C’è un particolare sentimento di nostalgia, tipico della realtà sempre più complessa e stratificata in cui viviamo, che proviamo nei confronti dell’eroismo in senso classico, quello incarnato da personaggi epici che non agivano soltanto per sé stessi, ma per riscrivere la storia di un’intera civiltà. Eroi straordinari di cui sentiamo la mancanza e a cui vorremmo ancora poterci in qualche modo affidare, soprattutto quando sentiamo che le nostre azioni non hanno alcuna risonanza nel mondo. Lo sapeva bene il presidente americano Ronald Reagan, che nel corso del suo mandato, nei primi anni Ottanta, è riuscito a piegare i media – e il cinema in particolare – al suo desiderio di elevarsi a figura eroica, ripristinando in modo per certi aspetti narrativo l’illusione che l’American Dream potesse continuare a funzionare nonostante il trauma collettivo del Vietnam. E lo sapeva ancora meglio Sylvester Stallone, che nel 1981, anno in cui Reagan veniva eletto presidente, stava riscrivendo il personaggio di John Rambo, privandolo della spietatezza quasi disumana conferitagli in principio da David Morrell – l’autore del romanzo da cui è tratto First Blood, il primo episodio di una delle saghe più rappresentative del cinema statunitense. Con i suoi ritocchi al ritratto del reduce, l’attore voleva offrire agli spettatori un protagonista positivo e inequivocabilmente eroico, capace di oltrepassare il sentimento di rifiuto che ancora applicavano al ricordo della guerra, e ancor di più alla sconfitta ideologica subìta dal modello politico e culturale americano nel decennio precedente.
Nel 1985, un sondaggio dell’U.S. News and World Report che chiedeva a dei ragazzi tra i 18 ai 24 anni chi fosse il loro eroe del momento, riportava sul podio i nomi di Clint Eastwood, Eddie Murphy e, appunto, Ronald Reagan. Allo stesso modo, a soli tre anni dall’uscita del primo Rambo, Stallone fu incoronato a eroe assoluto del cinema d’azione – ancor più di com’era accaduto per il successo di Rocky I. Forse è stata proprio l’abilità con cui queste due figure hanno raccolto un bisogno emotivo, creando nuovi eroi in un momento storico in cui gli Stati Uniti volevano tornare a credere nelle loro gesta, a fare di Rambo il simbolo dell’America reaganiana – militarista, muscolare e ossessionata dall’invincibilità. A ben guardare, però, il capitolo iniziale della saga diretto da Ted Kotcheff è qualcosa di molto diverso dall’americanata per antonomasia, dal prodotto consunto di un sistema sempre uguale a sé stesso, che sarebbe poi stato tanto bistrattato negli anni a seguire dalla critica cinematografica europea. First Blood, infatti, ruota attorno a una rabbia bruciante, a un turbamento esistenziale che si fa veicolo di temi tutt’altro che banali o inconsistenti, discostandosi così dal sequel diretto da George P. Cosmatos, che avrebbe poi annullato ogni traccia di introspezione dal racconto, imprimendo il ricordo del Rambo ultra-macho e inspiegabilmente immortale che tutti abbiamo in mente – triplicando tra l’altro, e forse non a caso, gli incassi del film precedente.
Il personaggio di John Rambo e i sentimenti che lo assillano al suo ritorno dal Vietnam non sono così diversi da quelli del Travis Bickle di Taxi Driver, e sono gli stessi che animano molte opere di denuncia della guerra uscite negli anni Settanta – come Il cacciatore o Apocalypse Now. Anche se protetto dalla fisicità scultorea di Stallone, ben lontana da ciò che ci immaginiamo quando si parla di reietti, Rambo è la perfetta rappresentazione del ripudiato, dello “spatriato” nel senso più letterale del termine, a cui è stato tolto lo spazio che prima occupava all’interno del suo Paese e che viene risospinto sempre e comunque ai margini di un’America che non lo vuole più. Fin dall’arrivo nella cittadina di Hope, con cui si apre la prima scena del film, gli scambi che il protagonista ha con gli altri personaggi sono ammantati da una cortina impenetrabile di diffidenza, la stessa che ancora oggi rifiliamo alle frange sociali ritenute parassitarie, in un climax che ha il suo apice nel momento dell’incontro con lo sceriffo William Teasle (interpretato da Brian Dennehy) e del suo arresto del tutto ingiustificato. Chiunque abbia a che fare con Rambo, infatti, sembra mosso dal solo desiderio di escluderlo dalla propria vista, nel tentativo comune alla gran parte dei cittadini statunitensi dell’epoca di relegare i reduci a una zona buia del loro vissuto – che corrisponde alla notte in Taxi Driver, ma anche alla foresta dove combatte Stallone – così come la memoria del conflitto a cui questi hanno preso parte.
In First Blood c’è un nucleo di contestazione profondamente anti-americano, che mostra i soprusi di un sistema di potere incapace di elaborare la sua stessa storia, tanto da volerla negare in qualsiasi modo, riscrivendola attraverso i mezzi di cui dispone. A questa forma distorta di revisionismo si lega infatti uno dei temi fondamentali del film, quello della legge intesa come esercizio di ciò che è giusto. Rambo si muove in uno scenario in cui la giustizia è stata tradita dai suoi corpi ufficiali di rappresentanza – come testimoniato dal trattamento violento e illegittimo che riceve alla centrale di polizia – e quindi non è più davvero rappresentata da nessuno, se non da chi decide di farsela da solo, per non finire schiacciato. Il protagonista, infatti, incarna la sua legge personale per sottrarsi a un’autorità su cui ha ormai capito di non poter fare affidamento, dal momento che gli ha cucito ingiustamente addosso un ruolo da criminale. Per questo, seguendo l’unico codice con cui sa esprimersi, ovvero quello della violenza e dell’azione militare, cerca di rivendicare una sorta di giustizia privata, manifestando la sua innocenza con atti che inevitabilmente violano la legge, non solo di Hope, ma di tutti gli Stati Uniti, tra scazzottate, sparatorie e ferite inferte col suo pugnale feticcio.
I movimenti del corpo di Stallone risultano più significativi delle espressioni del suo volto o del linguaggio verbale, il cui utilizzo è ridotto al minimo. La sensazione, infatti, è che tra Rambo e gli altri personaggi esista una sorta di barriera linguistica che lo rende sempre straniero in una società dove tutti si esprimono a parole, mentre lui è pura forza fisica e corporeità. In questo senso alcuni momenti della sua fuga nei boschi attorno alla città, come la famosa scena in cui si ricuce da solo un taglio sul braccio ai piedi di una cascata, o quella in cui si mimetizza con la vegetazione per catturare i suoi inseguitori, mostrano un addestramento alla sopravvivenza che esce dalle logiche della civilizzazione, e dunque anche dalla sua comunicazione retta da sintassi e grammatica, per risalire a uno sforzo di autoconservazione ancestrale, inspiegabile e incomprensibile per chiunque non si sia trovato a combattere nella giungla.
Il solo che comprende il linguaggio muto di Rambo, infatti, è il colonnello Trautman (interpretato da Richard Crenna), capo della divisione dei Berretti Verdi in Vietnam. Al suo personaggio viene dato un compito esegetico, di traduzione dell’esperienza interiore del protagonista, che passa per dei distillati di dialogo, in cui si possono però intuire alcune delle conseguenze psicologiche e sociali più impattanti della guerra (le stesse che hanno innescato molte delle proteste antimilitariste dal Sessantotto in poi), una su tutte la sindrome da stress post traumatico, tema di grande attualità in quegli anni, dato nel 1970 erano stati proprio i reduci del Vietnam a farla riconoscere come disturbo a sé stante.
Al di là dell’intermediazione di Trautman, però, è impossibile avere accesso alla mente di Rambo, il cui isolamento sembra essere un tratto identitario, che il protagonista non riuscirà a risolvere nemmeno nella scena finale del film, con il pianto disperato che arriva alla fine della sua battaglia, nel momento in cui si trova a ripensare alla sua condizione di sopravvissuto, l’ultimo rimasto tra i compagni morti in guerra. L’eccezionalità di Rambo, ciò che lo rende per certi versi sovrumano, non è infatti la sua forza fisica o la sua abilità militare, ma la sua solitudine impenetrabile, la stessa dei naufraghi e dei superstiti, che si trova paradossalmente a vivere in un contesto in cui pur non essendo concretamente solo, diventa vittima di un abbandono assoluto, in grado di esiliarlo in via definitiva dall’universo delle relazioni con gli altri.
Il primo Rambo, più che celebrare un superomismo che rasenta le potenzialità dei personaggi della Marvel, riflette su un desiderio tutto umano, che è quello di tentare di sopravvivere a qualsiasi costo a ciò che ci succede – che si tratti di dolore fisico dovuto a una malattia, di una tragedia privata, ma anche di un evento storico di grande portata. A quasi dieci anni dalla fine della guerra del Vietnam gli Stati Uniti stavano ancora cercando una via per elaborare il loro lutto e First Blood può essere considerato uno dei primi tentativi di produrre un film d’azione, e quindi di puro intrattenimento, sul trauma del conflitto e sulle sue conseguenze. Se c’è qualcosa a cui gli Stati Uniti non hanno mai rinunciato, infatti, è stata la volontà di narrarsi cinematograficamente, dai duelli del western alle battaglie dei supereroi, spesso senza curarsi di mantenere un contatto saldo e verosimile con la realtà, un po’ come se la storia, accadendo, si facesse direttamente film.
Nel caso di Rambo, invece, il peso degli eventi storici è presente e impossibile da ignorare, per come si riversa sulla gestione del potere, sugli individui e poi sui loro rapporti, oltre che sulla coscienza di un’intera nazione. La conversione della Storia in intrattenimento, per quanto riguarda questo singolo film della saga, non è stata dunque esclusivamente un tentativo di celebrare la forza di un Paese, per superare in maniera catartica un trauma, ma uno sforzo degli Stati Uniti di rivedersi nell’eroismo di Rambo, trovando un modo per sopravvivere a ciò che avevano vissuto, ancora una volta grazie al cinema.