Mi capita sempre, quando devo iniziare a scrivere qualcosa da zero, di rimanere incastrata tra le righe del paragrafo iniziale, senza riuscire a mettere il primo punto fermo. Scrivo, cancello, cerco un sinonimo che sembra non combaciare mai perfettamente con quello che ho in testa. Anche quando ciò che voglio dire mi è chiaro, che si tratti di un articolo, un’e-mail o di una recensione su Letterbox, il tempo che impiego a decidere con che parole iniziare spesso supera quello che poi ci metto a scrivere tutto il resto. Può valere per qualsiasi atto creativo, dalle opere artistiche alle esigenze del quotidiano: l’idea di iniziare nel modo sbagliato per molte persone ha un che di terrorizzante, forse perché non sopportiamo l’eventualità di poter tradire le nostre stesse aspettative, assumendoci il rischio di un finale diverso da quello che avevamo sperato. “Non sono sicura di come iniziare”, scrive in un foglio Word aperto sul suo desktop anche Vita, alter ego della regista statunitense Zia Anger nel suo primo lungometraggio My First Film, co-prodotto da Mubi e in disponibile da oggi 6 settembre sulla piattaforma, per poi cancellare un attimo dopo. Non ne è sicura perché, come penso quasi chiunque si sia dovuto confrontare con la prima fase di un progetto, quella in cui è ancora tutto da decidere – e in questo caso si tratta proprio del primo film diretto dalla protagonista –, teme che un inizio sbagliato la possa compromettere irrimediabilmente, rovinando tutto ciò che verrà dopo.
Provare a girare un film a venticinque anni, come vorrebbe fare Vita – interpretata da Odessa Young –, implica essersi immaginati mille volte come potrebbe andare a finire, o meglio, implica aver fantasticato a lungo su quanto la riuscita di quella prima opera potrebbe impattare sul proprio futuro. La protagonista vive l’impazienza di chi vorrebbe sapere a priori se le proprie aspettative sono state ben riposte, e cerca affannosamente conferma delle sue fantasie – quelle in cui immagina il suo film proiettato ai Bafta e al Sundance, o in cui è già una regista affermata con una lunga carriera alle spalle – durante le giornate di set, per capire se può concedersi di credere davvero in ciò che desidera. C’è probabilmente una forma di devozione particolare che accompagna gli esordi, e che ci fa vedere – spesso non a torto, soprattutto per quanto riguarda il mercato artistico contemporaneo – il primo passo che muoviamo per avvicinarci alle nostre aspirazioni come una questione di vita o di morte: decisivo, definitivo, totalizzante, imprescindibile per diventare ciò che desideriamo. Mettere in scena Always, All ways, Anne Marie il racconto semi-autobiografico di una ragazza che rimane incinta e decide di andarsene di casa per cercare la madre che l’ha abbandonata, rappresenta infatti una sorta di missione esistenziale per la protagonista, a cui Anger dà il compito di ricostruire la sua prima esperienza da regista, che oltre quindici anni prima aveva affrontato con adesione viscerale, perché riteneva avrebbe rappresentato un evento determinante per la sua vita da lì in poi – e che lo è di certo stato, ma non esattamente nel modo in cui si sarebbe aspettata.
Ciò che rende My First Film molto più di un memoir, però, e la costante dialettica tra le immagini che ricostruiscono il passato, e il voice over che racconta le consapevolezze che Anger ha acquisito nel presente, creando un complesso scambio tra la sua coscienza adulta e le impressioni della sé venticinquenne, quasi volesse raccontarsi di nuovo e da un punto di vista diverso, più distante. Per farlo, la regista ricorre a una metafora che attraversa tutta la narrazione, ovvero quella che associa la creazione artistica al parto e alla maternità più in generale, e che le permette in qualche modo di staccarsi da se stessa, osservandosi da fuori. Facendo confluire nel suo film la portata rivoluzionaria di tanta filosofia femminista, Anger mette in scena quello che è a tutti gli effetti un parto simbolico, una nuova nascita del suo Io che diventa possibile attraverso il racconto cinematografico, nel tentativo di decostruire la prospettiva che il senso comune associa alla maternità come presunta vocazione femminile sacra. L’idea della regista, infatti, è che per nessuna donna debba esistere un destino imposto, ma che ognuna abbia il diritto di riconciliarsi con quello che la filosofa femminista statunitense Adrienne Rich avrebbe definito “io perduto”, ovvero il nucleo di inclinazioni e desideri personali che troppo spesso rimangono sommersi a causa delle pressioni sociali legate al femminile, e che non hanno necessariamente a che fare con la volontà di avere dei figli o di crearsi una famiglia. Ciascuna donna, secondo Anger, deve poter dare vita a ciò che vuole – un figlio, ma anche un’opera d’arte, una teoria filosofica o un atto rivoluzionario –, così come lei ha scelto di essere madre del suo film autobiografico.
Quando leggiamo biografie e autobiografie, tendiamo a interessarci principalmente ai successi di personaggi noti, spesso tentando di immedesimarci in un piccolo dettaglio che li caratterizza per ritrovare in noi la loro stessa eccezionalità. Da questo punto di vista, invece, la retrospettiva autobiografica di Anger rappresenta un racconto dell’Io anomalo, ribaltato, perché si concentra sul fallimento come evento propulsore della narrazione. Non solo per quanto riguarda l’esperimento cinematografico di Vita, che a causa della sua inesperienza ci mette poche settimane a naufragare – nonostante l’investimento emotivo, la lettura di guide su come essere perfetti registi e i crowdfunding improvvisati messi in piedi dalla troupe. Nel dialogo tra la regista e il suo alter ego, My First Film diventa infatti una vera e propria riflessione sulla perdita: dalla rottura tra la protagonista e il suo fidanzato – il cui rapporto offre un affondo sulle dinamiche di potere tra generi di cui la nostra societa risente ancora profondamente –, alle due interruzioni di gravidanza che la ragazza affronta, insieme alle conseguenze emotive che esse hanno su di lei, passando per la decostruzione di una serie di miti personali che si trova costretta a ridimensionare con il procedere delle riprese, come se la sua opera dalla forma improbabile facesse in qualche modo da specchio alle incertezze di una personalità in evoluzione, replicando sul set uno sforzo che in realtà è soprattutto interiore.
Vita affronta diverse delusioni, prende decisioni che si rivelano fallimentari, fa i conti con circostanze che la portano lontano dalle sue aspettative iniziali, creando un racconto del tutto incompatibile con le autonarrazioni aspirazionali che riempiono il mercato dell’intrattenimento e le bacheche dei nostri social, per lasciare spazio a un’esperienza di vita che ha rilevanza nel caos del suo svolgersi, anche senza poter essere ricondotta a un percorso di crescita lineare e orientato al successo. Il susseguirsi disordinato di eventi interiori ed esteriori che coinvolgono la protagonista viene restituito nel film con immagini che sembrano acquisire vita propria: video di ricordi più o meno recenti che si sovrappongono l’uno all’altro – a partire da un filmato in cui la madre di Vita si esibisce in una rappresentazione coreografica del ciclo mestruale –, clip stock, storie Instagram della regista che fanno intrusione senza seguire una logica precisa, estratti di cortometraggi sperimentali – come Meshes of the Afternoon dell’autrice Maya Deren, a cui Anger sembra voler rubare l’immginario, piu che citarlo –, pensieri che compaiono davanti agli occhi dello spettatore una riga digitata alla volta, scena mute in cui si assiste a un aborto soltanto mimato. Questi elementi eterogenei vengono così a coesistere in un flusso di coscienza digitalizzato, che tiene traccia dell’evoluzione degli interessi e del gusto di Zia Anger negli anni, facendo del cinema il suo principale strumento di introspezione ed autoanalisi, ancor prima che di espressione.
A rendere My First Film un’opera strutturalmente atipica, inoltre, hanno contribuito le varie fasi della sua gestazione. Anger, infatti, ha iniziato a riconciliarsi con il fallimento del suo primo film nel momento in cui le è stato proposto, nel 2018, di far confluire tutto il materiale abbandonato che aveva a disposizione in un performance visiva. Dopo aver seppellito la sua prima opera in una cartella del PC a causa dei vari rifiuti ricevuti dai festival, la possibilità di mostrare in nuova forma delle immagini che non aveva mai piu avuto il coraggio di condividere con nessuno si è presentata per Anger come un’occasione inaspettata: un “nuovo inizio” da regista dopo aver provato a imparare mille altri lavori, giurato di non voler avere più nulla a che fare con il cinema e nascosto a tutti quanto quella rinuncia avesse pesato sulla sua vita. Essendo stato concepito come la naturale espansione dell’omonima performance, il film ne conserva infatti la tensione emotiva, la spontaneità, il fervore irrequieto, tanto da illudere lo spettatore di stare assistendo a qualcosa di irripetibile, legato al qui ed ora, più che a un’opera disponibile in infinite repliche identiche.
Nel vortice di ricordi confusi, frammentati e rimescolati dal tempo, la voce di Anger si fa strada portando a termine un compito che non può che apparire spaventoso, soprattutto se ci coinvolge in prima persona: quello di guardarci indietro, riavvolgendo le nostre esperienze fino a ritornare all’inizio, per confrontarci con tutti i dettagli che inevitabilmente ci sono sfuggiti, che non avevamo programmato, ma che hanno modellato la direzione presa dalla nostra vita tanto quanto – e a volte addirittura di più – di quelli che rientravano nei piani. Per questo, guardando My First Film si ha l’impressione di entrare in uno spazio intimo, dove la regista ha il coraggio di parlare apertamente di sé, anche quando si tratta di ammettere di aver perso qualcosa, rendendo pubblica una lotta privata che in diverse misure ci riguarda tutti, nel momento in cui ci confrontiamo con gli eventi che fuoriescono dal nostro controllo.
“Succede a molte persone, è solo che nessuno ne parla,” è la frase che compare a più riprese sul desktop di Vita, quasi fosse un ritornello. Succede di voler far sparire le tracce di un progetto che riteniamo un fallimento, di dover abbandonare a metà qualcosa a cui tenevamo, di rimanere delusi dagli esiti delle nostre scelte. Succede anche, a volte, di avere l’occasione di riprenderle in mano, se siamo disposti a rinunciare al finale che avevamo in mente per inventarne uno diverso, e vedere dove ci porta.
“My First Film” è disponibile in streaming su MUBI Italia. Iscriviti qui per guardarlo con 30 giorni di prova gratuita.
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