La sindrome dell’ovaio policistico (detta anche Pcos, da Poly-Cystic Ovary Syndrome) è l’alterazione endocrina più comune in età fertile e colpisce circa 1 donna su 10. Nonostante la sua grande diffusione, è però ancora una sindrome di cui si sa poco. Chi soffre di Pcos spesso deve convivere con questa patologia accontentandosi di terapie che ne allevino i sintomi oppure rassegnarsi alla pillola anticoncezionale, considerata una sorta di panacea di tutti i mali che però non risolve le cause profonde di questo problema non poco comune. Oltre all’assenza di una cura adeguata, le donne con l’ovaio policistico subiscono grandi pressioni psicologiche, sia perché spesso i loro malesseri sono incompresi o minimizzati, sia perché la malattia mette a repentaglio la loro salute mentale.
La Pcos è una patologia molto complessa, la cui origine è ancora discussa nella comunità scientifica. Per diagnosticarla di solito si valuta la presenza di almeno due di tre sintomi, stabiliti dai cosiddetti “criteri di Rotterdam”: l’oligo o anovulazione cronica (cioè ovulazione irregolare o assente), l’iperandrogenismo (cioè l’eccesso di ormoni maschili) e la presenza di molte piccole cisti ovariche. Le conseguenze di questi sintomi possono essere molto gravi dal punto di vista fisico e psicologico, dal momento che chi soffre di Pcos è spesso anche affetta da obesità, irsutismo (crescita anomala dei peli), diabete, infertilità, depressione, acne e problemi metabolici.
La Pcos fu descritta per la prima volta nel 1935 dai ginecologi americani Irving Stein e Michael Leventhal (e infatti è nota anche come “sindrome di Stein-Leventhal”) che stabilirono anche i primi criteri diagnostici: le cisti ovariche e l’assenza di ovulazione. Già Ippocrate nel 400 a.C. aveva notato che le donne con mestruazioni scarse erano spesso mascoline e faticavano a rimanere incinte, mentre una prima descrizione dell’ovaio policistico è attribuita al medico dell’università di Padova Antonio Vallisneri, nel 1721. Tuttavia, è solo nel 2003 che si è arrivati a un consensus, cioè a un accordo generalizzato sulle caratteristiche della sindrome, dopo la prima grande conferenza scientifica sul tema del 1990. Eppure, a distanza di tutti questi anni, le donne che soffrono di Pcos non solo faticano ad arrivare a una terapia, ma anche soltanto a una diagnosi – un problema aggravato anche dal considerare normale cicli troppo lunghi, brevi o assenti che induce molte donne a non andare dal ginecologo.
Come succede per altre malattie dell’apparato riproduttivo, ad esempio l’endometriosi, riuscire a diagnosticare la sindrome dell’ovaio policistico è spesso un’impresa lunga e sfiancante. Non solo per gli oggettivi ostacoli nel riconoscimento dei sintomi, ma anche perché spesso le donne hanno difficoltà a essere credute, oppure perché le avvisaglie della sindrome non vengono prese in considerazione. Si parla infatti di un vero e proprio “gaslighting medico”, per cui una donna si ritrova a dover cambiare diversi specialisti finché non ne trova uno che prenda sul serio ciò che sente e prova o che non sia contrario a prescrivere la pillola anticoncezionale. Secondo un sondaggio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, in media le donne hanno cambiato almeno 3 dottori nell’arco di due anni prima di ricevere un responso. “La maggior parte delle persone che arrivano a una diagnosi lo fanno durante l’adolescenza, quando vanno dal ginecologo perché hanno problemi con la regolarità della mestruazione”, ci spiega Marta Grasso, psicologa psicoterapeuta e fondatrice del progetto “Pcos Italia”, una community dedicata a persone che hanno la sindrome dell’ovaio policistico. “In genere però i ginecologi non fanno indagini metaboliche o endrocrinologiche, per cui il primo intervento è sempre la pillola. Il problema però è che i sintomi cambiano nel tempo e richiederebbero cure diverse”. Se è vero infatti che la pillola aiuta a tenere a bada i sintomi di questa patologia “spegnendo” l’attività delle ovaie, si tratta soltanto di un palliativo, per cui non appena si smette di assumerla tutto torna come prima, se non peggio. Spesso poi i problemi ovulatori vengono ricondotti a semplice stress, mentre quelli che colpiscono l’aspetto estetico, come ad esempio l’irsutismo o l’acne, sono considerati un capriccio o qualcosa che non è importante risolvere.
Per le donne in sovrappeso il percorso può essere ancora più difficile. La sindrome dell’ovaio policistico ha infatti conseguenze importanti sul metabolismo a causa dell’insulinoresistenza, cioè la bassa sensibilità delle cellule all’azione dell’insulina, che interessa circa il 70% delle donne con Pcos e che può provocare diabete di tipo 2 e patologie cardiovascolari. Per compensare questa resistenza, il corpo produce più insulina, per cui tutto il glucosio che si assume con l’alimentazione viene accumulato sotto forma di grasso. Sembrerebbe però che il peso corporeo influisca sulla sindrome e secondo alcuni studi basterebbe una sua riduzione del 5-10% per migliorare i sintomi. Il problema è che però spesso a una donna grassa o obesa con Pcos che va dal medico per migliorare il suo stato di salute viene detto semplicemente di dimagrire: si crea così un circolo vizioso per cui causa e soluzione si confondono. A tutto ciò si aggiunge un problema di tipo sociale, ovvero i pregiudizi che la comunità scientifica ha sulle persone in sovrappeso e la colpevolizzazione dell’obesità, per cui la perdita di peso viene fatta risalire alla semplice forza di volontà e alla voglia di mettersi a dieta. Per una donna con Pcos riuscire a perdere peso è tutt’altro che semplice, e la pigrizia c’entra poco: il dimagrimento è ostacolato dall’iperinsulimia.
Molte donne inoltre, come ci racconta Grasso, scoprono di avere l’ovaio policistico quando cercano di concepire e non ci riescono: questa sindrome è infatti la prima causa di infertilità nella donna. L’infertilità ha importanti conseguenze psicologiche che spesso vengono sottovalutate, come ansia, senso di colpa, frustrazione e inadeguatezza rispetto alle aspettative sociali. In questo caso, la cancellazione subita dalle donne è doppia: da un lato c’è la pressione sociale della maternità, per cui alle donne che non riescono ad avere un figlio viene continuamente ricordata la loro inadeguatezza, dall’altro chi cerca con insistenza di rimanere incinta viene spesso tacciata di essere un’invasata o una “pancina“.
Le conseguenze della Pcos sulla salute mentale non riguardano solo chi è in cerca di una gravidanza. “Il rischio di sviluppare una sintomatologia depressiva grave è da due a otto volte maggiore rispetto a chi non soffre di Pcos e circa il 30-34% delle donne con l’ovaio policistico soffre di ansia”, spiega Grasso. “Questa sintomatologia è associata soprattutto alle manifestazioni di iperandrogenismo, in particolare all’irsutismo, anche in termini di fobia sociale. Sono documentati anche molti casi di disturbo del comportamento alimentare, in particolare bulimia e binge eating, indipendentemente dal peso corporeo”. Ciò che rende la Pcos una patologia così difficile con cui convivere, infatti, è che colpisce molti degli aspetti che sono biologicamente e culturalmente legati alla femminilità. La Pcos è spesso percepita come una deviazione rispetto alla norma del “femminile”, a causa del grasso, della peluria, dei brufoli e dell’infertilità – tutte cose che la nostra società considera indesiderabili per una donna. Questo aspetto “sociale” della malattia e la sua stretta relazione che essa ha con le norme, i ruoli e le aspettative di genere è forse ancora meno indagato di quello medico. Le donne con Pcos si sentono quasi “distaccate” dal proprio corpo, anormali rispetto alla normalità delle altre donne che possono “accettarsi così come sono”, come comanda la body positivity. Ma per chi ha l’ovaio policistico “accettarsi” significa dover accettare la barba, o l’aumento di peso incontrollato, o la perdita dei capelli, o l’acne cistica da adulte o una combinazione di queste manifestazioni. Non proprio dettagli insignificanti.
Chi soffre di sindrome dell’ovaio policistico deve quindi imparare a fare i conti con continue microaggressioni e con l’invalidazione della propria esperienza, anche da parte di chi dovrebbe farsi carico della cura. Se è vero che le conoscenze su questa malattia sono ancora limitate, ciò non giustifica il trattamento che molte pazienti ricevono, a metà tra scorno e indifferenza, e l’idea – ormai superata – che la pillola sia una sorta di soluzione taumaturgica a tutti i problemi ormonali e ginecologici. Un’idea che riflette i numerosi pregiudizi che ancora esistono nella medicina sulla propensione delle donne a provare e sopportare il dolore, sia esso fisico o psicologico, che andrebbe eliminato nel modo più sbrigativo possibile. Da qualche anno, vari studi hanno sottolineato l’importanza di un approccio multidisciplinare a questa patologia, che coinvolge l’endocrinologia, la ginecologia, passando per nutrizione e psicologia. Al di là di nuovi studi e ricerche, per la Pcos così come per tante altre malattie o sindromi che colpiscono le donne, ciò che serve è un cambio radicale di mentalità. A partire dal non dare più per scontato che la sofferenza, qualsiasi sia la sua causa, sia una componente necessaria e “naturale” nella vita della donna.