci e del tutto disinteressate alla disperata ricerca delle protagoniste di una qualche forma di sollievo. Le esperienze dolorose che coinvolgono le due donne appaiono come emanazioni di una inadeguatezza che non appartiene alle protagoniste, ma permea l’ambiente attorno a loro, riversandosi immancabilmente sulle loro vite. Per questo il cinema di De Caro e Palasciano sembra in qualche modo rievocare e rielaborare il nucleo concettuale profondo dell’architettura femminista, mettendo in scena un luogo dai confini sfocati, potenzialmente estensibile all’infinito, che sembra essere stato progettato senze tenere conto delle esigenze femminili, finendo inevitabilmente per complicare la vita delle donne che lo abitano, fino a farle sentire schiacciate e oppresse – esattamente come gran parte delle citta moderne, denunciate per le stesse ragioni dalle teoriche del femminismo.
La stessa città di Roma, per come viene mostrata e raccontata, è parte di questa metafora, dato che è stata resa un ambiente irriconoscibile durante tutto il corso del film. Le scene prevalentemente in notturna, le immagini sfocate e frammentate che si riescono a scorgere a tratti dai finestrini della Volvo, l’assenza totale dei punti di riferimento e dei simboli che rendono inconfondibile la sua identità urbana sono tutti elementi che concorrono a ridurre una delle città più note, inconfondibili e cinematografiche del mondo, all’anonimato. La trasformazione di Roma in un non-luogo contribuisce così ad acuire il senso di disorientamento di Anna e Nadia, che muovendosi in questa ambientazione divenuta paradossalmente insignificante per lo spettatore, non possono che apparire ancor più isolate e sole, come se fossero due figure incollate in un secondo momento su uno sfondo che in realtà non gli appartiene. L’unica via di interazione tra la città e le protagoniste è invece quella sonora, che si inserisce tra i loro dialoghi rendendoli spesso indecifrabili, perché coperti ora dai rombi del traffico, ora dalla musica alta di una festa in appartamento, ora da voci di sconosciuti che sovrastano e ostacolano i tentativi che le due donne fanno per avvicinarsi, comunicare, instaurare un vero contatto.
Come tutti i personaggi di De Caro, però, anche Anna e Nadia non smettono mai di cercare una via d’uscita dal loro stato di malessere e solitudine. Ed è anzi la possibilita di rispecchiarsi, di riconoscersi l’una nell’altra, a dare impulso all’ostinazione con cui tentano di creare un distacco dalla realtà che le rende tanto infelici, attraverso il loro rapporto. Nonostante le due protagoniste sembrino un’attualizzazione dello straniamento che ha caratterizzato le figure femminili del cinema di Michelangelo Antonioni – come la Lidia di Jeanne Moreau in La notte, o la Giuliana di Monica Vitti in Il Deserto Rosso, per citarne due tra tutte – con Taxi Monamour De Caro si spinge a indicare una possibilità di evasione per Anna e Nadia, mostrando dei momenti in cui la non-corrispondenza tra le donne e la loro realtà si attenua. A un passo dalla fine del film, infatti, le due donne sembrano aver allenato la loro relazione abbastanza da lasciarsi andare a qualche gesto istintivo, libero. In una scena tra le più intense del film Anna, poco dopo aver saputo che Nadia ha deciso di tornare a vivere in Ucraina, la porta a fare un bagno al mare – un paesaggio che viene citato perché, come ha raccontato Palasciano in un’intervista, l’idea del film è nata proprio dall’immagine di due donne avvistate da lei e il regista mentre trascorrevano insieme la pausa pranzo, mangiando vicine, ma in silenzio, in riva al mare – e sulla spiaggia di Ostia le due donne scoprono una confidenza fisica di cui pareva non si credessero capaci: corrono finalmente insieme, si abbracciano, giocano a schizzarsi nell’acqua.
Attraverso i ritratti delle sue protagoniste Taxi Monamour ricostruisce quindi una mappa affettiva, che si amplia, allargando i suoi confini, nel momento in cui Anna e Nadia si concedono di credere davvero nel valore del loro rapporto, affidandosi l’una all’altra. Nello spazio timido, silenzioso e ristretto del loro legame, le protagoniste trovano infatti un’alternativa alla realtà delle relazioni che conoscono, aggirando il disturbo delle numerose interferenze della contemporaneità a cui queste sono spesso sottoposte, e che nel caso delle due donne – come accade la maggior parte delle volte con i desideri e le aspirazioni femminili – diventano inevitabilmente un fattore invisibilizzante, che oscura le loro rivendicazioni profonde, lasciandole inespresse. Per dare voce alla richiesta di dignità, felicità, pienezza che accomuna Anna e Nadia serve infatti che le due inizino a risconoscerla come un’istanza condivisa. In questo sentimento d’appartenenza, che non riguarda il rapporto con i luoghi in cui le protagoniste si muovono, ma vive all’interno della minuscola rete emotiva, affettiva, sociale che rappresentano l’una per l’altra, Taxi Monamour riesce a raccontare un possibile argine alla solitudine del nostro presente, che avremo sempre più bisogno di imparare non solo a costruire, ma soprattutto a considerare indispensabile.
“Taxi Monamour” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova.
