Sergio Leone ha creato un cinema meraviglioso unendo la profondità di quello italiano all'estetica americana
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C’è un personaggio del cinema e della televisione italiana che mi ha sempre affascinato molto e, per quanto possa sembrare bizzarra come passione, quel personaggio è Terence Hill. Fin da bambina ha suscitato la mia attenzione per diverse ragioni: l’aspetto perfettamente americano, così come il nome, e i film western in cui appariva, perlopiù su Rete 4, pieni di scazzottate e saloon, accompagnato da un altro attore dal nome americaneggiante, Bud Spencer. Tutto ciò rappresentava la quintessenza di quello che per gli italiani dell’epoca era l’americanità. Poi, però, c’è stato un drastico cambio di rotta, dal momento che Terence Hill è diventato il volto e l’anima del prete più famoso della recente televisione italiana, Don Matteo. Un simbolo della serialità fatta in casa Rai, quanto di più italiano possa esserci nella storia delle nostre fiction: un prete, i carabinieri, un borgo pittoresco del centro Italia diventato ormai iconico nell’immaginario collettivo non tanto per il suo valore storico-architettonico ma per via della fortunata e longeva serie.

Non è facile spiegarsi il perché della conversione simbolica ed estetica di un volto tanto connotato, senza conoscere un dettaglio della storia del cinema italiano. Non è una trama peculiare e unica quella che riguarda la carriera di Terence Hill, all’anagrafe Mario Girotti, nato a Venezia nel 1939, né quella di Bud Spencer, pseudonimo di Carlo Pedersoli, nato a Napoli dieci anni prima, ma la diretta conseguenza di un movimento molto più grande che ha preso piede in Italia tra l’inizio degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta che ha come simbolo il regista di alcuni dei film più importanti della storia della cinematografia. Sergio Leone, il padre del cinema western all’italiana – una definizione che già di per sé suona piuttosto strana, un po’ come dire “pizza all’ananas” – è stato infatti l’inventore di un genere che ha mescolato la mitologia statunitense più popolare con uno stile autoriale che è diventato un riferimento per molti.

Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards, Claudia Cardinale, e Sergio Leone sul set di C’era Una Volta Il West (1968)

Prima di parlare di spaghetti western, ossia la ragione per cui Mario Girotti ha deciso di farsi chiamare Terence Hill, è fondamentale capire cosa fosse Cinecittà negli anni di Leone. Gli studi cinematografici romani, che oggi tornano in mente più per Boris che per chissà quale kolossal contemporaneo, rappresentavano infatti un vero e proprio luogo di fermento artistico. Cinecittà veniva chiamata anche “La Hollywood sul Tevere” – per indicare una chiara analogia con la prolificità degli studios oltreoceano – e, come spesso accade in Italia, la coincidenza di determinati elementi che ha fatto sì che il western venisse importato con tanto successo fu diretta conseguenza del classico “fare di necessità virtù”. Non so dire se sia per un innato senso di problem solving o una sana predisposizione alla “truffa” che ci contraddistingue, ma sta di fatto che è proprio grazie alla possibilità di girare western “delocalizzati” – succedeva anche in Spagna e in Germania – e quindi con budget decisamente più ridotti, che Sergio Leone riuscì a cavalcare l’onda di un genere di cui sarebbe diventato il simbolo. Basandosi sulle proprie esperienze personali, ricalcando l’atmosfera dei bulli di Trastevere che avevano segnato la sua infanzia nell’atmosfera capitolina fascista, Leone ebbe la grande intuizione di mescolare il western, quintessenza dell’epica statunitense, con elementi estranei a quella mitologia, creando un ibrido italo-americano tra tecniche ed estetiche cinematografiche.

L’America stessa era per Leone un oggetto di enorme interesse e passione, dal momento che per un regista di quegli anni il cinema hollywoodiano era il massimo della qualità tecnica a cui si potesse ambire. Quel cocktail di civiltà e barbarie che erano, e sono tutt’ora, gli Stati Uniti e che arrivava in Italia attraverso un’egemonia culturale che dagli anni del secondo dopoguerra in poi si espandeva in tutto l’Occidente, fu per Leone un punto di partenza per dare vita a un modo inedito e rivoluzionario di raccontare qualcosa di rigidamente codificato come il genere western. “Il cinema è l’arte epica per eccellenza e le migrazioni del western sono la nostra Odissea”, sosteneva il critico francese André Bazin: le carovane, i cowboy, gli “indiani”, la ricerca di una terra vasta, sconfinata, le lunghe attese e gli spazi infiniti, lo scontro tra bene e male sono tutti elementi narrativi di un popolo, più che di un singolo individuo, e quindi di un mito di fondazione. Non che una scazzottata tra due uomini che si contendono una donna in un saloon impolverato possa essere paragonata alle gesta di Ulisse – anche perché, come spiega Franco Moretti, nel western non c’è nostos – certo, ma è l’idea che un racconto serva a dare voce alla nascita di una civiltà, in questo caso a quella americana e dunque a quella dominante del Ventesimo secolo, che sta alla base di questa epicità. La domanda allora sorge spontanea: perché un italiano dovrebbe aver avuto il merito di elevare questo genere a un livello autoriale molto più alto? La risposta, probabilmente, sta proprio nel fatto che Leone non fosse americano e che, nella sua versione di quel mito, ci fossero pezzi del nostro cinema: un metodo di rielaborazione artistica che anticipa e conferma una tendenza tipica della cultura occidentale degli anni successivi, quelli del postmodernismo. C’era infatti un po’ di neorealismo italiano, dal momento che i personaggi dei suoi film erano molto più sporchi, veri, “brutti e cattivi” delle loro versioni statunitensi; c’era l’ironia della nostra commedia, cinica, spietata; c’era un eroe non più senza macchia e senza paura, buono per antonomasia, ma un mercenario. E poi, soprattutto, c’era Ennio Morricone.

Ennio Morricone

Proprio di recente, subito dopo la sua scomparsa, ha fatto scalpore un titolo del Washington Post che per rendere l’idea ai lettori di chi fosse il compositore ha deciso di citare un suo brano trascrivendone il suono “Ah-ee-ah-ee-ah”. Oltre allo scivolone non esattamente rispettoso del titolista trovo che sia molto emblematico di cosa sia stato il lavoro di questo musicista famoso in tutto il mondo proprio per la semplicità pop, ma al contempo estremamente efficace, del suo lavoro. Con Leone, infatti, Morricone ha instaurato un sodalizio artistico che si nutriva del talento reciproco: nei film di Leone i dialoghi vengono ridotti all’osso, è l’immagine che racconta, un’immagine estesa e sconfinata, dilatata come il tempo di queste pellicole, lunghissime come i percorsi delle carovane che esploravano un mondo ancora in formazione. Ed è in questo tappeto di immagini, primi piani, silenzi, suoni dettagliati, rarefatti e materici che si fa strada la colonna sonora di Morricone, perfettamente integrata alla diegesi della pellicola, tanto da creare una sorta di sinestesia con le scene del film.

Il tema in questione, quello citato dal Washington Post, è quello de Il buono, il brutto e il cattivo, film che, insieme a Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più costituisce la cosiddetta “Trilogia del dollaro”, ossia le prime opere che portano la notorietà non solo a Leone, ma anche a Clint Eastwood, attore fino a quel momento ritenuto di seconda categoria, oggi simbolo del cinema statunitense, non solo per i suoi ruoli da protagonista nei western. Una storia che, non a caso, ricorda molto quella raccontata da Quentin Tarantino nel suo ultimo film C’era una volta a Hollywood che non solo cita esplicitamente Leone già nel titolo ma anche nel racconto di personaggi come quello interpretato da Leonardo Di Caprio, che per certi aspetti ricorda molto Eastwood. Non solo: il film ruota attorno alle vicende di Charles Manson e dell’omicidio di Sharon Tate a casa di Roman Polanski durante la tragica festa dell’assassinio, un party privato a cui avrebbe dovuto partecipare proprio Leone – con il suo sceneggiatore Luciano Vincenzoni –  che all’ultimo, per fortuna, diede forfait per via del suo inglese scadente.

Per un pugno di dollari (1964)
Per qualche dollaro in più (1965)

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

I volti di attori come Eastwood, il più famoso dei personaggi di Leone, o di Gian Maria Volontè che ha recitato sia in Per un pugno di dollari che in Per qualche dollaro in più nel ruolo del trafficante messicano, o ancora di Lee Van Cleef e Sergio Pistilli, fino ad arrivare ai protagonisti della seconda trilogia, quella detta “del tempo”, sono fondamentali per l’estetica del regista trasteverino. Nei primissimi piani che si alternano a enormi panoramiche, in questo scambio costante tra lo spazio, la natura, il deserto e gli occhi, l’espressione dei protagonisti dice più delle parole. La linearità del tempo del western americano viene sostituita da un racconto frammentato, in contraddizione con le basi del genere che invece porta lo spettatore da A a B, facendo lottare il male contro il bene, il bianco contro il nero.

Per un pugno di dollari (1964)

Questa ironia postmoderna che si traduce nella caratterizzazione di personaggi iconici, più simili a maschere della commedia dell’arte che a personaggi cinematografici – come quello interpretato da Claudia Cardinale, per esempio, in C’era una volta il West, film che omaggia John Ford e che ricalca gli stilemi più classici del western – è ciò che dà quel tocco in più alle pellicole di Leone rendendole di fatto dei capisaldi della storia del cinema. Ed è poi con il suo ultimo grande capolavoro, C’era una volta in America – il film del 1984 che ha come protagonista il famoso Noodles interpretato da Robert De Niro, membro della malavita organizzata ebraica – che Leone scrive il suo testamento, mettendo in scena con una pellicola che dura più di tre ore un ultimo immenso racconto epico ricco di malinconia e disillusione, una sorta di elegia del cinema.

Sergio Leone sul set di C’era una volta in America (1984)

Sergio Leone ha diretto pochissimi film se paragonato ai registi italiani di successo di quegli anni, considerato che sono solo sette – senza contare il suo lavoro con l’emergente Carlo Verdone, altra grande intuizione di Leone – ma che appaiono di più che sufficienti a imporre un nuovo canone cinematografico alle generazioni successive. Un cinema che parte dall’osservazione di altri mondi, come quello di Akira Kurosawa a cui si ispira per il suo primo film western, che mescola gli insegnamenti del neorealismo alla grandeur epica americana, che utilizza la musica non solo come sottofondo ma come elemento narrativo del racconto, che combina il noir a Proust. Un cinema che, in sostanza, racconta la mitologia del Novecento attraverso l’epica statunitense. E se un veneto che diventa un eroe del western dandosi un nome americano per poi approdare con una bici su Rai Uno vestito da prete non è la quintessenza del postmoderno, Sergio Leone sicuramente lo è.

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