Il proliferare dei motivatori, life coach e mentori illuminati dal segreto del successo mi fa sentire costante spettatrice di un convegno di Frank T. J. Mackey, con quell’atmosfera da setta cucita addosso a Tom Cruise. Non so se Paul Thomas Anderson lo avesse previsto già nel 1999, quando è uscito Magnolia, ma il suo sedicente guru della seduzione ha messo in scena qualcosa che appartiene profondamente al nostro presente. Se da una parte l’ideatore del famoso programma “Seduci e distruggi” – che nel film raccoglie migliaia di adepti, ipnotizzandoli con il mantra “Doma la fica, rispetta il cazzo” – è la perfetta parodizzazione di tutta la cultura americana delle ambizioni sotto steroidi, dall’altra rappresenta qualcosa di molto più vicino a noi. La guida di Mackey, urlata con un microfono ad archetto e indossando dei pantaloni in latex, fomenta il pubblico e il suo stesso autore con una promessa a cui anche noi ci sentiamo sempre più attaccati: quella di controllare gli eventi, di metterli in ordine per come li vogliamo e di tracciare così la precisa traiettoria della nostra vita.
Ho sempre considerato la nostra attenzione alle coincidenze come ciò che abbiamo di più simile a quella che una volta era l’interpretazione dei disegni profetici, perché soddisfa il bisogno ancestrale di orientarci tra avvenimenti imprevedibili, tanto quanto la lettura dei visceri o dei fondi di caffè. Nel 1952 lo psicoanalista tedesco Carl Gustav Jung aveva parlato di “sincronicità”, citando per la prima volta una forza misteriosa, che sembra agire nella nostra psiche come un collante cosmico. Ci accorgiamo della sincronicità tutte le volte in cui ci troviamo davanti a una composizione perfettamente coerente tra ciò che ci sta accadendo e il nostro stato d’animo, un allineamento degli elementi fuori e dentro al nostro universo psicologico, che configura inaspettate irruzioni di senso, in cui desideriamo credere. Nella prima scena di Magnolia, invece, Anderson le chiama semplicemente “stranezze”, che non si sente di ridurre alla pura fatalità.
Credo che il motivo per cui questo film non abbia ottenuto un immediato quanto considerevole successo commerciale quando è uscito, dovendo aspettare una decina d’anni per affermarsi come opera di culto – e quindi lanciare attori come Julianne Moore o Philip Seymour Hoffman – sia stretto a doppio filo con il nostro desiderio di plasmare il corso degli eventi. Nella rappresentazione a tratti grottesca della San Ferdinando Valley di Los Angeles c’è la profezia di un bisogno emotivo che ha sempre fatto parte dell’essere umano, ma che dopo le convulsioni inaspettate del decennio breve, tutti avrebbero iniziato a percepire con maggiore urgenza: quello di immaginare rassicurazioni sempre più personali, ma allo stesso tempo vaste e omnicomprensive – a volte addirittura deliranti, tra cospirazioni, dittatura dell’oroscopo e tentativi di vedere segni del destino in qualsiasi incontro o circostanza quotidiana –, per provare a riadattare una serie di avvenimenti colossali, rapidi e profondamente impattanti alle capacità del nostro sistema metrico decimale interiore. Guardare Magnolia oggi è infatti un’esperienza di catarsi ancora più potente rispetto a quella che poteva essere vent’anni fa, perché parla di qualcosa che sentiamo appartenerci profondamente, ovvero la paura di non poter controllare ciò che ci sta accadendo attorno e l’effetto che avrà su di noi.
Il film è un affastellarsi di dettagli microscopici e improbabili – trovare il numero di un famoso seduttore su Playboy, ascoltare il freestyle di un ragazzino in mezzo alla strada, percepire il potenziale erotico di un apparecchio per i denti – che vengono convertiti in nuove unità di misura, iniettati di rilevanza, nel momento in cui un significato ulteriore sembra fare intrusione tra le loro sovrapposizioni accidentali. Così, dandoci la possibilità di notare queste particelle aleatorie, il regista le trasforma nei nuclei pulsanti di una vera e propria epica a rovescio, in cui l’unico eroismo possibile è quello di chi accetta la sua impotenza rispetto agli urti violenti del caso. Le prime scene muovono da una fenomenologia del fallimento alla Raymond Carver, molto simile a quelle atmosfere stagnanti e desolate che hanno ispirato America oggi di Robert Altman. I nove protagonisti scivolano sul motivetto di “One” (is the loneliest number that you’ll ever do) nella versione cantata da Aimee Mann, che suona come una didascalia evanescente della loro condizione. Sono monadi disperse, vittime di una solitudine apparentemente impenetrabile e di un passato che li ha condannati al loro attuale “inferno privato”, per usare le parole con cui Linda (Julianne Moore) definisce il suo: un luogo esistenziale dove per un motivo o per l’altro “tutto ciò che hanno di più caro al mondo è malato”.
Questa malattia totalizzante viene rappresentata come uno stato ontologico, che propagandosi in uno sfiancante effetto alone massacra l’essenza e le ragioni di un’intera vita. Gli agenti patogeni che annichiliscono i personaggi sono infatti i più atroci e vari, spesso molto distanti dalle fragilità del corpo. C’è la morte imminente di Earl (Jason Robards) – l’uomo che Linda si è accorta di amare troppo tardi – consumato dal desiderio di ritrovare il figlio che ha abbandonato anni prima; la carriera mozzata di Donnie (William H. Macy), ex campione dei quiz, rovinato dalla caduta di un fulmine e dall’infatuazione per un barista coi denti storti; le colpe imperdonabili di Jimmy Gator (Philip Baker Hall), famoso conduttore televisivo distrutto dal cancro e dal sospetto di aver violentato, da ubriaco, la figlia Claudia (Melora Walters), una cocainomane che cambia spesso appartamento; il talento da bambino prodigio che Stanley (Jeremy Blackman) tenta di rinnegare, perché si sente amato dal padre soltanto quando sfiora l’eccellenza; e infine l’etica di Jim (John C. Reilly), un poliziotto che pur scegliendo di fare sempre la cosa giusta, non sa trovare la formula per essere felice.
Ogni personaggio incarna una sfaccettatura dell’inadeguatezza umana. Ciascuno è rallentato da un suo personale attrito, ma avanza nella narrazione rimanendo sempre inconsapevolmente intrecciato agli altri, a volte entrando in collisione, a volte affiancandosi a loro senza incontrarli mai davvero. Le vicende di Jimmy, Donnie e Stanley, per esempio, ruotano attorno allo show “Che cosa sanno i bambini?”, perfetta allegoria del sistema capitalista, dove le passioni vengono ridotte a materia sintetica e le qualità coltivate per la monetizzazione. Nessuno di essi smette mai di provare a mantenere il controllo sulla propria decadenza individuale, ma le corrispondenze che sterzano bruscamente dalla direzione impressa agli eventi sono significative proprio perché trascendono la loro volontà.
La matassa di linee narrative interdipendenti che vediamo srotolarsi fin dall’inizio, infatti, diventa un’architettura teleologica in seguito a imprevisti che ridimensionano proprio il ruolo che crediamo di avere nel decidere per noi stessi e per il nostro futuro, mostrando quanto la realtà sia molto più intricata delle nostre aspirazioni e del nostro presunto libero arbitrio. Pur inserendo una serie di riferimenti biblici, che sembrerebbero rendere Magnolia addirittura una mappa di destini, un disegno teologico, Anderson non dà mai una consistenza o un nome al suo primo motore immobile identificandolo con il fato o con una qualche forma di divinità, ma si limita a suggerire la sua interpretazione, chiedendo a chi guarda di darne di altre.
Il personaggio che si oppone a Frank nella dialettica tra l’insopprimibile desiderio di controllo dell’essere umano e la capacità di assecondare gli interventi del caso è Phil – uno straordinario Philip Seymour Hoffman – l’infermiere che lavora a casa di Earl per assisterlo. Phil, infatti, ha cura di captare e raccogliere la coincidenza che farà ricongiungere Frank e il suo paziente, seguendo la direzione che questa gli suggerisce, senza la pretesa di avere un reale potere sugli eventi e accettando anche la possibilità di vedere le sue aspettative deluse. In una delle scene più intense del film, dopo aver ordinato al telefono del burro d’arachidi con pane bianco, un pacchetto di Camel Light e qualche rivista porno – componendo il pacchetto ideale della masturbazione – sembra addirittura prendere la sua decisione senza che fosse stata prevista in sceneggiatura, rinunciando a farsi una sega perché si è imbattuto nell’opportunità di rintracciare Mackey. Così, quasi come una Moira inconsapevole, costruisce una nuova alternativa per l’esistenza di Frank, permettendogli di spogliarsi da un machismo che non è avverso soltanto alle donne, ma a tutto ciò che essendo diverso può celare un imprevisto, rischiando di rendere vulnerabile il “sovrano assoluto della vagina” – così come accade inevitabilmente, quando si trova ad assistere alla morte del padre.
All’apice di un climax insostenibile di sofferenza, su Los Angeles e sulle vicende dei personaggi si abbatte una pioggia di rane, in bilico tra la mimesi dell’Esodo e una semplice anomalia metereologica. Per la prima volta i protagonisti sono distratti dal loro microcosmo intimo, con lo straniamento di quando si assiste collettivamente a qualcosa di inspiegabile, ma non è propriamente questo evento simbolico a modificare le loro sorti. Anderson squarcia il nostro immaginario rappresentando il ribaltamento di ciascuna situazione, la svolta su cui la nostra società ha creato una vera e propria mitologia, con dettagli molto meno cinematografici – che se ci avessero riguardato in prima persona, avremmo probabilmente liquidato come spiacevoli, oltre che irrilevanti.
Stanley trova il coraggio di mostrarsi per com’è a suo padre dopo aver subìto quella che è la peggiore delle umiliazioni sulla scala di un bambino: pisciarsi addosso – per di più in diretta televisiva. Jim perde la pistola durante il servizio, perché distratto dal pensiero della ragazza che ha appena conosciuto e rinuncia al perfezionismo irreale su cui ha costruito la sua vita, per provare a vedere cosa succede un po’ più in là delle regole. Frank rivede suo padre e piange, rispettando un’emotività che si estende ben oltre il suo cazzo o lo stereotipo in cui è rimasto incastrato. Aimee Mann ricomincia a cantare, questa volta la sua “Wise Up”, che tutti i protagonisti scandiscono con le labbra, come se girasse nella loro testa dal primo frame: “It’s not / What you thought / When you first began”.
Magnolia smantella la nostra ossessione per i disegni a priori, gli algoritmi, e i ritratti totalizzanti della realtà, mostrandoci come gli eventi e le coincidenze che davvero ci destabilizzano non possano essere edulcorate nei loro effetti, né dalle previsioni né da qualunque pretesa di controllo. L’impressione è che nessuno dei personaggi possa ricomporre i frammenti temporali, per risalire all’esatto punto da cui è scaturita la rivoluzione, nemmeno in una visione a posteriori. Le definizioni con cui possiamo scegliere di chiamare le forze che li hanno spostati, traslati in un nuovo stato d’essere, sono potenzialmente infinite. L’immagine che riusciamo a farci del vero cambiamento, invece, è più chiara, perché esso non ha più le sembianze di un motivatore invasato, con la sua promessa di svoltare la nostra vita in dieci mosse, ma assume quelle di un bambino che si piscia addosso, per sbaglio.