Esattamente un secolo fa, il 28 ottobre del 1922, il Partito Nazionale Fascista marciava su Roma. Cento anni dopo dopo, tra gli argomenti di conversazione di oggi ci si chiede se è legittimo un partito mantenga il simbolo della fiamma tricolore. Che il fascimo in Italia abbia lasciato un’impronta indelebile, come una muffa che ritorna – anche se in forme diverse, e non a caso lo storico Emilio Gentile parla di “fascismi” – a più riprese su un soffitto già traballante, non è un mistero. L’eredità ideologica e sentimentale di Benito Mussolini si manifesta sotto molteplici forme e, invece di allontanarci con il passare del tempo, sembra, al contrario, che più ci distacchiamo da quell’ottobre del 1922 più è normale parlarne in pubblico con indulgenza, nostalgia. Come se, passati gli anni che servivano a spegnere il fuoco del dolore e del ripudio, si potesse essere più clementi verso ciò che molti, in Italia, vedono come un periodo di grande gloria e prosperità. Non è così, né si può lasciare che il tempo ammorbidisca i crimini e gli orrori della dittatura che ha avuto luogo nel nostro Paese non millenni fa, ma durante il secolo scorso.
Il Novecento però, oltre che il secolo in cui l’Europa è stata sovrastata dalle peggiori dittature, è stato anche il periodo storico per eccellenza del cinema: per la prima volta, a testimonianza di ciò che succedeva, è arrivata l’immagine in movimento. Il cinema, più di qualsiasi altra arte, è custode della nostra memoria storica contemporanea, per il semplice fatto che è la forma di rappresentazione più emblematica di un periodo in cui questa innovazione ha cambiato radicalmente il mondo. Se la parola scritta e le infinite testimonianze orali di quel ventennio oscuro che fu il fascismo non sono sufficienti, registi, sceneggiatori e attori tra i migliori che abbiamo mai avuto hanno raccontato tutte le sfaccettature della dittatura di Benito Mussolini.
Roma città aperta, di Roberto Rossellini (1945)
Tra le mille implicazioni, dirette e indirette, che il fascismo ha avuto in Italia nel ventennio in cui è esistito, possiamo cominciare dalla fine, ossia dall’orrore della guerra e dal suo enorme impatto sulle vite degli italiani: pensiamo, per esempio, all’incredibile opera cinematografica che è la Trilogia della guerra antifascista, di Roberto Rossellini, composta da Germania anno zero, del 1948, Paisà, del 1946, e soprattutto, Roma città aperta del 1945. Quest’ultimo, capolavoro che apre la trilogia del regista neorealista e che consegna Anna Magnani alla storia del cinema come interprete famosa in tutto il mondo. In Roma città aperta, vediamo gli effetti più logoranti e distruttivi degli ultimi colpi di coda del regime fascista e in particolare dell’occupazione nazista della capitale attraverso le storie di uomini e donne che hanno fatto la resistenza. Storie come quella di Pina, il personaggio interpretato da Magnani, che è diventata poi la protagonista della scena più famosa del cinema neorealista italiano, quella della corsa dietro al camion dei tedeschi che hanno catturato il marito.
Novecento, di Bernardo Bertolucci (1976)
Se Roma città aperta racconta i momenti che precedono l’epilogo del fascismo, Novecento, di Bernardo Bertolucci, approfondisce tutto ciò che è stato ai suoi albori, un pezzo fondamentale di storia che smentisce qualsiasi teoria sulla presunta radice nobile del movimento mussoliniano. Il film del 1976, un vero e proprio colossal di oltre cinque ore, racconta infatti la vita nell’Emilia della prima metà del Novecento attraverso due protagonisti provenienti da due classi sociali opposte, Alfredo e Olmo, un proprietario terriero e un contadino, interpretati da Robert De Niro e Gerard Depardieu. Bertolucci mette in scena con particolare attenzione il periodo in cui le squadriglie fasciste reprimevano i moti contadini rivoluzionari, un momento cruciale per la storia degli anni successivi, che porterà i protagonisti fino alla resistenza partigiana e alla Liberazione. La violenza e la prevaricazione che si abbatte sulle categorie più deboli, che proprio negli anni Venti cominciavano a respirare l’aria della rivoluzione, dimostra la meschinità di un movimento politico nato prima di tutto sul sangue.
Salò e le 120 giornate di Sodoma, di Pier Paolo Pasolini (1975)
Il 25 aprile è il giorno in cui l’Italia fu finalmente dichiarata libera da ogni strascico della dittatura fascista. Prima della Liberazione, però, momento cruciale che ancora oggi festeggiamo, sebbene in Italia ci sia chi la reputi solo una ricorrenza secondaria, ci fu la Repubblica di Salò, rappresentata da Pier Paolo Pasolini nel suo celebre Salò e le 120 giornate di Sodoma, film che il regista non ebbe il tempo di vedere in sala, dal momento che uscì tre settimane dopo la sua morte, in Francia, nel 1975, poi in Italia nel 1976 e di nuovo nel 1978, dopo essere stato sequestrato per oscenità. Attraverso una cornice dantesca, Pasolini costruisce una grande metafora della Repubblica di Salò e della sua violenza sanguinaria e spietata che, nel racconto distorto e onirico del regista, si traduce in centoventi giorni di torture inflitte a giovani antifascisti prigionieri di un girone infernale dove tutto è concesso, dallo stupro alla necrofilia. Il film, chiaramente, ha molti più strati di lettura della semplice metafora storica, con le sue molteplici sovrapposizioni allegoriche: la riflessione di Pasolini è infatti un’ampia panoramica sul potere, che nel caso della nostra storia, ha come apice distorto l’esperienza di Salò.
Il processo di Verona, di Carlo Lizzani (1962)
Sempre nel periodo di formazione della Repubblica di Salò e degli ultimi colpi di coda del fascismo prende luogo un altro film fondamentale per la ricostruzione di questo periodo terminale della dittatura di Mussolini, ossia Il processo di Verona, del 1962, di Carlo Lizzani. In questa pellicola, raccontata dal punto di vista della figlia del duce, Edda, nonché moglie del braccio destro di Mussolini, Galeazzo Ciano, vanno in scena le fucilazioni della Repubblica Sociale Italiana. Edda Ciano, infatti, fece di tutto per salvare il marito, anche se i suoi sforzi furono vani, visto che l’esecuzione avvenne comunque nel 1944: l’alto tradimento al duce dopo l’Operazione Quercia, specialmente nella fase terminale della sua dittatura era imperdonabile. Con l’incredibile interpretazione di Silvana Mangano nel ruolo di Edda, Il processo di Verona riesce a raccontare fatti storici drammatici con il pathos di un dramma teatrale, dando così alla vicenda un aspetto molto più sfaccettato e tragico, non solo per gli eventi nazionali ma anche per quelli personali di tutti i soggetti coinvolti.
Mussolini ultimo atto, di Carlo Lizzani (1974)
L’impegno di Carlo Lizzani nel raccontare con il suo cinema politico non solo i fatti storici ma anche i profili umani dei personaggi storici che hanno popolato il fascismo italiano non si limita a Il processo di Verona. Il regista, infatti, dodici anni dopo il suo primo film sul tema, ha messo in scena anche la fine della Repubblica Sociale e di Benito Mussolini stesso con Mussolini ultimo atto, del 1974: nel film emergono soprattutto gli ultimi giorni di vita del duce, caratterizzati dalla corsa contro l’ineluttabilità della sua fine; niente poteva salvarlo, neanche i tentativi vigliacchi di dissimulazione, come travestirsi da soldato tedesco per sfuggire ai partigiani e contare sulla protezione delle SS che lo avrebbero scortato fino alla Svizzera. Il 28 aprile del 1945, tre giorni dopo la Liberazione, Mussolini venne giustiziato insieme ai suoi fedeli seguaci, compresa Claretta Petacci.
La lunga notte del ‘43, di Florestano Vancini (1960)
Anche La lunga notte del ‘43, di Florestano Vancini, come Il processo di Verona, racconta la fase post-armistizio dell’8 settembre con uno stile tipico del neorealismo italiano adattato alle nuove correnti cinematografiche intimiste degli anni Sessanta. Ambientato a Ferrara durante i rastrellamenti e tratto da un racconto della raccolta Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani – scrittore che ha raccontato bene la città in quegli anni, soprattutto con il suo famoso romanzo Il giardino dei Finzi-Contini – il film di Vancini, allora esordiente, oltre che della brutalità fascista parla anche dell’indifferenza e dell’ignavia che molti hanno scelto in quel periodo. La nostra storia, infatti, non è fatta solo di eroi, anzi, il fascismo fu un momento in cui tanti uomini e donne preferirono soccombere alle regole del fascismo, anche le più crudeli, per comodità, per codardia, per paura.
Il delitto Matteotti, di Florestano Vancini (1973)
Sempre del regista Florestano Vancini, Il delitto Matteotti, uscito nel 1973, racconta la vicenda del deputato socialista rapito e ucciso davanti alla sua abitazione il 10 giugno del 1924. L’episodio sancisce l’inizio della dittatura vera e propria, con la soppressione della libertà di stampa e, come recita profeticamente la voce fuori campo alla fine del film, una dittatura che “porterà la Nazione allo sfacelo”. L’evento fu di centrale importanza anche perché fece sì che alcune delle voci dissidenti più importanti di quel periodo si alzarono contro i prodromi di ciò che sarebbe stato il ventennio successivo, tra le quali quelle di Pietro Gobetti e Antonio Gramsci.
Lion of the desert, di Mustafa Akkad (1981)
Il fascismo però, nei suoi lunghi vent’anni di persistenza, purtroppo non è stato solo un fenomeno italiano. Lion of the desert, il film del 1981 del regista Mustafa Akkad, espone un punto di vista periferico della dittatura, ma non per questo secondario, ossia quello del colonialismo italiano della “quarta sponda”, in Africa, in particolare in Libia. La pellicola, che racconta gli atti eroici di resistenza guidati dal guerrigliero Omar al-Mukhtar, venne censurato da Andreotti, perché ritenuto offensivo nei confronti dell’esercito italiano e la sua proiezione fu spesso ostacolata. Lion of the desert, infatti, fornisce un’immagine cruda e devastante delle malefatte italiane in Africa, raccontando anche dei campi di concentramento in cui venivano rinchiusi gli i pastori seminomadi di quelle terre, oltre che delle repressioni sanguinose di qualsiasi forma di ribellione al colonialismo. Nonostante alcune inesattezze storiche, la pellicola di Akkad rimane una grande testimonianza di ciò che furono le battaglie combattute a su un livello totalmente impari dall’esercito italiano contro la resistenza libica.
Cristo si è fermato a Eboli, di Franco Rosi (1979)
Un altro aspetto del fascismo su cui è impossibile sorvolare è quello dell’emarginazione di intere categorie sociali attraverso il mezzo del confino. In Cristo si è fermato a Eboli, film del 1979 di Franco Rosi, tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Carlo Levi, il protagonista viene spedito in un paesino lucano per via della sua fede antifascista. Gian Maria Volonté, che interpreta lo scrittore, si ritrova in una dimensione esistenziale arcaica e superstiziosa, congelata in un tempo al di fuori della modernità cittadina: la fede fascista e il mito della nazione diventano in quel luogo sperduto un appiglio per far fronte all’enorme disparità e arretratezza che attanaglia il paese. Una truffa, a tutti gli effetti, che si traduce anche in fenomeni come l’arruolamento volontario di giovani contadini che sperano in un pezzo di terra in cambio di una loro partenza per l’Abissinia. Cristo si è fermato a Eboli è uno spaccato malinconico e frustrante sulle periferie della dittatura, dove arrivava chi veniva escluso dalla modernità e dove viveva chi credeva, illudendosi, di poter far parte di questa modernità anche da lontano.
Una giornata particolare, di Ettore Scola (1977)
Sempre sul confino si ambienta uno dei capolavori di Ettore Scola: Una giornata particolare, del 1977, con la coppia Marcello Mastroianni e Sophia Loren – e una giovane Alessandra Mussolini, attrice in tempi non sospetti. Mastroianni, omosessuale destinato al confino in Sardegna; Loren, casalinga, fascista, ignorante e ingenua, si conoscono nel giorno della visita di Hitler a Roma, entrambi rimasti soli in un palazzone romano silenzioso e vuoto. Mentre il mondo festeggia l’arrivo del Führer, i due si ritrovano nella loro dimensione di esclusione e solitudine: lei in quanto donna e madre, “angelo del focolare”, lui in quanto omosessuale. La giornata prosegue nella tristezza di un rapporto di amicizia che morirà sul nascere, quando la sera stessa Mastroianni verrà portato appunto al confino, lasciando però il germe dell’apertura e della consapevolezza alla protagonista: un libro, una lettura, un’evasione mentale da quella condizione di prigionia che lei ritiene invece un privilegio.
A un secolo dalla marcia su Roma e alle porte di una nuova era politica di cui ancora non sappiamo nulla, anche se possiamo già temere molto, conoscere il nostro passato recente è un dovere, nonostante sembri molto lontano. Il fascismo si studia attraverso molteplici forme, non soltanto a scuola nelle ore di Storia; abbiamo la fortuna di avere una grande tradizione cinematografica che ci consente di accedere a una narrazione eccellente di un periodo mai davvero concluso. E anche se i film non fanno cambiare davvero idea a nessuno, di certo hanno il potere di smuovere qualcosa se nel 2022 basta un cartone animato per bambini a sollevare un polverone.