I racconti dei miei pazienti nella stanza della psicoterapia riguardano spesso la paura, la vulnerabilità, lo stress e i traumi che hanno provato o che potrebbero provare, la sensazione di essere sempre a rischio. Se devo basarmi sulla mia esperienza professionale, non c’è alcun dubbio che l’emozione predominante della nostra epoca sia proprio la paura. Lo dicono i check in militarizzati degli aeroporti, le telecamere di sicurezza posizionate ovunque, le porte blindate, i muri che si alzano tra le nazioni, i blocchi di villette residenziali blindati come compound dell’esercito.
Se dovessi mettere in ordine le paure che ho incontrato mentre esercitavo la mia professione, dalla più leggera alla più intensa, direi: il cambiamento climatico, le epidemie che provengono da Paesi lontani, una emigrazione fuori controllo, la criminalità, il terrorismo. Alcune di queste paure sono ormai intrecciate tra loro. La paura del crimine, di essere aggredito, derubato, di subire violenza, sta diventando un problema a sé, una grave fonte di ansia e di tensione, e senz’altro peggiore, del rischio concreto di essere vittima. Tanto che ormai, sempre più spesso l’obiettivo principale che porto avanti nei confronti dei miei pazienti è aiutarli nella gestione della paura.
Tutti i maggiori reati sono in calo, così come il numero di immigrati sbarcati (lo dicono le statistiche ufficiali). Altre ricerche confermano che l’immigrazione non ha ricadute drammatiche sulla quantità di crimini commessi. Dati che dovrebbero rinfrancarci, ma non ci riescono. Un ispettore di polizia mi ha confessato di essere convinto che questi dati siano influenzati dalla sempre minor propensione dei cittadini a denunciare i reati. Mi domando però se la sua sia un’analisi attendibile, o una paura come quella di chiunque altro.
Purtroppo non saranno le statistiche ad aiutarci a sedare la paura. È sufficiente un nuovo attentato in qualche parte del mondo perché subito nella scuola con cui collaboro scatti di nuovo l’allarme e vengano chieste dai genitori misure di sicurezza sempre più stringenti. Il problema è che anche quando applichiamo misure di sicurezza molto rigide, questo non riesce comunque a fugare le nostre ansie, che rimangono pervicaci e indeterminate.
Quello che ritengo il mio maestro nel campo della psicoterapia mi ha raccontato che da giovane ha potuto raggiungere via terra l’India, passando dall’Afganistan, senza mai esibire il passaporto. Oggi una cosa del genere sarebbe inimmaginabile. Avalliamo politiche che come unico risultato aumentano le spese per la sicurezza a discapito di investimenti che sarebbero molto più utili – per la ricerca e lo sviluppo, ad esempio, o per fronteggiare la povertà – mentre le nostre libertà diminuiscono.
Una vita completamente libera dalla paura è probabilmente impossibile, dato che si tratta di uno stimolo naturale. Proviamo paura quando percepiamo pericolo, vero o presunto, e siamo spinti a produrre gli ormoni che ci permettono di metterci in salvo. La paura è un’emozione ancestrale, sviluppata in tempi lontanissimi come risposta immediata di fronte a pericoli contingenti, come ad esempio gli animali feroci o gli agenti atmosferici. I nostri progenitori erano scarsamente attrezzati contro i pericoli a cui il loro ambiente li esponeva, che erano comunque sufficienti a tenerli concentrati su paure concrete, piuttosto che su quelle generiche e astratte che invece tormentano noi. Di conseguenza il loro rapporto con ciò che li spaventava era molto più diretto del nostro.
Come ha scritto Zygmunt Bauman in Paura liquida, “Se un tempo la paura aveva un nome preciso, nel mondo contemporaneo essa si scatena da cause apparentemente serie, ma di fatto è una forma di continua insicurezza, di vulnerabilità, di sensazione di essere perennemente esposti a pericoli che possono arrivare da qualunque parte, senza più difese.” Abbiamo domato molti aspetti pericolosi o sgradevoli della realtà, ma la paura non è scomparsa, perché, a ben vedere, la paura non dipende realmente dai pericoli effettivi che ci circondano. La paura è una nostra percezione di pericolo, è dentro di noi. E questo senso di allarme, come detto, è sempre più diffuso.
Fino a un paio di generazioni fa, per far fronte alla paura si faceva riferimento allo Stato. Anche lo Stato è nato dalla paura dei nostri predecessori – lo ha scritto Thomas Hobbes già a metà del Cinquecento nel suo Leviatano – ed è sempre prosperato grazie alla paura e alla guerra, come ha aggiunto Niccolò Machiavelli nei suoi Discorsi (II, 25). Almeno quando non li spingeva in guerra, lo Stato ricambiava i sui cittadini dandogli sicurezza, garantendo per quanto possibile la loro incolumità e i loro beni, in seguito raccogliendo risorse e poi ridistribuendole, più o meno equamente, sotto forma di diritti: se perdevi il lavoro, o ti ammalavi, lo Stato ti erogava sussidi e cure mediche. Eri al sicuro.
Oggi quest’ultima roccaforte illusoria si sta lentamente dissolvendo. Lo Stato tramonta, e a contare sono sempre più gli individui il cui orizzonte d’azione è il pianeta, persone capaci di giocare partite che trascendono le frontiere nazionali: finanzieri che operano su mercati mondiali, imprenditori che delocalizzano, o artisti e giocatori di calcio la cui nomea non ha confini. Sono le loro scelte, le loro mosse e il loro stile a creare scenari nuovi, inauditi, sconosciuti ai più. Chi non sa adattarsi ai nuovi assetti globali perché si sente posto davanti all’ignoto – e l’ignoto spaventa – finisce con interpretare questi orizzonti come “pericolosi” – anche perché alcune conseguenze di questa partita lo sono. Ecco la paura.
Una paura a cui lo Stato non dà più soluzioni, sempre più privata, che lascia l’individuo solo con se stesso. Questo però non rende la paura un fatto intimo, interiore. Anzi, al contrario, oggi si tratta sempre più un fatto sociale. Sono gli altri a dirci che cosa ci deve fare paura. Lo ha spiegato molto bene Norbert Elias in Potere e civiltà: i tipi di paura e di ansia che proviamo, la loro intensità, non dipendono dalla nostra natura intima. Ormai sono “determinati dalla storia e dalla struttura attuale della relazione con gli altri”. In altre parole, non siamo nemmeno titolari delle nostre paure. È sempre qualcun altro che stabilisce quali dobbiamo provare.
C’è comunque una cosa che non è mai cambiata: la reazione che sviluppiamo quando siamo spaventati è sempre la stessa. La paura provoca tensione, uno stato di allerta continuo, un senso di offuscamento della realtà; ci spinge a chiuderci in noi stessi, e quindi ad alzare barriere verso gli altri, o nel caso peggiore a chiedere a terzi che una qualche barriera venga alzata tra noi e ciò che ci terrorizza.
È esattamente in questo meccanismo che si insinua l’uso politico della paura. Ormai in larga parte inabili a fornire soluzioni concrete, alcuni politici le fomentano sapientemente con pericoli che dipingono come imminenti, dichiarando che il loro obiettivo è proprio far fronte al senso di insicurezza che hanno creato. I più scaltri sanno che abbinare tra loro due paure ne quadruplica l’effetto. Un esempio è l’abbinamento “barconi di immigrati” e “terrorismo islamico”. I due fenomeni, già presi separatamente, suscitano paura, ma sostenere a gran voce che “i terroristi viaggiano attraverso i barconi” ha un effetto ancora più destabilizzante.
Questo naturalmente succede nel momento di raccolta del consenso, quando le elezioni possono trasformare la paura indotta in altrettanti voti. Ma non è più necessario, anzi, potrebbe diventare controproducente, quando si è a un passo dal governo del Paese. Così, il brutale assassinio della diciottenne Pamela Mastropietro avvenuto a Macerata cinque settimane prima delle elezioni è stato ampiamente strumentalizzato. E un uomo che la paura ha riempito di odio, Luca Traini, è arrivato addirittura a esprimere in proprio, sparando a persone di colore, una malintesa “giustizia”. Mentre la scoperta che i responsabili della tragedia di Piazza San Carlo a Torino sono un gruppo di rapinatori di origine nordafricana non è stata strumentalizzata in chiave politica, ed è quasi passata sotto silenzio. Le elezioni d’altronde erano ormai già avvenute.
Annamaria Testa, su Internazionale, ha desunto da alcuni studi scientifici che i cervelli delle persone con un orientamento più conservatore sono dotati di una minor quantità di materia grigia nella neocorteccia (la parte cognitiva, più recente, che sa gestire l’incertezza e le informazioni contraddittorie) e hanno amigdale più grandi. L’amigdala è una piccola porzione di materia grigia di forma ovoidale (amygdala in greco significa mandorla) che fa parte della porzione primitiva del cervello ed è associata alle emozioni – prima fra tutte la paura – con la memoria emozionale e con la cosiddetta reazione fight or flight (attacca o scappa).
Di conseguenza, come dice Testa, “chi fa leva sulla paura o agita lo spettro di un qualsiasi ‘nemico’ […] sta promuovendo istanze di destra”. Purtroppo il fenomeno è meno circoscritto di quanto venga dipinto. Alcuni politici dimostrano di essere molto abili nel trasformare le calamità altrui in vantaggi personali, proponendo false soluzioni, come fortificare i confini e mettere uno stop alle ondate migratorie. Ma la capacità di sfruttare politicamente le nostre paure non ha una precisa coloritura politica, e le vittime non sono soltanto i cervelli orientati a destra.
Non è facile metterci al riparo dalla politica della paura, ma c’è una strategia a cui cerco di far arrivare i miei pazienti che soffrono di ansia e hanno subito gravi traumi che li rendono ancora più esposti. È la stessa che impieghiamo davanti alle manifestazioni più basiche della paura, come un rumore in casa che di notte ci sveglia di soprassalto. Andiamo a vedere, e non appena ci accorgiamo che non c’è nessun ladro, ma che è stato il nostro gatto a far cadere un oggetto, riusciamo facilmente a riprendere sonno.