“Il Signore delle formiche”, di Amelio, ci ricorda quanto l’omofobia resti una violenza da estirpare - THE VISION
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Il Sessantotto è l’anno ricordato dalla maggior parte di noi per l’ondata di ribellione propagata da movimenti di massa eterogenei uniti nel contestare i valori tradizionali e le istituzioni. Partita oltreoceano, a Berkeley nel 1964, da studenti infiammati dalla lettura del libro di Herbert Marcuse L’uomo a una dimensione, si diffonde in tutta Europa e nel mondo. In Italia, l’emblema è la battaglia di Valle Giulia a Roma, del primo marzo del 1968, quando studenti e polizia si scontrano fuori dalla facoltà di Architettura. Giovani “capelloni” rifiutano le regole e i costumi della società borghese in cui sono nati e prosperati, sfilando dietro a striscioni con la frase simbolo “Vietato vietare”, traduzione del più famoso slogan francese “Il est interdit d’interdire” comparso sui muri delle aule della Sorbona. Proprio in questo clima di rivoluzione creativa, politica, sociale, sessuale ed esistenziale in cui si battevano studenti, lavoratori, intellettuali e minoranze etniche, si svolgeva la vicenda paradossale e atroce di Aldo Braibanti, intellettuale emiliano, che venne processato e arrestato perché secondo l’accusa aveva “plagiato” un giovane di 23 anni, Giovanni Sanfratello. Un vero “processo alle streghe” in cui furono violati tutti i diritti dell’imputato per punire la sua omosessualità. La vita di due persone fu perseguitata e distrutta perché “Centrale restava essenzialmente l’impossibilità etica e sociale di un rapporto d’amore che non rispondesse ai canoni ufficiali”, denunciò Braibanti.

A riportare alla memoria questa storia al grande pubblico ci ha pensato Gianni Amelio, anche se già nel 2020 un passo in questa direzione era stato fatto da Carmen Giardina e Massimiliano Palmese con l’importante documentario Il caso Braibanti. La pellicola di Amelio ha un titolo che ricorda la saga fantasy di Tolkien: Il Signore delle formiche. Aldo Braibanti, infatti, era un esperto mirmecologo che studiava queste minuscole creature, probabilmente affascinato dal loro modo di stare al mondo. Come viene raccontato anche nel film, le formiche hanno due stomaci: uno che consente loro di nutrirsi e l’altro “sociale”, che permette loro di fare provviste per nutrire le altre formiche che non possono uscire – per vari motivi – dal formicaio. Una critica al capitalismo che è causa e fondamento dell’egoismo privato, ovvero del pieno dispiegamento dell’individualismo che per varie ragioni dilaga sempre di più.

Il film è approdato in concorso sugli schermi della 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia dove ha conquistato il “Premio Brian”. La sceneggiatura, scritta dallo stesso regista calabrese insieme a Federico Fava e a Edoardo Petti, racconta la grande storia d’amore tra Aldo Braibanti e Giovanni Sanfratello. Il film si apre con una scena serale che ne racchiude già l’essenza romantica e amara al tempo stesso. Un giovane giornalista Ennio (Elio Germano) è seduto all’aperto al tavolo del locale dove Graziella (Sara Serraiocco) lavora come cameriera, mentre di giorno studia all’università. Sullo sfondo Roma e l’isola Tiberina. Graziella, con fare distratto, scaccia dal tavolo delle formiche. È la metafora dell’intero film: Aldo Braibanti, uomo generoso e dal talento multiforme, che dona indistintamente agli altri, sarà emarginato e discriminato dall’intera collettività, etichettato come il “diavolo” di Fiorenzuola d’Arda. Giovanni Sanfratello (Leonardo Maltese) nel film viene chiamato Ettore Tagliaferri. Gianni Amelio ha infatti deciso di cambiarne il nome perché “non volev[a] che la storia diventasse un fatto personale mentre invece volev[a] che rappresentasse una famiglia simbolica classica della provincia italiana”. Mentre Graziella spazza via con la mano gli insetti nervini, poco distanti Aldo (Luigi Lo Cascio) e Ettore si amano al chiaro di luna recitando poesie l’un l’altro. Braibanti, difatti, come egli stesso racconta allo scrittore ligure Andrea Pini nel libro Quando eravamo froci, dice: “Il mio mestiere di vivere è stato ed è la poesia”.

Complice il montaggio che alterna passato e presente, lo spettatore rivive con empatia tutti gli accadimenti, che iniziano a Castell’Arquato, presso la torre del castello medievale – dove Aldo e Giovanni si conoscono e si innamorano – e finiscono a Roma, in via del Corso, dove i due vivevano, per rivedersi poi soltanto una volta e mai più durante il processo. All’interno del Torrione Farnese, infatti, nel 1947 Braibanti insieme a Renzo Bussotti aveva fondato un laboratorio artistico che accoglieva molti ragazzi e diventò un polo culturale per diversi anni, fin quando la DC decise di non rinnovare più il contratto di affitto. Nel 1962, poi, il poeta emiliano traslocò a Roma insieme a Giovanni Sanfratello “soprattutto per difenderlo dalla persecuzione della famiglia, dovuta a ragioni religiose, esistenziali e ideologiche”, dirà sempre a Pini. Purtroppo, il trasferimento non servirà a salvaguardare la loro relazione affettiva e intellettuale. Dopo circa un anno e mezzo, i due innamorati vennero rintracciati e Giovanni sarà rapito con la forza dalla famiglia che “realizz[ò] una serie di reati come violazione di domicilio, violenze fisiche, ecc., reati mai perseguiti legalmente. Si è arrivati a ricoverare con l’inganno in manicomio G., e a ricorrere ai più pesanti mezzi di coercizione psichiatrica, dagli elettroshocks ai prodotti chimici. Non sono però riusciti a trasformare G. in un accusatore,” scriverà Braibanti nel suo libro Impresa dei prolegomeni acratici del 1989.

È il 1964 e subito dopo il rapimento del ragazzo maggiorenne, inizia il lungo processo contro Aldo, denunciato dal pater familias Sanfratello con l’accusa di reato di plagio articolo 603 del Codice penale, o codice Rocco dal nome del suo principale estensore, il guardasigilli del Governo Mussolini Alfredo Rocco, istituito nel 1930. A rileggere oggi questo articolo si accappona la pelle per l’ipocrisia, tenendo conto di tutte le azioni che lo stesso regime mussoliniano perpetrò: “Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni”.

Il 1968, oltre a essere l’anno della sentenza di primo grado che condanna Braibanti a 9 anni di carcere, è l’anno della rivoluzione di Franco Basaglia presso il manicomio di Gorizia, il quale nel documentario di Sergio Zavoli I giardini di Abele affermava: “Quando una persona disturba, malato o meno che sia, va a finire o in manicomio o in carcere”. Ed è proprio il destino di Aldo e Giovanni. Se il primo in carcere ci resta meno tempo del previsto, dato che la sentenza d’appello fu più favorevole – “Il presidente mi diede sei anni, dei quali due condonati, due scontati perché avevo fatto la lotta partigiana e due li avevo già fatti. Così uscii” – pur avendo la reputazione distrutta; il secondo finisce in manicomio. Le immagini di Giovanni nell’ospedale psichiatrico torturato dagli elettroschock ricordano il film Sulla mia pelle, che – con le dovute differenze del caso – racconta un altro abuso di potere abnorme.

Partendo da fatti realmente accaduti – non tutto ciò che vediamo scorrere nei fotogrammi è fedele, in particolare il finale – Amelio ci racconta una storia corale a più voci: accanto all’imputato, prendono corpo familiari e amici, accusatori e sostenitori e un’opinione pubblica perlopiù distratta o indifferente. In questo contesto tutti sono colpevoli: da una parte la fazione ottusa, sottomessa ancora alla mentalità fascista, al conformismo e a un rigido cattolicesimo oscurantista, dall’altra la fazione opposta che pecca però di superficialità. Saranno gli stessi amici e colleghi di Braibanti ad ammetterlo sulle pagine dei Quaderni piacentini: “Ma anche noi dobbiamo fare l’autocritica. Se non abbiamo parlato prima del processo a Braibanti non è certo per pruderie, ma perché lo ritenevamo un episodio politicamente arretrato. […] Abbiamo peccato di superbia intellettuale, di leggerezza politica […] Quella che ci sembrava (ed è) una battaglia arretrata, è stata perduta anche perché non la si è voluta combattere. Bisogna combattere anche le battaglie arretrate”.

Nel film, solo il giornalista Ennio s’impegna a ricostruire la verità, affrontando sospetti e censure. Un altro personaggio che compie una parabola ascendente è quello di Graziella che, da scacciatrice di formiche, passa dalla superficialità alla consapevolezza attraverso la conoscenza che dissolve i pregiudizi e si batte per l’innocenza del poeta. La ragazza incarna l’impegno del Partito radicale (perciò vi è un brevissimo cameo di Emma Bonino) che fu molto vicino a Braibanti e, proprio grazie a questo gruppo, guidato da Pannella, nel 1981 il reato di plagio fu cancellato dal Codice penale.

La figura di Aldo Braibanti era ancora sconosciuta a molti, anche agli attori protagonisti del film, per loro stessa ammissione. Quest’opera è allora anche un modo per riscattarne la memoria nell’anno del suo centenario che condivide, insieme a molto altro, con Pier Paolo Pasolini; ma è anche un’opera a tratti autobiografica: Gianni Amelio, infatti, ha assistito a una delle udienze del processo e proprio a lui, adolescente, un professore disse: “Se sei omosessuale o ti curi o ti ammazzi!”. Analizzando con più attenzione questi 134 minuti abbiamo la conferma che lo scontro-incontro generazionale resti un aspetto distintivo di tutta la filmografia dell’autore. In questo film, Amelio ha voluto raccontare la prepotenza di un’ingiustizia, ma anche e soprattutto infondere il coraggio di ribellarsi. Come diceva il filosofo francese Emmanuel Lévinas: non basta incontrare l’altro, accoglierlo e parlargli, ma bisogna anche assumersene la responsabilità. Dietro la facciata in parte più permissiva di oggi, come sappiamo i pregiudizi resistono ancora, generando odio e disprezzo per ogni persona che non accetta di conformarsi, risultando per questo “diversa”. Ne abbiamo le prove ogni giorno, basti pensare allo squallido applauso e alle urla da ultras dopo la bocciatura del ddl Zan al Senato, strascichi di una mentalità fascista e retrograda, che non riconosce i diritti individuali e non rispetta le persone nella loro unicità.

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