Tutte le volte che penso a Scampìa, che passo per Scampìa e che vedo Scampìa pur non avendola fisicamente davanti io penso a John Ruskin. Ruskin era un critico d’arte, scrittore e poeta di epoca vittoriana, noto soprattutto ai restauratori. Ne Le sette lampade dell’architettura, scriveva di come solo due sole cose potessero salvarsi dalla propensione degli uomini all’oblio: la poesia e l’architettura. Per l’autore la seconda includeva la prima perché essendo reale era anche più potente. Era dunque necessario occuparsi non solo di ciò che gli uomini pensavano o sentivano, ma anche di ciò che le loro mani toccavano e i loro occhi vedevano.
Scampìa è un quartiere della periferia nord di Napoli e lo ha visto chiunque, anche chi non ha mai messo piede in Campania. Eppure, fino a cinquant’anni fa non esisteva. A partire dalla seconda metà del 2000 si è conquistato, spesso suo malgrado, il ruolo di ambitissima e viva scenografia di produzioni cinematografiche e televisive a tema camorra, ammazzamenti, disagio e riscatto sociale, ma prima degli anni Settanta era, come dice il suo nome, un non-campo, una spianata verde di erbacce oltre le colline di Napoli. Sul suo terreno sorgeva solo il 20% degli edifici di oggi. Tutti gli altri, comprese le Vele, sarebbero venuti dopo. Tecnicamente per risolvere un problema: quello della casa.
A Napoli l’abitare è sempre stato un elemento posto sul labile confine tra necessità e urgenza. La situazione, storicamente precaria, si è aggravata con il terremoto del 23 novembre 1980. “Nella capitale dei senzatetto, nella città dove un esercito di persone non ha casa e la reclama ogni giorno e non si sa dove ospitarle,” scrive Il Mattino, “i mille e mille appartamenti nei quali il terremoto ha aperto crepe e fenditure fanno nascere una situazione tragica di emergenza.”
Passano pochi giorni e l’emergenza si fa calamità. Il 28 novembre il sindaco comunista Maurizio Valenzi, al governo della città con un margine risicato che necessita sin dall’inizio del consenso della Dc, conferma i timori peggiori: “Prima del terremoto i senzatetto in città erano 10mila, oggi sono 30, 40, forse 50mila”. La situazione non è solo difficile da riconoscere e quantificare, ma anche da legittimare: mentre si mettono le stampelle ai palazzi c’è chi è convinto che il terremoto a Napoli sia un’invenzione della sinistra che alimenta la cultura dell’emergenza.
600 persone vengono sistemate su due navi della Tirrenia ormeggiate al porto, un altro centinaio è ospitato in alberghi reperiti dalla Prefettura, ma in tutto sono meno di 1000 i cittadini ai quali viene trovata una sistemazione. In molti prendono l’iniziativa e occupano scuole, mercati, strutture sportive, autobus, stazioni della circumvesuviana e addirittura treni fermi sui binari della Stazione Centrale. Non ci sono solo persone che non hanno più un posto dove vivere, ci sono i senzatetto storici, ci sono gli sfollati dell’area flegrea dopo l’intensificazione del bradisismo, e c’è un malcontento che nasce ancora prima, fomentato dall’abusivismo edilizio che ha preso piede in città a partire dagli anni ’60 e che in questo contesto troverà subito nuovo spazio.
La prima occupazione abusiva di un appartamento è alla Riviera di Chiaia, quartiere bene della città: un centinaio di persone cercano di entrare in un palazzo al civico 180 e quando interviene una volante sono gli agenti a vedersela male. A sette giorni dal terremoto è ormai caccia agli appartamenti sfitti e invenduti, ai “Si loca” in tutta la città: è dicembre, bisogna ripararsi dalla pioggia, dal freddo, dalla paura di nuove scosse. Le domande di sopralluogo in edifici ancora in piedi, ma pieni di crepe, superano le 10mila. Più giorni passano, più aumenta la tensione: vengono così occupati i nuovi alloggi popolari a Secondigliano.
Il comprensorio è comunemente noto con il semplice toponimo di 167, perché così si chiama la legge del 1962 a cui deve la nascita e si tratta di una concentrazione residenziale che ha poco a che fare con il quartiere. Secondigliano ha una storia, i nuovi agglomerati urbani no. Sulla carta rappresentano, piuttosto, il tentativo di edificazione di un nuovo quartiere – a volte indicato come “Secondigliano II” – che, realizzato nella periferia nord della città, aveva il compito di spostarne il baricentro verso l’interno. Ma se nel 1965 l’insediamento era presentato da Casabella come “strumento di una politica urbanistica per Napoli”, alla fine del 1980 la situazione è cambiata. Le case della 167, prima di tutto, non sono ancora pronte, così come le strutture e i servizi necessari a fare del nuovo quartiere un luogo vivibile. Tra le costruzioni ci sono anche le Vele di Scampìa, sette edifici contrassegnati con lettere dell’alfabeto – dalla A alla H – e progettati dall’architetto Franz Di Salvo su indirizzo della Cassa del Mezzogiorno. Si ispirano alle Unités d’habitation di Le Corbusier e alle strutture “a cavalletto” di Kenzo Tange – l’architetto giapponese che nel 1982 avrebbe avuto il compito di disegnare il Centro Direzionale della città.
Di Salvo articola l’impianto del rione in “torri” e “tende”. Sono queste ultime, con il loro impatto scenico, a rappresentare ancora oggi l’immagine predominante del complesso: due corpi triangolari accostati ma separati da un grande vuoto centrale, attraversati da lunghi ballatoi sospesi rispetto agli alloggi. Sulla carta, alla loro base, sono previsti spazi sociali e di gioco, uffici e negozi, ma nella realtà, fuori dal mondo ideale del progetto, semplicemente non esistono. Si tratta di vuoti che vengono occupati, come molti sottoscala e scantinati. Nel rione, il sindaco Valenzi permette l’occupazione da parte dei senzatetto storici, come racconterà nella sua autobiografia, Confesso che mi sono divertito.
Il Comune, che già nell’aprile aveva approvato all’unanimità del consiglio comunale un Piano per le periferie, individua in dieci giorni le aree su cui realizzare altre 2mila case: due settimane dopo si affidano i lavori con l’Istituto della Concessione che dovrebbe snellire e velocizzare le procedure evitando l’impasse delle gare di appalto. Purtroppo finirà per rendere difficoltosi anche i controlli. Anni dopo la Corte dei Conti accerterà che alcuni lavori son venuti a costare più di 20 volte il prezzo pattuito ma, in quel momento, la città sembra troppo presa dai cambiamenti per accorgersene. Nel maggio del 1981 è approvata in Parlamento la legge 219 per il programma straordinario di edilizia residenziale che prevede sia la costruzione di alloggi che le necessarie opere di urbanizzazione. Valenzi è nominato commissario straordinario del Governo per l’attuazione. Napoli è improvvisamente smarrita e improvvisamente milionaria, sommersa e confusa dal denaro, come nel teatro di Eduardo De Filippo.
Ormai la spianata verde di erbacce oltre le colline non rappresenta più un’occasione di sviluppo: il territorio è diviso in lotti in cui solo chi vive riesce a orientarsi, aggiungendo toponimi come la Cianfa di cavallo, i Sette Palazzi, le case dei Puffi, il Terzo Mondo. La rete stradale a scorrimento veloce divide tutto in grossi blocchi abitativi che non permettono ai residenti né di aggregarsi, né di identificarsi. Non si vive a Scampìa, si abita, e male. Mancano tutte le opere di urbanizzazione: l’elettricità, l’acqua, il riscaldamento, le fogne, in un rimpallo di responsabilità tra enti. Mancano i lampioni, mancano le strade tra i nuovi edifici, mancano i negozi, anche quelli di primo vicinato. L’illegalità viene accettata come provvisoria forma di stabilità.
Il nuovo quartiere diventa presto una periferia nella periferia. Le baracche sorgono a ridosso di fabbriche come il birrificio Peroni, vecchi impianti industriali e nuovi cantieri. A tutto questo si aggiunge la diffusione del mercato degli stupefacenti. Scampìa è stata presentata, negli anni, come la piazza di spaccio più grande d’Europa, e per molti è ancora tale. Ma pochissimi ricordano che a favorire questa espansione è stata proprio la situazione tecnico-ambientale di quei primi anni Ottanta.
Prima di una nuova scuola, di un liceo o di un parco per i nuovi abitanti, a esser attivo e funzionante è il Sert, uno dei pochi centri di somministrazione del metadone che richiama frotte di tossicodipendenti da tutta la città, dalla provincia, dalla regione, in un ambiente sociale privo di riferimenti dove si registra anche uno dei tassi di disoccupazione più alti d’Italia. Il primo commissariato di Scampìa si insedia solo nel 1987 quando i giardinetti spelacchiati sono ormai luogo di raccolta per gli spacciatori e in alcune delle nuove salumerie è in vendita il kit con laccio emostatico, siringa e spicchio di limone, cosa che continua ad avvenire almeno fino al 2012.
Eppure la nuovissima periferia mostra da subito il cedimento: negli edifici, i muri tra i setti di cemento armato sono isolati con il polistirolo; quando fa freddo si formano condense sulle pareti interne con tanto di muffe che fanno ammalare i residenti; gli ascensori, come altre parti comuni, non vedono alcun genere di manutenzione. Nel 1981 Il Mattino parla già di “processo alle intenzioni mancate” e si chiede come si bonificheranno i rioni ghetto della periferia subalterna:
“Centinaia di famiglie ammassate come polli in batteria[…]La privacy non esiste. Metti un camorrista in queste gabbie e tutto il quartiere viene controllato dal mafioso.
“Sono venuti attirati dal miraggio di una casa e per conquistarsela hanno sfidato la forza pubblica; sarebbero stati disposti a fare le barricate. Poi si sono accorti che in queste case puoi soltanto illuderti di poter condurre una vita normale […] È stato fatto solo l’allacciamento elettrico. Poche le abitazioni con i servizi igienici. Tutto il complesso della 167 è stato recintato da uno steccato di lamiera; per accedere agli ingressi devi giostrarti tra fossi e sentieri di melma[…] Su diverse scale non ci sono i parapetti e la settimana scorsa un bambino di due anni e mezzo è stato preso al volo dalla madre mentre tentava di scendere. Gli occupanti hanno dovuto provvedere improvvisando una ringhiera con assi di legno. In molti appartamenti mancano le finestre, in alcuni perfino le porte.”
La situazione è dunque già nota a dodici mesi dal sisma. Dieci anni dopo, quando nel novembre 1990 Giovanni Paolo II fa visita agli abitanti dell’area, la situazione è ancora più complicata. Il Papa, rivolgendosi ai fratelli e alle sorelle del rione, denuncia “la carenza di strutture e di servizi, persino indispensabili, sembra ormai diventata cronica,” e continua: “La mancanza di case obbliga tanti di voi a vivere in alloggi di estrema precarietà, in condizioni che non favoriscono certamente il dovuto rispetto della dignità dell’uomo. Sempre più acuta diventa la crisi dell’occupazione con le negative conseguenze legate al lavoro nero e a quello minorile. Troppi ragazzi, poi, abbandonano precariamente la scuola senz’altra prospettiva che la strada, spesso solo palestra di delinquenza e di devianza sociale. A ciò si assommano il diffondersi del vizio, il dilagare della tossicodipendenza e dell’alcol, l’acuirsi del fenomeno della criminalità e della violenza anche di stampo camorristico”.
Da quel momento l’opinione pubblica si mobilita. I residenti l’hanno già fatto: testimoniano da anni le difficoltà quotidiane, rivendicano i diritti negati, mostrano alle telecamere il luogo in cui hanno imparato a vivere e lo rendono visibile. Sono i soli capaci di muoversi al suo interno, quindi spesso fanno da guida, propongono e si spendono affinché il degrado urbano, l’assenza di servizi e la noncuranza istituzionale diventino di dominio pubblico. Scampìa si fa così spazio nell’immaginario collettivo.
C’è il Comitato Storico Vele; c’è il GRIDAS – Gruppo risveglio dal sonno, che si ispira all’acquaforte di Francisco Goya El sueño de la razón produce monstruos, fondato dall’artista muralista Felice Pignataro; ci sono associazioni, in molti casi costituite da giovani, che fanno del quartiere un laboratorio sociale sempre attivo. Sebbene anche tra loro esistano spaccature, soprattutto tra chi muove un principio di lotta politica e chi cerca l’appoggio della classe dirigente locale, queste realtà offrono per la prima volta un’alternativa a chi vive e cresce nel quartiere: l’opportunità di socializzare, conoscersi, fare gruppo e cultura.
Tra il 1997 e il 2003 vengono abbattute tre delle sette Vele iniziali. La prima a cadere è la F, ma solo al secondo tentativo. Le 284 microcariche esplosive poste nel dicembre 1997 – il sindaco è Antonio Bassolino – ne fanno cadere solo una parte: i piani più alti restano intatti, clamorosamente in bilico sulle macerie sottostanti. Nella seconda metà degli anni Novanta viene inaugurata anche la stazione della metropolitana collinare di Piscinola-Secondigliano, capolinea della Linea 1, che produce – come già suggerisce il nome – un ulteriore cortocircuito urbanistico, cui si rimedierà solo nel 2017 con un emendamento che lo modificherà in Piscinola-Scampìa, finalmente accortisi che l’errata cartellonistica della fermata è fuorviante. In realtà, per i cittadini del centro questo collegamento con la periferia è fin dall’inizio fonte di inquietudine: si ha paura di chi arriva da quel quartiere ormai tristemente noto, soprattutto se si tratta di ragazzini che, in gruppo, per la prima volta scoprono la città.
Presto alla componente di residenti attivi e impegnati si aggiunge una parte di scettici e disillusi convinti che le cose non cambieranno mai e la prima faida – la guerra tra clan che scoppia a partire dal 2004 – sembra dar loro ragione. Scampìa deve ricominciare da capo un’altra volta e sotto gli occhi di tutti.
Quando nel 2006 Roberto Saviano scrive Gomorra, che nel 2008 diventa un film per la regia di Matteo Garrone, le Vele rimaste diventano un set cinematografico abitato e quando si comincia a parlare anche di una serie TV, l’allora presidente della Municipalità, Angelo Pisani, rende noto di aver negato “qualsiasi autorizzazione allo sfruttamento di immagini e luoghi in danno del territorio.” Nel marzo 2015, però, quando a Scampìa torna il Papa – Papa Francesco, stavolta – la sovrapposizione tra realtà cittadina, cronaca e costruzione scenica è ormai sancita, e sono molti i giornali che parlano di una visita pastorale nel cuore di Gomorra.
Nell’estate 2016 una delibera comunale prevede l’abbattimento di tre delle quattro Vele ancora in piedi e la riqualificazione della quarta. Il Comune ha inviato il progetto al Governo per ottenerne l’approvazione e lo stanziamento di 18 milioni di euro e il tutto è stato ufficializzato nella primavera 2017 dal sindaco Luigi de Magistris. In agosto è arrivata anche la progettazione esecutiva della zona. L’area ha oggi una stazione della metropolitana, è collegata con la zona ospedaliera, con il centro, con la stazione, ed è vicinissima anche all’aeroporto di Capodichino e a diversi centri commerciali. Ha preso coscienza di sé e ha visto, suo malgrado, una continua ribalta: dovrebbe dunque rappresentare un’area piuttosto ambita a livello residenziale, ma le prime 64 case nate per svuotare le Vele e dai cui balconi si vede il Vesuvio necessitano già di interventi di manutenzione, forse perché consegnate prematuramente.
Per quanto riguarda i servizi, nel progetto di riqualificazione di Scampìa c’è la realizzazione di ScampiSan, nuova sede per la Facoltà di Medicina nell’area della ex vela H. La sua realizzazione è in programma dal 2006: i lavori dovevano essere terminanti entro il 2008 pena la revoca dei finanziamenti, ma 10 anni dopo la situazione è ancora quella del cantiere alla ricerca di fondi. L’ultimo stanziamento è recentissimo: il 15 marzo 2018 la Regione Campania ha sbloccato il pagamento di 1,5 milioni, e il 26 marzo è stato comunicato l’impegno di altri 5,5.
Ma per chi vive la città, per chi vive il quartiere, tutto questo perlopiù appare, nel migliore dei casi, un prestito di speranza e fantasia, le stesse che animano il Carnevale del GRIDAS che si tiene ogni anno a partire dal 1983 e che rappresenta non solo una festa, ma anche l’occasione per muovere critiche sociali e, per moltissimi napoletani, l’unico momento dell’anno in cui visiteranno Scampìa. Io stessa mi ritrovo a chiedermi quand’è che invece di Ruskin a battermi metaforicamente sulla spalla sarà il Nanni Moretti di Caro Diario. Si potrà dire, come di Spinaceto, “Scampia, pensavo peggio” e ci sarà qualcuno che, seduto su un muretto, potrà replicare: “Ma infatti”?