Il 1984 fu un anno fertile per il cinema italiano, con la produzione di numerosi film campioni d’incassi o che, complice la successiva e ripetuta programmazione sulle emittenti televisive, si rivelarono veri e propri cult.
Sono di quell’anno la raffinata commedia dai risvolti drammatici Bianca, di Nanni Moretti, che ebbe tra i meriti quello di lanciare Laura Morante, ma anche uno dei primi cinepanettoni vanziniani: Vacanze in America. Ma del 1984 sono L’allenatore nel pallone, che consegnò a Lino Banfi quasi una seconda identità, quella di Mister Oronzo Canà; Delitto al Blu Gay, ultimo capitolo della fortunata serie che vide protagonista Tomas Millian nei panni dell’ispettore Nico Girardi, senza dimenticare Il ragazzo di campagna, con Renato Pozzetto a fare da mattatore. Non mancarono in quella stagione cinematografica i mostri sacri come Ugo Tognazzi, diretto da Monicelli in Bertoldo Bertoldino e Cacasenno, con Lello Arena e Alberto Sordi, quest’ultimo a sua volta protagonista di Tutti dentro!, commedia che anticipò il clima e le atmosfere che il Paese visse qualche anno più tardi, con l’inchiesta Mani Pulite. Una menzione merita anche il demenziale Arraphao, ispirato all’omonimo disco degli Squallor: definito dal Morandini come “il film più brutto della storia del cinema italiano”, costò complessivamente 135 milioni di lire per due settimane di lavorazione e incassò circa 5 miliardi, malgrado inizialmente fosse distribuito soltanto in due sale.
Il 1984 segnò anche l’incontro tra beniamini del pubblico, protagonisti di accoppiate inedite e non più ripetute: due videro protagonista Carlo Verdone, che diretto da Enrico Oldoini si contese con Lello Arena l’amore di Marina Suma in Cuori nella tormenta, per poi passare anche dietro la cinepresa e condividere oneri e onori della divisa con Enrico Montesano, nel fortunatissimo I due carabinieri. In questa categoria tuttavia, spicca l’accoppiata formata da due futuri giganti del nostro cinema: Massimo Troisi e Roberto Benigni, protagonisti assoluti del surreale Non ci resta che piangere.
L’incontro tra il talento poetico e narrativo di Massimo Troisi e la forza esuberante e anarchica di Roberto Benigni arriva in un momento in cui le carriere dei due attori attraversano momenti diversi, anche se entrambi sono molto popolari per le apparizioni televisive. Troisi viene dai successi de La smorfia in Non stop, Benigni con i monologhi di Cioni Mario si è imposto in Onda Libera, passando poi a L’altra Domenica con Renzo Arbore e arrivando alla conduzione di Sanremo nel 1980. Il loro percorso cinematografico ha visto da una parte l’attore e regista napoletano esordire con il celebrato Ricomincio da Tre (1981) e riconfermarsi con Scusate il ritardo (1983), mentre il collega toscano, che ha esordito qualche anno prima in Berlinguer ti voglio bene, ha recitato in numerose pellicole che, con la sola eccezione del Pap’occhio, diretto da Renzo Arbore, non hanno lasciato il segno o lo hanno visto in ruoli marginali. Per il futuro premio Oscar Roberto Benigni il grande successo cinematografico è destinato ad arrivare proprio con Non ci resta che piangere, prima del prolifico incontro con Vincenzo Cerami.
Protagonisti di un film di cui firmano anche sceneggiatura (con Giuseppe Bertolucci) e regia, Troisi e Benigni danno vita a un’accoppiata fra le migliori di sempre, un incontro irripetibile dal quale scaturisce un film strampalato, che si regge su una trama debolissima, ma che offre continuamente spunti per le esilaranti gag di due comici, tanto diversi eppure perfettamente integrati, l’uno al servizio dell’altro.
Proprio la diversità di linguaggio e di leve comiche dei due attori è il valore aggiunto del film: se il timido Troisi e l’estroverso Benigni divertono quando entrano in contrasto, a volte con reciproche ripicche da monellacci, arrivano a essere esilaranti quando si trovano complici, con scene che sono destinate ad entrare nell’immaginario comico collettivo, come quelle della “cavalla Saveria” o della celebre “Lettera a Savonarola”.
Per entrambi si trattava di una prova nuova: Troisi, che si cimenta nella prima sceneggiatura da lui diretta che non conta sull’apporto di Anna Pavignano (con cui ebbe anche una lunga relazione artistica e amorosa), abbandona il personaggio passivo, messo perennemente in soggezione dal femminile mostrato nei precedenti film. Mario, il bidello da lui interpretato, continua a usare un napoletano biascicato e arricchito da una mimica diventata inconfondibile, ma pur nella sua stramberia ha un discreto successo con le donne e, come tanti personaggi che hanno fatto la storia della commedia italiana, fa ricorso alla furbizia per trarne vantaggio, fingendosi ad esempio un musicista autore di capolavori come “Yesterday” o “Fratelli d’Italia” per sedurre, oppure quando sfrutta il lavoro dell’amico Saverio per divertirsi, una volta ambientatosi nella nuova epoca. Dal canto suo Benigni interpreta il maestro Saverio, toscano tanto invadente ed esuberante quanto sfortunato in amore e con il cruccio di una sorella, Gabriellina, che non riesce a trovare marito: inutile dire che di entrambe le questioni cerca di fare in modo che sia il malcapitato Mario a farsi carico, chiedendogli di combinare un incontro con una eventuale amica delle donne che riesce a frequentare, ma anche di uscire con, o addirittura sposare, la sfortunata Gabriellina. “L’amica e Gabriellina” diventa così un ritornello estenuante per Mario quanto divertente per il pubblico del film.
A fare da cornice ai lazzi dei due personaggi ci sono una scenografia schiettamente posticcia, la riuscita colonna sonora di Pino Donaggio e una serie di attori e caratteristi utili a costruire intorno ai protagonisti un’atmosfera surreale, che ha l’intento di parodiare la società del “Millequattrocento, quasi Millecinque”: oltre ad Amanda Sandrelli (Pia), compare Iris Peynado (nei panni di Astriaha), Livia Venturini (Parisina), Paolo Bonacelli (che qui interpreta uno spassoso Leonardo da Vinci e che Benigni vorrà accanto a sé anche in Johnny Stecchino) e una vecchia conoscenza di Roberto Benigni, Carlo Monni (Vitellozzo). Non si concretizzò invece la partecipazione di Marco Messeri, amico di entrambi gli attori, che prese parte a diverse pellicole di Massimo Troisi: come molte fonti riportano, la sceneggiatura basata in gran parte sull’improvvisazione attoriale e la grande quantità di materiale girato portò al taglio della sua parte, che sarebbe stata addirittura quella di Savonarola.
Proprio la scrittura di Non ci resta che piangere è stata al centro di numerosi racconti dei due interpreti ma anche di altri attori presenti sul set: la lavorazione del film non si basava su una sceneggiatura dettagliata come si usa al cinema, quanto su un canovaccio che si prestava alla libera improvvisazione degli attori, come nel teatro. Un aspetto, questo, che ha portato a notevoli difficoltà in fase di montaggio, con un girato ricchissimo ma talvolta incoerente e che si è concluso con la realizzazione di ben due versioni del film: una cinematografica, della durata di due ore e ventiquattro minuti, e una televisiva, più breve e molto più diffusa. Nella prima versione, il film ha una struttura simmetrica o quasi: al flirt tra Mario/Troisi e Pia/Sandrelli, con Massimo che si finge musicista, fa da contraltare il tentativo (poi frustrato) di Saverio/Benigni di conquistare Astriaha/Peynado spacciandosi per drammaturgo, autore tra l’altro del dramma di Otello e della sua amata Desdemona. Che si tratti di due versioni distinte e non solo di diverse scelte di montaggio lo testimonia proprio il personaggio di Iris Peynado: l’amazzone Astriaha nella versione cinematografica, oltre che avere uno spazio decisamente maggiore, è una principessa che considera Troisi e Benigni partecipi della congiura di un suo avversario (“uomini de Alonso!”), mentre nella versione più breve si congeda dai protagonisti (incrociati tra l’altro in sole due scene) spiegando di essere una guardia reale con il compito di intercettare alla frontiera spagnola chiunque potesse potenzialmente impedire la partenza delle Caravelle di Cristoforo Colombo.
Malgrado questa incoerenza e una regia che la critica accolse tiepidamente, il film rappresenta un caposaldo della comicità italiana, con due protagonisti che di lì a qualche anno sapranno imporsi a livello internazionale (Massimo Troisi con Il Postino, e Roberto Benigni con La vita è bella) e che scomodano paragoni illustri, come quello con Totò e Peppino De Filippo, evocati nella “Lettera a Savonarola” (che fa il verso a quella di Totò in Peppino e la malafemmina).
Grazie alla grande capacità dei due comici di integrarsi e sostenersi, complice anche una genuina amicizia che ricorderanno spesso negli anni successivi, Non ci resta che piangere rappresenta un unicum irripetibile nel panorama cinematografico italiano: impossibile, proprio come avviene per i film di Totò, nei quali è l’attore stesso a essere oggetto del film e a reggerne la storia, pensare di realizzare un remake con altri interpreti, malgrado non manchino recenti tentativi di emulazione o veri e propri omaggi, come Il primo Natale, che vede Ficarra e Picone tornare all’anno zero, o l’esplicitamente riverente Non ci resta che il crimine di Massimiliano Bruno, di cui è stato girato anche il secondo episodio, che catapulta Marco Giallini, Alessandro Gassmann e Gianmarco Tognazzi nel 1982: si tratta di tentativi che, anche quando riusciti, non hanno raggiunto la forza comica liberata da Troisi e Benigni.
Proprio il perfetto equilibrio fra i due mattatori, l’utilizzo delle rispettive inflessioni dialettali e chiavi comiche, hanno reso espressioni come “Un fiorino!”, “Ricordati che devi morire!” e “Grazie Mario!” immediatamente evocative per chiunque, anche per chi non ha visto il film: un segno che, malgrado i trentacinque anni appena compiuti, l’alchimia creata da Massimo Troisi e Roberto Benigni è immortale e, purtroppo, per via del destino che ci ha sottratto troppo presto la fantasia dell’attore napoletano, irripetibile.