Perché è pericoloso rappresentare i ragazzi di Napoli solo come “eroi negativi”
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Se è vero che la narrazione di Napoli ha riconquistato la scena cinematografica italiana e internazionale con prodotti di qualità, bisogna anche ammettere che i protagonisti della storia raccontata sullo schermo sono tutti minorenni. Quando me ne rendo conto, sono in fila al cinema per una serata particolare: da un lato, in fondo, ci sono i giovanissimi attori de La paranza dei bambini, in programmazione di lì a poco alla presenza di Roberto Saviano, autore del romanzo da cui il film è tratto. Qualsiasi idea si possa avere di questi ragazzi, dei casting tra i banchi di scuola e dell’evoluzione scenica dei personaggi che interpretano, loro sembrano felici e orgogliosi. La paranza, infatti, è fresca di riconoscimenti importanti – l’Orso d’argento alla sceneggiatura della Berlinale, firmata dallo stesso scrittore con Maurizio Braucci e Claudio Giovannesi che ne è il regista, il premio Premio Prospettiva 2019 a Francesco Di Napoli che interpreta Nicola – e sembra proprio che stia per avere un altro successo: quello di una sala piena. 

Non è un fatto scontato, considerando che tra il film sullo schermo e i quartieri in cui è stato girato ci sono 20 minuti di passeggiata. Perché siamo a Napoli e al cinema c’è Napoli. Di più: nello stesso momento, mentre in una sala è proiettato La paranza, in un’altra c’è Scugnizzi di Nanni Loy. Anche in questo caso i personaggi principali della pellicola sono giovanissimi napoletani, anche in questo caso le strade sullo schermo e quelle fuori sono le stesse, anche qui c’è un’ospite d’eccezione a introdurre la visione: Leo Gullotta, che nella pellicola interpreta lo scalcagnato attore teatrale Fortunato Assante. La sola differenza tra le due proiezioni sembra essere il tempo: Scugnizzi ha appena compiuto 30 anni, dopo aver ottenuto tanto successo nel tempo da essere rappresentato anche in versione teatrale in tutta Italia, e torna in sala eccezionalmente, in una proiezione celebrativaorganizzata dal consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli e da Gianni Simioli di Radio Marte; La paranza dei bambini è appena uscito. 

Per quanto le trame dei due film siano diverse, l’argomento è lo stesso: in entrambi i casi si tratta di minori napoletani che hanno compiuto o compiono dei crimini nel difficile contesto cittadino, povero di riferimenti culturali e adulti senza legami con la criminalità più o meno organizzata. La storia raccontata non può dirsi distante dalla cronaca cittadina, quindi in parte la conosciamo già tutti o la riconosceremo una volta spente le luci. La paranza dei bambini racconta di sei giovanissimi del Rione Sanità. Nomignoli, motorini, canzoni, scorribande, droga, privé dei locali di cui guadagnarsi l’ingresso per passare il sabato sera, adulti incapaci e impossibilitati a fare da modello positivo, innamoramenti, vicoli, Vesuvio, mare e Quartieri Spagnoli passano tutti sullo schermo, ma non hanno un’evoluzione diversa da quella data dalla cronaca di poche settimane fa, di pochi anni fa. Il film sembra mettere in scena con una luce e un’inquadratura migliore, le immagini già viste al telegiornale o sul web, a cominciare da quello che è l’ormai consueto furto dell’albero di Natale nella Galleria Umberto I, seguito a ruota dai “cippi” di Sant’Antonio, ovvero l’accensione dei falò di legname in alcuni quartieri del centro cittadino, anche quelli documentati dalla cronaca. I rimandi continuano per l’intera durata della pellicola e finiscono per combaciare in diversi punti – anche nella passione per determinate merendine di uno dei protagonisti – con la vicenda dei fratelli Sibillo, baby boss napoletani, uno finito in carcere, l’altro ammazzato.

Rispetto a questi temi e luoghi, ne La paranza dei bambini c’è un elemento prospettico già utilizzato in altre produzioni di stampo documentaristico come ES17, Dio non manderà nessuno a salvarci, uscito nel 2018 da un’idea di Roberto Saviano, Robinù di Michele Santoro, anno 2016, e Largo Baracche del 2014: vediamo il tutto attraverso gli occhi di chi ne è parte attiva. Nel caso del film tratto dal romanzo di Roberto Saviano, fiction e reale si fondono con una strana angolazione, abbandonando la riflessione sulle iniziative di recupero sociale – attività che, pur insufficienti, arrivano spesso a coinvolgere molti ragazzi come lo stesso Emanuele Sibillo – per concentrarsi sulla realtà più cruda che vivono alcuni ragazzi a Napoli. Se sei un adolescente napoletano, è certo tu trascorra gran parte del tuo tempo, come tanti altri ragazzi, su uno scooter o con i videogiochi ma che – a differenza di gran parte dei tuoi coetanei italiani e stranieri – tu non abbia scuola, associazioni, situazioni costruttive intorno a te, ma solo una certa confidenza con chi vive con una pistola in mano. 

“La paranza” di questi ragazzini – termine che, nel gergo camorristico, si riferisce a un gruppo di barche per il trasporto di merce di contrabbando e finisce per indicare la batteria di fuoco di un gruppo – non si forma per far soldi e comprarsi nuovi vestiti (quelli sono i frutti dello spaccio fuori dall’Università), ma per difendere il loro quartiere e riportarvi una sorta di giustizia morale con il benestare degli abitanti. L’idea che i più piccoli debbano esercitare forza e violenza occupandosi della gestione di un vuoto di potere malavitoso per difendere le loro famiglie è la stessa che muove la narrazione dei primi due capitoli de Il Padrino. Nella prima parte della saga di Francis Ford Coppola, il giovane Michael Corleone è estraneo all’etica criminale della sua famiglia e dell’ambiente in cui è cresciuto. Si sentirà però investito dal ruolo di salvatore quando suo padre si troverà in difficoltà, senza accorgersi che proprio il suo cedere all’esercizio del potere e della violenza porterà al sacrificio di quella parte di sé che avrebbe potuto dare una svolta alla storia della sua famiglia. Nel film di Giovannesi, viene aggiunto (o sottratto) un dettaglio importante: nessuno è capace di far dubitare i ragazzi della bontà delle loro azioni o di mostrar loro, anche solo per un secondo, un’alternativa. Inoltre, il finale si adegua al racconto del qui e ora di Napoli, lasciando l’azione sospesa, senza mostrare le sue possibili conseguenze nel futuro. La sensazione è che non vi sia una morale nella storia raccontata, lasciando a chi guarda il compito di interpretarla. 

C’è dunque da sperare che chi guarda abbia abbastanza strumenti emotivi, educativi e intellettivi da non subire quella che l’Osservatorio Violenza, Media, Minori dell’Università di Salerno ha indicato come de-realizzazione e duplicazione spettacolare della realtà che “Può inibire, com’è noto, la capacità di analisi, di critica e di giudizio del giovane telespettatore, catturato nell’ipnotica fascinazione di uno schermo che non ‘fa più schermo’ e che confonde reale e fictionale. […] Non è la violenza a essere pericolosa ma la derealizzazione della sofferenza altrui”. La messa in scena dei comportamenti aggressivi e criminali può anche portare alla negazione del ruolo dei prodotti culturali, nel metabolizzarli, rendendo comprensibili cause ed effetti della violenza. Ma anche se lo si fa in nome del neorealismo più crudo o mossi dalla necessità di non raccontare favole dal lieto fine per confortare il pubblico, non si può ignorare la responsabilità morale di chi racconta, soprattutto ai più giovani. 

“Pregiudicati poco più che adolescenti si sono posti a capo di gruppi emergenti, tentando, anche in questo caso, di assumere il predominio nel controllo del territorio e degli affari illeciti, in particolare delle piazze di spaccio. […] L’assenza di una solidità gestionale è degenerata in lotte intestine, che hanno inciso sulla stabilità di un gran numero di organizzazioni camorristiche. […] Le caratteristiche sociali, culturali ed economiche dei quartieri degradati o periferici di Napoli agevolano l’arruolamento di giovani leve, molte delle quali minorenni, attingendo dal vivaio delle bande della microcriminalità” recita il rapporto gennaio-giugno 2018 della Direzione Investigativa Antimafia, analizzando il fenomeno e i profili evolutivi della criminalità campana. “La paranza” ne è specchio ingranditore, presentando una forte verità sul contesto napoletano: per questo motivo si tratta di un prodotto importante, nato da un lavoro di osservazione, studio e racconto che Roberto Saviano porta avanti da tempo. Eppure non lascia un minimo di speranza a chi, oltre a viverlo e a subirlo, quel contesto se lo ritrova anche sullo schermo. 

Il film conferma le peggiori paure sulle nuove generazioni di cittadini partenopei, rafforza l’idea che le politiche messe in atto per contrastare il fenomeno criminale giovanile non siano efficaci, e rimanda come un’eco l’idea che non vi siano altre possibilità, per chi cresce nei vicoli, oltre la lotta tra bande. Giusto, giustissimo. Ma non permette di chiedersi se è davvero così o se si tratta di un pregiudizio. La domanda non è più se sei innocente o meno, se puoi salvarti e come, se ne vale la pena e la fatica. La domanda non esiste. Se sei nato in questa città e soprattutto se il destino ha scelto per te un quartiere diverso da Posillipo o dal Vomero, sei condannato a percorrere una strada che finisce in carcere o in obitorio. Sembra esserci solo una remota possibilità di salvarsi: se sei davvero fortunato e hai un viso particolare e ti trovi nel posto giusto al momento giusto, potresti finire sullo schermo, a reinterpretare il destino infausto a cui sono condannati altri come te. 

Può apparire paradossale, ma è esattamente quest’ultima probabilità, non esplicitata nel film di Giovannesi, a muovere invece l’intera narrazione di Scugnizzi. Nel film, realizzato alla fine degli anni Ottanta durante il boom del mercato della droga a Napoli, Fortunato Assante, interpretato da Leo Gullotta, è un attore di teatro caduto in disgrazia che sta cercando di risolvere gravi problemi economici, legati a un prestito di denaro ricevuto dalla malavita. Pur di riuscire a metterli insieme, accetta di allestire uno spettacolo con i detenuti minorenni del riformatorio di Nisida. Inizialmente l’uomo è ostile e poco coinvolto, ma il conoscere i ragazzi, le vicissitudini che li hanno portati fino all’arresto e quelle che li aspettano una volta fuori lo porta a sentirsi l’unico adulto in grado di far da garante, almeno per la durata del progetto, di un futuro “altro”. Ne verrà fuori un musical, ma non basterà per salvare i ragazzi. 

O forse sì: se è vero, infatti, che la realtà napoletana cancella presto tracce di ingenuità dagli occhi di chiunque, in “Scugnizzi” è presente un ripristino dell’innocenza, che non passa per l’autoassoluzione ma attraverso il tentativo di staccare le proprie colpe da quelle degli altri. I detenuti di Nisida sono minori, ma è sul palco, per la prima volta, che si riconoscono in quanto tali: bambini e ragazzini capaci di sognare un sogno che non fa del male agli altri. 

Scugnizzi abbatte la quarta parete e chiama tutti in causa, non solo i personaggi protagonisti, ma anche gli stessi spettatori. Lo fa anche con le canzoni in dialetto di Claudio Mattone, una su tutte Gente, magnifica gente, incentrata proprio sul ruolo della società civile napoletana che “fa finta di niente pe’ nun se’ spurca‘”. L’opera di Nanni Loy, supportata dalla sceneggiatura di Elvio Porta, porta a riflettere sul proprio ruolo di spettatori, che si guardi il film, il telegiornale o fuori dalla finestra di casa.

Scugnizzi, Nanni Loy, 1989

“Tu accompagneresti i tuoi ragazzi a vedere Scugnizzi o La paranza dei bambini?” ho chiesto, qualche giorno fa, a un’educatrice sociale della città che lavora da anni nei quartieri descritti nei libri di Saviano. La risposta è stata: “Nessuno dei due”. Nessuno dei due perché, mi ha spiegato, queste cose le conoscono già, questi prodotti gli arrivano già e hanno tutti la sensazione che, se la possibilità di interpretazione fosse capitata a loro, sarebbero riusciti meglio: “Non vedo male l’eventualità che alcuni di loro partecipino a casting o coltivino il sogno di una carriera nello spettacolo, ma il mio compito è mostrare loro che esiste altro, quotidianamente”. Io spero che l’impresa riesca e per certi versi ne sono convinta, ma mentre c’è chi tenta di aprire gli occhi a questi ragazzi, temo saranno i nostri a chiudersi. Ci ricorderemo di loro solo quando saranno protagonisti della cronaca o di un film? Li eleveremo al ruolo di eroe negativo, estrapolato dal contesto? Finiremo anche noi a ragionare  come gli ipocriti spettatori rappresentati in Scugnizzi?

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