Le malattie infettive hanno, da sempre, accompagnato la storia dell’umanità, con un grande impatto sugli individui a livello economico, psicologico e sociale. Nonostante i numerosi progressi medico-scientifici del nostro tempo, in questo periodo stiamo vivendo sulla nostra pelle tutte le paure legate a una pandemia: l’aumento dei contagi, la mancanza di un vaccino e di cure efficaci, l’incertezza del futuro. Possiamo quindi capire meglio situazioni e vicende di un passato non troppo lontano, quando ancora le scoperte in campo medico non permettevano una pronta risposta alle malattie infettive.
All’inizio del Ventesimo secolo, a fare paura era la poliomielite. Una malattia virale e molto contagiosa, che colpiva soprattutto i bambini sotto i cinque anni, e soprattutto nella stagione calda. Descritta in modo scientifico per la prima volta nel 1789 dal medico britannico Michael Underwood, la poliomielite, come testimoniato da alcuni dipinti egizi, probabilmente accompagna l’uomo da molto più tempo, con una serie di epidemie che si sono succedute nei secoli. In Italia il picco epidemico si è verificato nel 1958, con più di 8mila casi; negli Stati Uniti, invece, l’epidemia più grave si è verificata nel 1952, quando è stato raggiunto il picco di oltre 57mila casi registrati e più di 3mila morti.
La poliomielite è causata da tre diversi tipi virali del genere Enterovirus, uno dei quali, il tipo 2, è stato completamente eradicato in quasi tutto il mondo nel 1999. I virus agiscono sul sistema nervoso, distruggendo progressivamente le cellule e causando, nei casi più gravi, una paralisi degli arti o addirittura totale, influendo anche sulla respirazione. Nel 90% dei casi, però, i sintomi sono simili a quelli di una brutta influenza, con febbre alta e dolori muscolari. Ancora oggi non è chiaro il motivo per cui alcuni individui sviluppino la forma più grave di poliomielite e non ci sono cure: l’unica protezione è data dal vaccino, che ha permesso di eradicare la polio in quasi tutto il mondo. Attualmente, dopo che nel 1988 la quarantunesima World Health Assembly ha adottato la Global Polio Eradication Initiative (GPEI), una risoluzione globale per l’eradicazione della poliomielite, il numero di casi è sceso quasi del 99% e l’80% della popolazione mondiale vive in zone libere dal virus. La malattia è ancora endemica in solo tre nazioni: Afghanistan, Nigeria e Pakistan, Paesi in cui i conflitti, l’insicurezza politica e la presenza di aree remote rendono difficile la vaccinazione di massa.
La quasi totale eradicazione della malattia è stata resa possibile grazie a un vaccino che ha una storia particolare: venne sviluppato per la prima volta da Jonas Salk proprio nel 1952, l’anno dell’epidemia negli Stati Uniti, quando la popolazione era in una situazione che adesso ci suona abbastanza familiare: la vita nelle città si era fermata, i cinema, le piscine, le chiese, erano state chiuse per prevenire la diffusione del contagio. Una situazione che Jan Nichols, sopravvissuta all’epidemia del 1952 durante la quale ha perso il suo fratello gemello, ricorda così: “Chi aveva figli viveva con ansia l’arrivo dell’estate, perché era il periodo della poliomielite. I genitori rispettavano alla lettera tutte le raccomandazioni di salute pubblica: evitare gli assembramenti, non permettere ai bambini di nuotare nelle piscine pubbliche e lavarsi molto spesso le mani”. Essendo una malattia quasi sconosciuta, fiorivano anche strane credenze popolari: “Una mia amica ricorda che sua madre, d’estate, le impediva di mangiare le pesche, per paura che il virus si annidasse nella peluria della buccia”.
In una situazione di emergenza come quella che si stava verificando, Jonas Salk, medico statunitense, lavorava sedici ore al giorno nel suo laboratorio all’Università di Pittsburgh, utilizzando le tecniche che aveva sviluppato qualche anno prima per il vaccino influenzale. Il suo scopo era quello di sviluppare un vaccino inattivato contro la polio, un vaccino, cioè, ottenuto a partire da un virus ucciso con il calore o con l’utilizzo di sostanze chimiche, da somministrare mediante tre iniezioni successive.
Nello stesso periodo un altro ricercatore, Albert Sabin, lavorava all’Università di Cincinnati a un vaccino attenuato, basato quindi su un virus vivo, la cui capacità di provocare la malattia veniva semplicemente attenuata. Rispetto al vaccino di Salk, quello di Sabin era di più facile somministrazione, dal momento che veniva somministrato una sola volta in pillole.
Tuttavia, Salk raggiunse per primo il traguardo, e nel 1952 avviò la prima serie di esperimenti preliminari per testare la sicurezza del suo vaccino. I primi test vennero svolti in due istituti a Pittsburgh, e nel marzo del 1954, Salk, dopo aver inoculato il vaccino a 5320 persone, compreso lui stesso, sua moglie e i suoi tre figli, aveva provato che il suo vaccino era sicuro. A questo punto, però, servivano dei veri trial clinici. Al giorno d’oggi sarebbe impensabile un trial di un vaccino sperimentale su bambini in età scolare. Eppure, fu proprio quello che avvenne nel 1954, quando i genitori, alla disperata ricerca di qualcosa che potesse sconfiggere la polio, offrirono più di 1.8 milioni di bambini come soggetti dei test. Inoltre, si mobilitò un esercito di volontari: 325mila tra medici, infermieri, educatori e privati cittadini, che avevano il compito di registrare i dati con carta e penna, senza alcun finanziamento da parte del governo o delle case farmaceutiche. Il finanziamento per portare avanti i trial venne fornito, infatti, solo sotto forma di donazioni private alla National Foundation for Infantile Paralysis, una fondazione creata nel 1938 dal presidente Franklin D. Roosevelt, disabile a causa della poliomielite contratta quando aveva 39 anni, nel 1921.
“Si trattò del più grande esperimento di salute pubblica della storia” ricorda David Oshinsky, storico e vincitore del Premio Pulitzer con il libro Polio: An American Story. “E non solo per il successo dei trial, ma anche per l’organizzazione, con decine di migliaia di famiglie pronte a collaborare per la salute dei propri figli. E tutto questo è stato fatto con donazioni private. È proprio questo a renderlo incredibile”.
Tra il 26 aprile e il 10 luglio 1954, ai bambini che parteciparono ai trial – diventati famosi come i Polio Pioneers – vennero inoculate le tre dosi del vaccino di Salk. Fino alla fine di quell’anno i ricercatori continuarono a seguire i bambini, ed effettuarono 40mila prelievi per verificare la risposta dei loro anticorpi.
L’elaborazione dei dati, svolta per lo più a mano, durò circa un anno: nella primavera del 1955, un anno dopo l’inizio dei trial, la National Foundation annunciò, in uno storico comunicato stampa, che il vaccino funzionava, ed era sicuro nell’80-90% dei casi.
Non è solo per questa mobilitazione che il vaccino di Salk è diventato famoso: lo scienziato, infatti, si rifiutò di brevettarlo. Il 12 aprile 1955, infatti, nel giorno in cui uscì il comunicato stampa, Salk venne intervistato da Edward R. Murrow durante una trasmissione della CBS, e alla domanda del conduttore su chi avesse il brevetto del vaccino, Salk rispose “Le persone, direi. Non c’è un brevetto. Puoi forse brevettare il sole?”
Quella di Salk è una frase che è entrata nella storia come simbolo di altruismo nella ricerca scientifica, soprattutto per chi si batte contro le speculazioni delle case farmaceutiche. In realtà il discorso è più ampio: anche senza un brevetto, la gente aveva già pagato per quel vaccino finanziandone la ricerca. In un solo anno, infatti, 80 milioni di persone fecero una donazione alla National Foundation for Infantile Paralysis, e scuole, comunità e compagnie si unirono contro la malattia. Il budget della National Foundation for Infantile Paralysis – soprannominata The march of dimes proprio perché molti donarono anche solo pochi centesimi- crebbe esponenzialmente, tanto da contribuire al finanziamento di numerose altre ricerche, compresa quella sul Dna svolta da Watson e Crick.
In più, come raccontato da David Oshinsky nel suo libro, dal punto di vista legale il vaccino non era brevettabile: sia la National Foundation che l’Università di Pittsburgh, infatti, inizialmente avevano cercato di brevettarlo ma furono dissuase proprio da Salk, che riteneva che il proprio lavoro non fosse nulla di nuovo, ma fosse basato su anni di lavoro svolto da altri. Secondo i legali, quindi, non c’erano i margini per un brevetto.
Oggi di sicuro sarebbe tutto molto diverso: prima di tutto la realizzazione di un nuovo vaccino mette in campo nuove tecnologie, laboratori all’avanguardia, personale altamente specializzato e mesi di lavoro, tutte voci dal costo molto elevato. Nessuna casa farmaceutica o centro di ricerca metterebbe in campo tutte queste risorse senza la prospettiva di avere, almeno per un certo periodo, il diritto di commercio esclusivo.
Parlando poi di finanziamenti privati, c’è poi un altro aspetto da considerare: c’è così poca fiducia nella scienza che probabilmente non ci sarebbe una risposta così grande né nel voler finanziare la ricerca, né nel voler contribuire come volontari. Come già si sta iniziando a vedere in alcuni casi, la ricerca di nuovi vaccini, più che uno sforzo collettivo, ormai è una gara tra nazioni, con delle implicazioni che, al momento, possiamo solo immaginare.