“Quell’estate con Irène” racconta al meglio l’illusione di immortalità in cui viviamo da giovani - THE VISION

In un passo famoso delle Confessioni, Agostino sostiene che non ci sono, propriamente, tre tempi: passato, presente e futuro. Il tempo è essenzialmente un flusso interiore, in cui le cose che ci accadono rimangono impresse in modo più o meno delebile. Quello che chiamiamo presente è l’impronta immediata delle cose, il futuro è la presenza anticipata delle cose che verranno, il passato è il segno ancora tangibile lasciato da quelle che sono state: la memoria, perciò, è “il presente del passato”. Se dovessi dire in che tempo si svolge il racconto di Quell’estate con Irène, l’ultimo film del regista Carlo Sironi disponibile su MUBI dal primo ottobre, credo che sceglierei proprio questo: un tempo del ricordo, ma anche della presenza, in cui custodiamo gli eventi che ci hanno in qualche modo cambiati, plasmati, rendendoci quelli che siamo oggi. Non tutto, infatti, può essere ricordato: c’è un’ecologia della mente che provvede a eliminare il superfluo e a dispensarci una quota di necessario oblio. In certi casi, dimenticare può essere addirittura una condizione necessaria alla vita. Altre volte, invece, accade l’esatto contrario, e tenersi stretto il ricordo di qualcosa o di qualcuno – può diventare un modo per sopravvivere, per mantenerci intatti, a prescindere dalle cose che ci accadono intorno, proprio come accade alle due ragazze protagoniste del film.

Sin dal titolo, Quell’estate con Irène è un film che si pone nella prospettiva di un tempo trascorso, ma ancora vivido nei ricordi dei personaggi. L’ambientazione nel 1997 mette una distanza dal presente, facendo intuire che le due ragazze, conosciutesi da adolescenti, ora non lo siano più, in modo da far vivere il loro incontro nella dimensione della permanenza: quella che attribuiamo alle cose del passato in cui riusciamo ancora a riconoscerci, perché continuiamo a percepirle come parte integrante di ciò che siamo. Clara (Maria Camilla Brandenburg) e Irène (Noée Abita), infatti, si incontrano per la prima volta a diciassette anni, durante una gita organizzata dall’ospedale che le ha in cura. Che siano state malate è chiaro da subito, anche se il nome della loro malattia – il cancro – non viene mai esplicitamente rivelato, ma soltanto suggerito allo spettatore attraverso i tagli corti di capelli delle pazienti, le vertebre che solcano le schiene magre delle ragazze, o dalle risposte che ognuna di loro dà alla domanda posta da una psicologa durante una seduta di gruppo: “Come vi sentite?” – come “un bicchiere che cade”, “una libellula”, un “posto pieno di vento”, immagini in cui si legge la fragilità di una guarigione che non sembra mai definitiva. La malattia, pur essendo onnipresente, rimane però un elemento di sfondo, senza diventare mai la vera protagonista della narrazione, e anzi viene utilizzata come una sorta di espediente che serve per raccontare la personalissima terapia che le due protagoniste scelgono per affrontare il loro opprimente stato di convalescenza: fuggire insieme verso il mare, su un’isola lontana da tutti dove poter finalmente vivere la loro prima “vera” estate.

L’intenzione che muove il film sembra infatti quella di voler raccontare il momento in cui le prime impressioni della vita ci colpiscono e vanno a creare la nostra identità e la nostra memoria, creando un collage di quei piccoli istanti significativi di cui si costruisce un’amicizia – quelli in cui Clara e Irène si leggono ad alta voce pezzi di libri, in cui una cede all’altra il fondo del suo cono gelato, o in cui si spalmano a vicenda la crema solare per proteggersi dalla luce accecante che riempie la gran parte delle scene. Il tempo in cui si dispiega il loro rapporto rimane quindi volutamente indefinito, sospeso. Come se le due ragazze sapessero vivere sempre e solo nel presente, vedendo nell’età adulta e nella crescita il presagio di un divenire futuro a cui non credono di poter avere accesso – una sensazione che accomuna gran parte degli adolescenti, ma che viene acuita dalla recente esperienza di una malattia potenzialmente mortale. L’idea di cristallizzare il film in un coming of age da sogno a occhi aperti serve quindi anche a riflettere quel particolare momento del post oncologico definito “periodo specchio, in cui la sorveglianza di medici e genitori diventa opprimente per i pazienti, in particolare se giovani. Il senso di spontaneità e ribellione adolescenziale che le ragazze vivono nel microcosmo del loro legame è infatti in contrasto con il mondo reale, dove spesso si sentono ridotte a corpi deboli da tenere sotto una campana di vetro. In questo modo, il proteggersi costante impartito alle due amiche rappresenta un ostacolo alla ricerca di sé, e la loro fuga crea l’occasione per aprirsi a un altrove sconosciuto, che non corrisponde alla semplice destinazione scelta per le vacanze estive, ma a un autentico spazio di autodeterminazione che prima non avevano mai sperimentato.

Da qui deriva la centralità dello scenario naturale che ospita Clara e Irène: l’isola di Favignana, in Sicilia – che mi ha ricordato, a tratti, il luogo in cui le protagoniste di Persona di Ingmar Bergman sperimentano il loro stato di simbiosi, fusione erotica, e insieme di autodistruzione. Le figure delle due ragazze sono un tutt’uno con la natura incontaminata dell’isola, sembrano completare, riempiendole perfettamente, le insenature degli scogli che sbucano dall’acqua, e assecondare con i loro movimenti la curvatura delle cave di tufo abbandonate. Il mare, la sabbia e le rocce diventano elementi duttili designati ad accogliere i corpi femminili. Clara e Irène si muovono curiose come esploratrici tra le scogliere, accompagnate dalle musiche folk americane, dal pianoforte di Maurice Ravel, o dai brani dei The Cure – in particolare To Wish Impossible Things, il cui testo ha fatto da prima suggestione al regista nello scrivere la sceneggiatura – scivolando tra giorni che sono indistinguibili l’uno dall’altro, nel tentativo di dimenticare ciò che hanno lasciato fuggendo. 

La centralità della loro presenza in scena mette in evidenza la volontà di Sironi di misurarsi con il racconto della scomparsa progressiva di un corpo, pur tenendo quelli delle protagoniste sempre visibili nei confini dell’immagine. A far presagire questa lenta consunzione, però, ci sono i sintomi della malattia che riemergono per Irène nel corso della vacanza, facendola come sbiadire di scena in scena, nonostante la ragazza faccia di tutto per negare il suo malessere in favore della libertà estiva e della sua nuova vita ostentatamente spensierata – incarnando un sentimento di rifiuto per il negativo che e sempre più diffuso nella nostra società. È il suo corpo, infatti, ad arrendersi prima che lei si renda conto dell’aggravarsi della sua situazione di salute, in una scena in cui si addormenta per il mal di testa durante un temporale estivo, annullando le sue preoccupazioni, almeno per un momento, nel sonno.

Già nel primo lungometraggio di Sironi, Sole, del 2019, il tema del corpo come primo mediatore della coscienza che abbiamo di noi stessi e del mondo era stato indagato dal regista passando per i limiti fisiologici che esso ci impone, con un’attenzione particolare alle attese, le vulnerabilità, le imperfezioni che tracciano i confini del nostro sentire. Se la corporeità, in Sole, imponeva alla protagonista Lena di confrontarsi con il lungo tempo di sospensione della gravidanza affrontata dalla ragazza come madre surrogata, che diventa l’incubatore di una serie di riflessioni sulla maternità, la nascita e la scoperta di un inedito desiderio di genitorialità; nel caso di Quell’estate con Irène gli strascichi della malattia e i segnali di una sua possibile nuova insorgenza scandiscono i pensieri e lo stato d’animo della coppia di amiche, introducendo un ragionamento sul senso della fine. Guardare così da vicino i corpi di Clara e Irène, infatti, permette di non utilizzare la malattia in senso ricattatorio, per raccontare le “ultime cose”, come spesso si fa in questi casi. C’è piuttosto la volontà di raccontare ciò che le due ragazze desiderano fare, magari per la prima volta, e soprattutto quello che desiderano fare insieme, per fare fronte a un sentimento d’epilogo anacronistico rispetto alla loro età anagrafica.

L’amicizia tra le due ragazze rappresenta il simbolo più pieno di questo conatus ancestrale, che le stringe in un legame vitale, salvifico. I gesti che si scambiano vicendevolmente appartengono infatti a una dimensione assolutamente romantica, ma mai in senso sessuale, che permette loro di mettere in atto la migliore strategia di sopravvivenza di cui dispongono, anche se limitata ad uno spazio tempo specifico, che non può reggere al di là dei confini della loro vacanza. La comparsa di altri personaggi, tra cui le intrusioni di adulti che si affacciano nel film, ora con una telefonata materna, ora con il proprietario che gestisce l’affitto della casa vacanza, non sono che figure fuori campo, anche quando appaiono sullo schermo, perché non penetrano mai fino in fondo il rapporto che le lega, dando anche allo spettatore la sensazione di essersi perso qualcosa, di non aver colto il segreto di un’intesa che scorre parallelamente a tutto il resto.

Al centro del film di Sironi c’è dunque il desiderio di affidare al racconto cinematografico le memorie personalissime di un Io, di un corpo, e del suo contatto unico con il mondo. Ma la scelta di farlo attraverso i corpi delle sue protagoniste non è un modo per avvicinarsi all’esperienza privata della malattia e della morte, tutt’altro. Quell’estate con Irène racconta in modo universale la tensione tipica di un’età in cui si vive immersi in un’impressione fittizia d’immortalità, a cui anche Clara e Irène riescono a credere durante l’estate trascorsa insieme, a prescindere da ciò che c’è stato prima e da ciò che ci sarà dopo. La ricostruzione dei ricordi condivisi dalle due amiche, uscendo da ogni gusto per la drammatizzazione, diventa così un tentativo di restituire la parte di noi stessi a cui forse siamo più legati, quella che ci permette di tenerci insieme, di conservarci e di riconoscerci quando guardiamo indietro nel passato o tentiamo di proiettarci nel futuro; perché fatta dei momenti e dei legami che non siamo disposti a consegnare all’oblio, anche quando non ci sono più.


“Quell’estate con Irene” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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