I dati statistici parlano chiaro: in Italia si odia sempre di più e lo si fa sul web. Negli ultimi anni la violenza verbale e le discriminazioni sui social sono aumentati vistosamente. Sono sempre più numerosi quelli che scelgono di nascondersi dietro uno schermo, talvolta usando anche un profilo e un’identità falsi, per sfogare un livore orientato alla mera umiliazione del prossimo. Ogni individuo, prima o poi, fa esperienza della rabbia e del rancore, e imparando a convivere con questi sentimenti può provare a scioglierli e a convertirli in energia positiva e non distruttiva. Ciò che però inquieta dell’astio che sta alla base dell’hate speech, è la noncuranza e l’orgoglio con cui questo sentimento viene agito e indirizzato, talvolta, verso perfetti sconosciuti. Il web è l’occasione perfetta per sfogare la propria frustrazione in modo subdolo, aggirando il confronto diretto con l’interlocutore. Chi un tempo si limitava a inveire per strada o ai semafori, protetto dalla propria automobile, oggi può trovare terreno fertile in rete.
Il fenomeno dell’odio virtuale si allarga e il motivo si rintraccia nella tendenza dell’uomo a imitare i comportamenti aggressivi degli altri. Su questo aspetto ha condotto degli studi lo psicologo canadese Albert Bandura, uno dei maggiori teorici dell’apprendimento sociale. Intorno alla metà del Novecento, Bandura studiò il fenomeno dell’aggressività infantile, arrivando ad affermare che i bambini commettono atti violenti in quanto osservano e imitano gli adulti; questa teoria fu influenzata da quella psicanalitica dell’identificazione, secondo la quale gli individui costituiscono la propria personalità assimilando le caratteristiche altrui. Gli studi di Bandura sono confluiti in quello che è noto come l’“esperimento della bambola Bobo”.
L’esperimento fu condotto nel 1961 presso la Stanford University, dove Bandura era docente. Per questo studio lo psicologo usò giocattoli di plastica gonfiabile – di dimensioni che andavano da un metro a un metro e mezzo circa – realizzati in modo tale che, ad ogni violento colpo inferto, questi tornassero immediatamente in posizione verticale. L’esperimento fu effettuato su un campione di 36 bambini e 36 bambine, di età compresa tra i 3 e i 6 anni; questi furono divisi in tre gruppi da 24 bambini, equamente ripartiti in maschi e femmine. Il primo gruppo era quello “del controllo”, che non osservò nessun modello di comportamento in particolare. Il secondo gruppo fu invece esposto a un comportamento adulto aggressivo, fisico e verbale, ai danni di una bambola gonfiabile. Il terzo gruppo, infine, fu esposto a un modello di comportamento adulto non aggressivo. I piccoli furono sottoposti all’esperimento individualmente, in modo che nessuno di loro fosse influenzato dalla reazione degli altri bambini.
Durante la prima fase dell’esperimento, ogni bambino doveva stare seduto a un tavolo e osservare il comportamento dell’adulto nella stanza con lui. Inoltre, in un primo momento al bambino venivano forniti oggetti di grande interesse per chi è in età prescolare – stampe, adesivi, fotografie – al fine di scoraggiare la sua partecipazione attiva e favorire la sola osservazione. In un secondo momento, poi, i piccoli erano condotti in una stanza in cui c’erano un altro tavolo, una sedia, un mazzuolo, un set di Tinkertoy e una bambola Bobo. A questo punto, a ognuno fu comunicato che avrebbe potuto giocare con ciò che aveva a disposizione, e l’esperimento rivelò ciò che Bandura aveva previsto.
Il gruppo dei bambini che avevano osservato il modello comportamentale aggressivo, infatti, si accanì con la bambola Bobo, con azioni veementi sia dal punto di vista fisico che verbale. Il fantoccio gonfiabile subì percosse, perforazioni, aggressioni col mazzuolo ma anche ingiurie ed espressioni violente – come per esempio “Sock it in the nose” o “Pow”. Viceversa, i bambini che avevano osservato il modello adulto non aggressivo, così come quelli che appartenevano al gruppo di controllo, svilupparono comportamenti violenti solo in rarissimi casi, e nella maggior parte dei casi si limitarono ad assemblare i Tinkertoy. L’esperimento registrò una, pur leggera, differenza di genere nella tendenza all’aggressione fisica – più frequente nei maschi – e un’assoluta parità tra i due sessi per quanto riguardava la violenza verbale.
La ricerca di Bandura ha innescato una serie di riflessioni circa la diffusione della violenza non solo attraverso i mezzi di comunicazione, ma anche tramite le fonti di intrattenimento dei più giovani – come ad esempio i videogiochi. Oggi, di fronte agli effetti della rivoluzione digitale, il fulcro della questione si è spostato sul web, dove chiunque può esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento e far circolare contenuti di vario genere. La quarta edizione della Mappa dell’Intolleranza, progetto ideato da Vox – Osservatorio Italiano sui diritti, ha evidenziato come sul totale dei tweet che hanno per oggetto i migranti, il 66,7 % sia costituito da manifestazioni di odio; rispetto al 2018, poi, si è registrato un aumento delle ingiurie indirizzate sia agli ebrei che ai musulmani. Nel mirino degli haters anche le donne, vittime di un sempre più alto tasso di commenti sessisti, mentre si è registrato un calo degli episodi di odio virtuale a danno delle persone omosessuali.
A questo proposito Silvia Brena, giornalista e co-fondatrice di Vox, aveva spiegato che “La Mappa dell’Intolleranza 4.0 mostra alcune evidenze assai significative del clima che si respira nel Paese. La prima riguarda l’impatto che il linguaggio e le narrative della politica hanno sulla diffusione e la viralizzazione dei discorsi d’odio. La seconda riguarda il ruolo dei social media, ormai corsia preferenziale di incitamento all’intolleranza e al disprezzo nei confronti di gruppi minoritari o socialmente più deboli. Il numero esiguo di caratteri che compone un tweet o un post infatti consente (o addirittura favorisce) la diffusione e la condivisione di pensieri e atteggiamenti idiosincratici, a maggior ragione se garantiti dall’anonimato”. Secondo il filosofo francese Jean Paul Sartre “basta che un uomo odii un altro perché l’odio vada correndo per l’umanità intera”; e se quella persona poi è un personaggio pubblico influente è facile capire come quell’odio risulterà ancora più virulento.
Lo scorso anno, una ricerca di Amnesty International Italia ha stabilito che sono molti i politici che fruiscono dell’hate speech al fine di ottenere consensi. La strategia usata è quella di selezionare un bersaglio – molto spesso migrante o rom – e renderlo protagonista di un post, in modo da innescare una spirale di insulti ed espressioni lesive della dignità altrui. Fomentare l’aggressività è un facile e becero strumento per far presa su un gran numero di persone, ma questo meccanismo ha delle conseguenze molto pericolose per la società. A farne le spese sono soprattutto le nuove generazioni, poiché portate ad assorbire i modelli di comportamento degli adulti e replicare le loro azioni, come dimostrano gli studi di Bandura citati prima. Nella nostra epoca, buona parte della formazione di bambini e ad adolescenti si tiene di fronte allo schermo di un computer o di uno smartphone. Le statistiche degli ultimi anni dicono che, in Italia, almeno 8 bambini su 10 sanno già usare il cellulare dei genitori, in un’età che va dai 3 ai 5 anni; a quest’età i piccoli non sono ancora in grado di leggere, ma possono già visualizzare immagini e video che inneggiano alla violenza. Più crescono, poi, più i giovani hanno accesso a diverse tipologie di contenuti – considerazioni denigratorie e razziste comprese – senza avere però ancora sviluppato un pensiero critico che lo difenda da ciò con cui entrano in contatto.
Accade spesso che i genitori, quando sono molto impegnati e non possono prestare la giusta attenzione ai figli, usino i dispositivi elettronici per distrarli o intrattenerli. Ma questa abitudine può essere molto dannosa, perché i più piccoli non sono ancora in grado di orientarsi in quello che, a tutti gli effetti, è un contenitore di sentimenti negativi. Il web costituisce una grande risorsa per i giovani, che hanno però bisogno di una guida che li aiuti distinguere ciò che è bene assimilare da ciò che va irrimediabilmente condannato. In questo processo i genitori hanno un ruolo fondamentale, è vero, ma non possono svolgere il proprio compito da soli, è necessario uno sforzo collettivo. Sarebbe bene che questo tipo di orientamento fosse trattato alla stregua di un’arte o di una scienza, diventando oggetto di studio o anche solo di riflessione e discussione nelle scuole. Quel che è certo è che i più giovani non possono essere abbandonati di fronte alla realtà virtuale, se non vogliamo che il futuro sia in mano a odiatori seriali che parlano e agiscono con violenza solo perché altri lo hanno fatto prima di loro.