Più si allarga la distanza temporale da un evento, più si tendono a dimenticare le concause che hanno fatto sì che si avverasse. Accade anche rispetto all’instaurarsi delle dittature. In Italia, ad esempio, si riduce spesso l’arrivo di Mussolini alla Marcia su Roma, ma questa semplificazione ci impedisce di trarre qualsiasi lezione dalla Storia. Nel corso dei decenni, infatti, pur non raggiungendo mai le atrocità del fascismo, certe dinamiche si sono ripetute e nel 2022 potremmo ritrovarci con il primo governo neofascista della nostra Repubblica. Se negli ultimi tempi abbiamo individuato come causa scatenante dei successi berlusconiani, populisti e infine sovranisti le debolezze di una sinistra sempre più spaccata tra correnti e guerre fratricide, forse oggi potremmo renderci conto che cento anni fa la situazione sociale dell’Italia era molto simile a quella attuale.
L’attitudine della sinistra italiana, costretta a un’eterna fissione dell’atomo, ha origini più lontane di quanto si potrebbe pensare: bisogna risalire al contesto internazionale dopo la fine della prima guerra mondiale. La Russia stava vivendo la sua rivoluzione; la Germania soccombeva sotto le rigide imposizioni del trattato di Versailles, iniziando a covare il germe che Hitler avrebbe fatto sbocciare nel nazismo; l’Europa si leccava le ferite dopo una guerra che l’aveva messa in ginocchio. Anche l’Italia si trovò in pieno collasso economico, con il rischio di una guerra civile per via del malumore di operai e contadini, traditi dalle promesse fatte durante il conflitto e mai realizzate. Iniziò la stagione degli scioperi, con un governo in balia degli eventi, presieduto da Giolitti. Le proteste nate dalle fabbriche e dalle campagne subirono l’influenza di quella rivoluzione che in Russia lasciava intendere la presa del potere del proletariato. I socialisti italiani, in teoria, avevano a portata di mano l’appoggio di gran parte del popolo, potendo contare su un’inerzia che spingeva l’operaio a ribellarsi al “padrone”. Ovviamente non riuscirono a ottenerlo, perché si sfaldarono dando vita alla più grande scissione di sinistra del secolo.
Prima di arrivare al Congresso di Livorno, per capire le ideologie all’interno del Partito Socialista Italiano è necessario concentrarci sul quinquennio che precedette la Grande Guerra. Come è risaputo, Mussolini non solo era un socialista, ma scalò le gerarchie del partito entrando nella direzione nazionale e diventando, nel 1912, direttore dell’Avanti!, quotidiano organo ufficiale del partito. Con l’arrivo dei venti di guerra, avvenne in Mussolini una delle più grandi trasformazioni che la Storia ricordi. Se nel luglio del 1914 scriveva un feroce editoriale intitolato “Abbasso la guerra”, proponendo addirittura uno sciopero insurrezionalista nel caso in cui l’Italia fosse entrata nel conflitto, nel giro di un paio di mesi divenne un interventista, creando malumori all’interno del partito. Così abbandonò il quotidiano socialista e fondò Il Popolo d’Italia, dove scrisse editoriali a sostegno della guerra e attaccò i compagni di partito. Venne espulso dal PSI il 29 novembre del 1914, e fu anche accusato di aver ricevuto finanziamenti occulti da industriali e dai servizi segreti francesi per sostenere la causa interventista. Ma questa non fu di certo la sua unica giravolta ideologica. Da fervente anticlericale divenne, anni dopo, “l’uomo della Provvidenza” per Papa Pio XI, in seguito alla firma dei Patti Lateranensi.
I suoi ex compagni di partito non diedero troppa importanza all’espulsione di Mussolini. Anche a guerra conclusa, la loro attenzione era rivolta più a ciò che stava avvenendo in Russia e alle correnti interne che si stavano formando. Quando nel marzo del 1919 Mussolini fondò un movimento nazionalista, i Fasci italiani di combattimento, i socialisti inizialmente nemmeno lo presero sul serio. D’altronde, agli albori, non si trattava nemmeno di un partito. C’era il pandemonio nelle fabbriche, quell’ex socialista ingrato non avrebbe di certo rappresentato un pericolo. Come si è poi visto, si sbagliavano. Quella di Mussolini non fu una megalomania simile a quella che spinse D’Annunzio fino a Fiume, ma fu accettata obtorto collo anche dall’esercito e dalla Corona. Il Paese – segnato dagli scioperi e da un Biennio Rosso, che il re Vittorio Emanuele III e il governo temevano potesse assumere tratti troppo sovietici – visse un vero e proprio appeasement quando l’esercito, probabilmente ancora scottato dalla disfatta di Caporetto, attuò una violenta repressione contro gli scioperanti, ma non contro gli squadristi fascisti. Dal 1919 gli uomini di Mussolini iniziarono la loro insurrezione. Curiosamente, tra i primi gesti venne dato fuoco alla sede milanese dell’Avanti!, come se Mussolini volesse far intendere sin da subito i nemici da colpire. Le manifestazioni socialiste divennero così luogo di scontri, con gli arditi ed ex combattenti schierati tra i fascisti per creare disordine. Gli attacchi erano mirati, come nel caso degli assedi alle Camere del Lavoro, con i fascisti al servizio degli industriali nel periodo delle fabbriche occupate. Quando nel 1921 il movimento di Mussolini divenne il Partito Nazionale Fascista, in seguito alle elezioni una trentina di fascisti vennero eletti alla Camera. I socialisti si resero conto che Mussolini stava tessendo una tela che comprendeva la complicità delle forze dell’ordine, ma proseguirono le loro battaglie interne.
Come scritto in quegli anni dall’anarchico Luigi Fabbri, e ripreso in seguito da Giampaolo Pansa, il fascismo fu visto dalle istituzioni come una “controrivoluzione preventiva”, un modo per bloccare “l’ondata rossa” in Italia. A sinistra non c’era però una visione comune per poter contrastare la sua controparte nera. I socialisti erano divisi in due correnti: i riformisti, che intendevano cambiare la società attraverso le riforme, e i massimalisti, che consideravano invece necessaria la rivoluzione. Eppure, lo stesso Lenin, attraverso una lettera pubblicata dall’Avanti!, considerò “prematura una rivoluzione sociale in Italia”. Questa poteva sembrare un’apertura all’ala riformista guidata da Filippo Turati, ma il leader russo, dopo pochi mesi, accusò i riformisti di “anestetizzare la volontà rivoluzionaria del popolo italiano”, smentendo la sua stessa precedente missiva. La resa dei conti arrivò al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, tenutosi al Teatro Goldoni di Livorno, dal 15 al 21 gennaio del 1921. Ai massimalisti, denominati anche “comunisti unitari”, si aggiunse la corrente dei “comunisti puri” e quando arrivò dal Comintern la richiesta di espellere dal partito i riformisti il Congresso si trasformò in una polveriera.
Non essendoci una linea unitaria, all’interno del teatro si susseguirono aneddoti diventati ormai letteratura. I dialoghi tra gli esponenti del partito seguivano più o meno questo tenore: “Voi riformisti che riforme avete fatto?”; “E voi rivoluzionari che rivoluzione avete messo in piedi?”. Alla fine, la maggioranza rifiutò l’invito del Comintern a espellere i riformisti e chi aveva votato a favore abbandonò la sala, invitato da Amadeo Bordiga a raggiungere il teatro San Marco per fondare il Partito Comunista d’Italia. Figure di spicco della nuova creatura politica furono Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, mentre rimasero tra i socialisti Filippo Turati, Sandro Pertini e Giacomo Matteotti: facevano però parte della minoranza riformista, mentre prevaleva dopo il Congresso la linea massimalista. Quando infatti, l’anno seguente, Turati si recò dal re per le consultazioni durante la crisi di governo che portò Luigi Facta, pupillo di Giolitti, alla presidenza del Consiglio, i massimalisti insorsero contro il leader dei riformisti, reo di aver violato il divieto di entrare in contatto, anche indirettamente, con i partiti borghesi. Così, i riformisti furono cacciati ugualmente, ma un anno dopo il Congresso di Livorno. Turati, Matteotti, Pertini, Claudio Treves e Camillo Prampolini fondarono quindi il Partito Socialista Unitario. Tutto questo avvenne pochi giorni prima di un evento che la sinistra, impegnata tra correnti e spaccature, aveva trascurato: la Marcia su Roma.
Con i fascisti alle porte della capitale, Facta chiese a Vittorio Emanuele III di proclamare lo stato d’assedio. Il re tentennò, poi il giorno seguente rifiutò di firmarlo e diede l’incarico a Mussolini di formare un nuovo governo, nonostante le violenze squadriste che per anni avevano invaso il Paese. Facta se ne uscì con la famosa frase “Nutro fiducia che tutto andrà nel migliore dei modi”. Il re chiese a Mussolini alcuni compromessi e rassicurazioni, e solo tre fascisti furono nominati ministri. La sinistra, ovviamente, fu tenuta fuori dal governo. Come reazione, Turati alla Camera dichiarò: “Voi pretendete di imprimere il fascio littorio nei cervelli dei vostri compiacenti colleghi, come lo avete impresso nel timbro dello Stato; imponendo a tutti il saluto con la mano protesa”. Si raggiunse la consapevolezza del colpo di Stato, ma soltanto in seguito ci si accorse di essere al centro di una dittatura. Lotte intestine e ideologiche, con il nemico che nel mentre si prendeva il potere con la violenza, per poi arrivare negli anni seguenti a uccidere gli avversari politici e a sciogliere i partiti e persino il Parlamento.
Emilio Gentile spiegò come l’errore della sinistra fosse stato quello di sottovalutare il fascismo per anni, considerando prima la Marcia su Roma “una farsa” e poi l’esperienza mussoliniana destinata a fallire in fretta. I socialisti massimalisti parlavano di “una lite tra borghesi, a noi non interessa”, mentre anche un colosso del pensiero come Gramsci scriveva nel 1922 “Il fascismo è in via di disgregazione” e addirittura nel 1924 lo paragonava a un “cadavere che aspetta[va] solo di essere seppellito”. Turati, invece, rincuorava la compagna Anna Kuliscioff scrivendole: “Tranquilla, ormai il fascismo è un impiccato che si mantiene per la stessa corda che lo impicca”. L’epilogo è ben noto: Turati e Pertini furono costretti alla fuga, organizzata tra gli altri da Adriano Olivetti, e poi all’esilio, Matteotti venne barbaramente ucciso e Gramsci fu arrestato, restando in carcere per undici anni, fino alla sua morte, a causa di un’emorragia cerebrale sopraggiunta in una clinica mentre era ancora in stato di detenzione. L’Italia si trovò sotto una dittatura sanguinaria con il nefasto esito finale della seconda guerra mondiale. E la sinistra, in cento anni, non ha mai smesso di creare ali, correnti e di scindersi all’infinito, consegnando perennemente il Paese agli avversari – come, molto probabilmente, avverrà anche alle prossime elezioni del 25 settembre.