Ogni volta che sento parlare di “street credibility” – dogma irrinunciabile sia per i rapper che stanno ancora attraversando la fase di registrazione dei demo, quanto per quelli che sentono di essersi portati i codici di sopravvivenza della periferia fino al successo – mi vengono immancabilmente in mente i protagonisti adolescenti dei film di Shane Meadows, dalle bande di Twenty Four Seven, alla coppia di amici che esplora la Londra di Somers Town, passando per Shaun, protagonista di This Is England, in cui il regista ha trovato il perfetto alter ego per materializzare i suoi ricordi d’infanzia. Nessuno di questi personaggi, ovviamente, ha qualcosa a che fare con la cultura black da cui il rap ha origine, né ne condivide l’immaginario, ma tutti sembrano rivendicare quello stesso senso di appartenenza e identità strettamente connessi con il luogo da cui provengono, non tanto un patriottismo che li lega all’Inghilterra, quanto un’affezione più specifica al loro quartiere, o alla periferia abbandonata in cui sono cresciuti. Come se esistessero delle inclinazioni soggettive capaci di radicarsi in determinati posti, ancor prima che nelle persone che li abitano.
La street credibility, in questo senso, è una sorta di rivisitazione fieramente provinciale di quella “verità”, quell’autenticità che l’antropologo e regista francese Jean Rouch voleva vedere al cinema. Un concetto che nell’Inghilterra degli Skinhead veniva vissuto in modo radicale, esasperato, passando attraverso dei codici di rigore e l’esaltazione di un perfezionismo inumano, spesso nutrito semplicemente dall’intolleranza – che presto sarebbe diventata razzismo, quando non neo-nazismo. Il desiderio di distinzione si univa così al potere aggregativo delle bande, creando un forte senso di comunità dato dall’adesione a precise gerarchie e schemi comportamentali, che spesso rappresentavano l’unica possibilità di “salvezza” nei confronti di una vita che altrimenti rischiava di essere davvero misera. Aderire fedelmente a questa sottocultura plasmata dalla violenza – che per noi risulta difficile da comprendere appieno, essendoci arrivata come già digerita in moda – diventava così un vero e proprio tratto caratteriale, che orientava le tue convinzioni esistenziali ed esperienze, ancor prima che il tuo aspetto e i tuoi gusti. Ed è per questo che anche Romeo, protagonista del secondo lungometraggio di Meadows A Room for Romeo Brass, del 1999, è alla ricerca della credibilità prevista dalla legge delle strade inglesi, rabbiose e permeate dalla mentalità coloniale, dove il tuo posto in società lo decide la tua fisicità o la capacità di avere la meglio in una rissa.
La trama di A Room for Romeo Brass, pur coprendo soltanto pochi giorni della vita di Romeo, assomiglia in tutto e per tutto a un romanzo di formazione, che segue da un lato l’evoluzione delle relazioni che il protagonista ha con i personaggi che lo circondano – in particolare quelle con la sua famiglia, con il suo migliore amico Gavin e con Morrell, uno sconosciuto che entra inaspettatamente a far parte della quotidianità dei due ragazzi; dall’altro lato, il film mostra invece i cambiamenti endogeni che stavano interessando la realtà sociale inglese, dove il carico di rottura proprio della cultura skinhead degli anni Settanta stava passando dall’essere un movimento di contestazione nel quale identificarsi, a una potenziale minaccia – dato che aveva ormai rivelato le sue componenti ideologiche di estrema destra, oltre che la vicinanza al Fronte Nazionale.
Nell’accostare la ricostruzione storica e quella diaristica, A Room for Romeo Brass innesta dunque le tappe di una vita come tante, quella di Romeo, al più ampio quadro del cambiamento culturale del Paese, facendo scorrere in parallelo la ribellione di un adolescente, ai primi cenni di diffidenza nei confronti di un moto sociale che era stato altrettanto ribelle, ma ben più violento e distruttivo. Il pretesto della narrazione di un disagio individuale apre così a un ritratto che è in realtà corale, collettivo, creando delle corrispondenze tra i movimenti dell’io dei personaggi e quelli della Storia – cifra espressiva tipica della corrente cinematografica del Nuovo Realismo inglese, a cui hanno aderito autori come Mike Leigh e Stephen Frears, oltre a Meadows, e che ha saputo rendere i suoi protagonisti dei veri e propri correlativi emotivi della situazione politica e socio-culturale del Paese.
Romeo, infatti, si comporta in modo diverso da Shaun, protagonista del capolavoro This Is England, forse l’opera più rappresentativa e sentita della filmografia di Meadows, uscita nel 2006. Se Shaun condensa in sé i sentimenti convulsi dell’Inghilterra dei primissimi anni Ottanta, divisa tra il lento tramonto del punk, la progressiva affermazione della cultura pop, le sommosse del proletariato inglese ferito dalla politica estera del Governo Thatcher, la guerra delle Falklands e le scazzottate dei gruppi di hooligans che riempivano lo stadio del Chelsea, i concerti reggae e i pub, opponendosi all’imborghesimento della classe lavoratrice inglese e all’insensibilità delle istituzioni ai bisogni delle nuove generazioni; Romeo vive le conseguenze di tutti questi fenomeni nel corso del decennio successivo, che stava già cercando delle alternative alla violenza per elaborare il portato emotivo del passato.
In This is England, infatti, è proprio la lotta skinhead a dare conforto al protagonista, offrendosi come una risposta anche al suo più grande dolore personale, legato alla morte del padre. Per Romeo, al contrario, non basterà identificarsi nella rabbia e nella frustrazione di Morrell – l’unica figura, insieme al padre del protagonista, a incarnare la grande delusione generazionale che invece accomunerà tutti i personaggi di This is England – per far pace con quelli che sono i suoi nodi irrisolti. Il senso di inadeguatezza di Romeo, il desiderio di diventare d’improvviso un po’ più adulto, così da avere i mezzi per andarsene da una casa che non riesce a percepire come tale, da quando il padre se n’è andato, e la paura di essere fagocitato da una realtà che sembra non cambiare mai, imperturbabile nella sua monotonia, rappresentano infatti dei motivi di inquietudine che a un certo punto non riesce più a disinnescare all’interno del legame che ha con Gavin.
Essendo la loro amicizia uno di quei rapporti che capitano quando ci si trova a crescere nello stesso posto e a frequentare la stessa scuola, senza che i due si siano mai davvero scelti – come molte di quelle che tutti abbiamo stretto prima dei vent’anni –, le circostanze portano Romeo a sospettare che delle semplici affinità casuali possano non essere sufficienti per colmare le loro reali differenze, dato che Gavin vive ancora al di qua del confine del mondo adulto, senza nessun interesse a valicarlo, accudito dai suoi genitori per una malattia alla schiena che si porta avanti sin dall’infanzia – e che continua per certi aspetti a tenerlo ancorato a quella fase della vita. In questo senso, A Room for Romeo Brass, rivisitando lo schema narrativo del viaggio dell’eroe, ne stringe l’iter tutto all’interno dello stesso quartiere di periferia, sottoponendo la relazione tra i due ragazzi a una prova di forza, come ci si aspetta da ogni buon racconto d’avventura.
L’antagonista che li mette di fronte a questa prova è Morrel, un personaggio che a partire dalla fisicità esile e impacciata sembra rappresentare la versione depotenziata di un bullo, tutt’altro che credibile nella sua sicurezza e spavalderia – a meno che non debba venderla a due ragazzini di dieci anni più piccoli. A partire dal momento in cui conosce Romeo e Gavin, Morrel si esprime con il linguaggio hard mod, ovvero quello della violenza e dell’aggressività che i gruppi di giovani della classe operaia avevano elevato a tratto distintivo, quasi costituisse le fibre del loro modo di essere e di stare al mondo, e che utilizza inizialmente per difendere i due durante una rissa, conquistandosi così la loro fiducia. I suoi codici di espressione hanno presa maggiore su Romeo, rispetto a Gavin, perché il primo finisce per confondere cazzotti, urla e minacce – gli stessi che il padre usava a casa, come si intuisce dalle rare scene in cui compare – con un certificato di appartenenza alla vita adulta a cui non vede l’ora di avere accesso.
L’aggressività che Morrel “insegna” a Romeo, facendogli vedere come si tira a pugni – in diverse scene che hanno più di qualcosa in comune con gli allenamenti instancabili di Whitaker in Ghost Dog di Jim Jarmusch – o ripetendogli continuamente che deve farsi rispettare, anche da suo padre, assume così la forma illusoria di un porto, la prerogativa essenziale per creare un rifugio sicuro che tenga il ragazzo al riparo dal mondo. Ed è insieme a Morrel che Romeo pensa di aver costruito la sua stanza segreta, quella che può occupare tutte le volte in cui ha voglia di scappare di casa, ora che si sente abbastanza forte per non dover dare spiegazioni, né alla madre, né alla sorella, né tanto meno a Gavin, che non sembra più essere all’altezza delle sue aspettative.
Ancora, la parabola dei sentimenti di Romeo è la stessa vissuta da gran parte delle frange più fragili della società inglese di quegli anni, dato che soltanto nel momento in cui l’escalation di violenza negli atteggiamenti di Morrel si mostra in tutta la sua pericolosità, il protagonista riesce a leggerla come un motivo di esclusione, isolamento e allontanamento dai suoi affetti – in particolare dal rapporto con Gavin, che Morrel continua a vessare in diversi momenti, fino a farlo rinunciare alla vicinanza al suo amico –, invece di vedervi l’opportunità di riconoscimento e salvezza che si era illuso di potervi trovare. Proprio come per gli inglesi, dopo anni in cui il Fronte Nazionale e i gruppi di estrema destra avevano venduto rabbia agli arrabbiati, facendo della loro emarginazione e abbandono una leva per ottenere consenso politico, l’operazione demagogica che Morrel aveva messo in atto nel suo rapporto con Romeo, riducendolo all’abuso di potere e alla manipolazione, fallisce proprio quando il ragazzo si accorge di quanto identificarsi nella sola violenza, nella rabbia e nell’aggressività non sarebbe servito a renderlo più forte, ma più solo. In una scena che può essere paragonata a una sorta di duello finale, è il padre di Romeo a cacciare Morrel dal quartiere, imponendosi con la forza e perpetuando così il solo codice che i due conoscono e comprendono, ma che non deve rappresentare l’unica alternativa possibile per le generazioni che seguiranno, tra cui quella dei due ragazzi.
A Room for Romeo Brass, pur esplorando un gruppo di relazioni estremamente ristretto, riesce a mostrare i meccanismi sottesi al fenomeno di divisione sociale di cui l’Inghilterra è stata esempio paradigmatico tra gli anni Ottanta e Novanta. Muovendosi dal minuscolo, privato, infinitamente specifico caso dell’amicizia tra Romeo e Gavin, il regista riesce infatti a costruire un ponte tra particolare e universale – e ritorno – mostrando la correlazione inscindibile e reciproca tra i nostri sentimenti personali (di rabbia, frustrazione e disillusione) e i moti che determinano la frammentazione sociale. Soltanto quando Romeo riconosce il vero pericolo nella manipolazione di Morrel, ovvero la concreta possibilità di diventare un suo complice, facendosi coinvolgere nella sua stessa aggressività, riesce infatti a sbloccare la dipendenza affettiva che aveva sviluppato nei suoi confronti, scegliendo di andare a trovare Gavin per recuperare il loro legame. Gli inglesi, invece, ci avrebbero messo decenni per spezzare il legame emotivo che avevano stretto con la cultura della violenza elevata a sedativo, a motivo di conforto, e per metabolizzare la ribellione skinhead in un ricordo che, nel bene o nel male, avrebbe per sempre fatto parte della loro Storia.