Come gli stereotipi di genere cambiano il modo in cui le bambine vivranno la loro vita
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I luoghi comuni su quanto i cervelli maschili e femminili siano strutturalmente e funzionalmente diversi sono diffusissimi. Queste tesi sono state accreditate per anni anche da articoli e apparenti evidenze scientifiche, che hanno avuto la funzione di fomentare il binarismo di genere e giustificare da un punto di vista neurofisiologico rigidi ruoli sociali che andrebbero invece superati. Riconoscere che vi fossero abilità divergenti tra i generi si legava alla volontà di perpetuare la visione e l’ordine patriarcale della società, che affondava le sue radici in un’idea di inferiorità della donna e delle sue capacità logico-cognitive. Questo filone trova un autorevole precursore in Charles Darwin, che aveva posizioni esplicitamente misogine – anche se all’epoca era la norma – che lo portarono a sostenere che “la distinzione principale nei poteri intellettuali dei due sessi è mostrata da una maggiore eminenza maschile rispetto alle donne”, in tutti i campi dal ragionamento, immaginazione, uso dei sensi e nelle abilità manuali. Citando Hereditary Genius di Francis Galton, Darwin condivideva infatti la visione per la quale, dato che gli uomini si sono sempre mostrati migliori delle donne in molti ambiti, lo standard medio delle capacità mentali dei maschi sia migliore rispetto al sesso femminile. Eppure ricerche recenti stanno dimostrando che le cose non sono esattamente così.

Charles Darwin

Nel 1879, nel giornale di antropologia più importante della Francia del tempo, Gustave Le Bon dichiarava come nelle razze più intelligenti – tra cui risultavano i parigini – ci fossero moltissime donne con cervelli le cui dimensioni sarebbero state più vicine a quelle dei gorilla rispetto che a quelle degli uomini “più sviluppati”. La donna, secondo lui, rappresentava “la forma più bassa dell’evoluzione umana”, la cui intelligenza sarebbe stata paragonabile più a quella di un bambino o di un selvaggio rispetto a quella di un uomo civilizzato. In ogni caso, secondo l’antropologo si potevano riconoscere anche alle femmine alcuni primati: quello dell’incostanza, della volubilità, dell’assenza di logica e di pensiero e l’incapacità di ragionare. Le pochissime donne che emergevano per intelletto sul maschio medio sarebbero state tanto eccezionali quanto la nascita di un gorilla a due teste.

L’antropometria, che si prefiggeva l’obiettivo di trarre conclusioni qualitative a partire dalle dimensioni di parti del corpo e di organi, ha avuto forte credito nei secoli scorsi. In realtà lo sviluppo cerebrale è influenzato sia dalla costituzione naturale e genetica, con caratteristiche soggettive per ogni individuo, a prescindere dal sesso, che dal nurture, ovvero l’influenza che hanno i fattori sociali, culturali e le esperienze a cui siamo sottoposti durante la crescita nel modificarne la struttura. La plasticità cerebrale, infatti, è massima durante l’infanzia e l’adolescenza ed è proprio in questa fase che il nurturing effect svolge un ruolo preponderante.

Il fatto di considerare solamente l’aspetto nature e non il nurturing effect porta a non considerare il peso importante che hanno questi fattori nello sviluppo cerebrale umano.

In questo contesto Gina Rippon, neuroscienziata della Aston University di Birmingham, con il suo libro The Gendered Brain, capovolge la visione antiquata dell’esistenza dicotomica di un tipico cervello maschile e di uno femminile, non solo sottolineando che ogni cervello è uguale solo ed esclusivamente a se stesso, ma anche delineando quanto il nurture abbia un ruolo basilare nel determinare quella che lei definisce la “pinkification” encefalica. Questo termine, profondamente iconico, pone enfasi sul ruolo degli stereotipi sociali di genere nel determinare differenze sostanziali nei cervelli di uomini e donne. Gli studi sono stati svolti con l’utilizzo di risonanze magnetiche sia strutturali, che si limitano a vedere la morfologia delle strutture nervose, che funzionali, ovvero in grado di farci capire quale sia il grado di attivazione di alcuni circuiti neuronali in base alla risposta emodinamica del soggetto. Oltre a queste due tecnologie, Rippon ha fatto anche uso dell’elettroencefalografia e della magnetoencefalografia, sempre utilizzate allo scopo di analizzare quanto certe aree cerebrali si attivino in risposta a determinati stimoli.

Emblematico di queste ricerche è l’esempio di quanto siano più carenti le performance di certi compiti qualora si abbia la contemporanea attivazione delle aree cerebrali deputate a svolgere quella determinata azione o ragionamento con l’associazione a una maggiore operabilità di aree correlate alla componente emotiva. Prendendo come riferimento lo stereotipo per cui i maschi sono più bravi delle femmine nel ragionamento spaziale, se facciamo eseguire a delle bambine compiti che prevedano questo tipo di ragionamento fomentando quanto il genere maschile sia migliore di loro nel farlo, le prestazioni saranno più carenti rispetto ad altre femmine che vengono esaminate senza sentirsi ripetere che difficilmente saranno al livello dei maschi. Il problema è che la costante attivazione di certe aree cerebrali associate a emozioni negative e di inadeguatezza, a lungo andare riesce a plasmare la struttura cerebrale al punto da far “azionare” regioni del cervello deputate all’esecuzione di certi compiti con la concomitante “accensione” di circuiti neuronali legati all’emotività e all’ansia da prestazione: ecco come lo stereotipo sociale può cambiare le nostre potenzialità.

Il nurturing effect può produrre una radicalizzazione di certi preconcetti di cui un esempio semplice può essere l’analisi dell’andamento scolastico in matematica dei bambini in confronto alle bambine. Come dimostra lo studio TIMMS del 2015, in Italia e in molti Stati europei i maschi sono mediamente più bravi delle femmine in questa disciplina: con questo semplice dato potrebbe confermarsi il luogo comune per cui il cervello femminile sia meno predisposto a un ragionamento di tipo logico-matematico. Invece, molti Stati del Medio Oriente, in primis l’Arabia Saudita ma anche la Giordania, l’Oman o il Kuwait smentiscono tutto ciò, in quanto in questi Paesi i voti in matematica delle bambine sono più alti. Il motivo di questo dato che potrebbe apparire paradossale non è confortante: le bambine hanno molte meno libertà dei compagni maschi e passano molto più tempo in casa a studiare. Inoltre, il non avere voti alti alla fine della scuola non consentirebbe loro di essere ammesse all’università, obbligandole a sposarsi subito dopo la fine del liceo. Per questo sono più motivate ad avere buoni risultati scolastici. Anche se i fattori che determinano una maggiore applicazione nello studio e voti migliori hanno alla base di un sistema patriarcale rigido, allo stesso tempo dimostrano che le capacità di eccellere in certe materie sono potenzialmente le stesse sia per i maschi che per le femmine. Nella maggior parte dei Paesi del mondo, le bambine non sono naturalmente e biologicamente meno brave in matematica dei bambini, ma sono “nutrite” da parte della società di stereotipi per cui non dovrebbero essere capaci di eguagliare i compagni.

Le informazioni sui ruoli di genere vengono acquisite dai bambini tramite moltissimi modelli intrafamiliari ed extrafamiliari ed è difficile – se non impossibile – esserne immuni. Ovviamente, a seconda delle informazioni che vengono trasmesse una bambina, crescendo, si sentirà parte di una struttura sociale che la vedrà protagonista di determinati ruoli culturali, tipi di lavoro e modelli di vita in quanto donna rispetto ad altri. Rippon fa riferimento a uno studio fatto in una classe di Birmingham a bambini di 5 anni in cui gli studenti venivano posti di fronte alla scelta tra un gioco descritto come “più difficile e impegnativo” e un altro che veniva presentato come più semplice da utilizzare. Se a 5 anni la percentuale di maschi e femmine che optavano per il gioco più complicato era quasi la stessa, ripetendo lo studio sul medesimo campione dopo 2 anni, quando i bambini avevano raggiunto 7 anni di età, la percentuale di bambine che sceglievano il gioco considerato più complesso calava molto, delineando una sensazione di non sentirsi all’altezza molto più comune per il genere femminile. Rippon afferma che la mancanza di sentirsi ugualmente capaci rispetto ai coetanei maschi è dovuta proprio all’effetto nurturing, per il quale le bambine capiscono dai modelli che hanno attorno che socialmente non possono essere intelligenti e abili tanto quanto i maschi.

Oltre all’innegabile limitazione nel libero sviluppo sociale, culturale e lavorativo che tutto ciò comporta, un altro problema che scaturisce è dato dall’effetto che il non sentirsi all’altezza produce nello sviluppo cerebrale e sinaptico. Queste emozioni, provate ripetutamente e in vari ambiti della vita quotidiana di una bambina, sembrano far cambiare moltissimo l’aspetto del suo cervello rispetto al modo in cui quello di un coetaneo maschio va a svilupparsi. Solo a questo punto la dicotomia è veramente evidente: è l’ambiente sociale e il modo in cui siamo stati cresciuti e cresciamo i nostri figli rifacendoci a vecchi stereotipi che la produce.

Questo fenomeno porta con sé anche un altro aspetto, legato alla salute mentale. Le donne sono epidemiologicamente più propense a essere affette da episodi e disturbi depressivi e da altre patologie che rientrano allo spettro ansioso: gli studi di Rippon aprono le porte a una possibile correlazione tra la prevalenza di disturbi mentali nella popolazione femminile e queste continue pressioni sociali che le bambine e poi le donne sono costrette a subire rispetto agli uomini. Inoltre, è stato dimostrato quanto le donne provino maggiore ansia nell’eseguire compiti di responsabilità, soprattutto in ambito lavorativo: oltre a dover essere parimenti abili nel lavoro, crescere pensando di dover lottare anche per essere prese sul serio solo perché femmine aumenta esponenzialmente i livelli di ansia. Quest’ultima scaturisce soprattutto dalla paura di convalidare lo stereotipo sociale che sancisce la presunta superiorità dell’uomo. Quindi, è inutile che si vada a dire in giro che siamo così volubili, ansiose e che ci costruiamo problemi come fossero castelli di sabbia “per natura”: è la società e il modo in cui è strutturata che ha fatto sì che sia più facile che una donna sia molto più soggetta a preoccuparsi delle proprie performance rispetto ad un uomo.

L’equità uomo-donna è fatta di moltissimi aspetti e, considerandola globalmente, possiamo definire Stati dove il divario tra i generi è maggiore o minore. Interessante è riconoscere quanto una condizione di svantaggio globale per il genere femminile, in determinati casi, possa giocare un ruolo di motivazione e di spinta nell’intraprendere certe carriere, soprattutto in ambito scientifico o tecnologico, come ad esempio in ingegneria e in matematica (quelle che rientrano sotto l’acronimo STEM: Science, Technology, Engineering and Mathematics). Come dimostra lo studio “The gender equality paradox in STEM education”, nei Paesi dove l’equità tra generi è minore, le donne che lavorano in questi campi sono numericamente di più. E tutto questo sembrerebbe dovuto a una pressione sociale che motiva le femmine a dimostrare di poter essere all’altezza in questi ambiti di storico dominio maschile. È facile dedurre quanto la stabilità mentale di queste donne potrà essere condizionata dalla paura di commettere errori e di venire oltre che escluse derise per aver tentato di sovvertire lo stereotipo e di seguire le proprie ambizioni, inclinazioni e passioni.

In questo contesto, è stato dimostrato quanto il nurturing effect e i preconcetti di genere influenzino l’andamento delle carriere femminili negli ambiti STEM: i fattori psicologici che entrano in gioco nel sentirsi continuamente inferiori e rifiutate riducono di molto anche la produttività e l’eccellenza, oltre a peggiorare l’umore e l’ansia. Dato che queste ultime dipendono in modo diretto dalle reazioni all’ambiente lavorativo respingente è facile finire in un circolo vizioso.

Esempio del dilagante binarismo di ruoli sono le affermazioni fatte dal fisico Alessandro Strumia al CERN, che ha fatto notare come gli uomini dominino in fisica. Dopo essere stato licenziato per queste dichiarazioni, Strumia si è appellato al fatto che le statistiche confermino le sue tesi, completamente ignorando l’esistenza di un’influenza socio-culturale che porta un minor numero di donne a scegliere una carriera scientifica.

Oppure potremmo citare l’esempio di Lawrence Summers, rettore di Harvard dal 2001 al 2006, che spiegava il gap nel mondo scientifico uomo-donna sulla base di differenze biologiche di genere, che portano anche le donne a lavorare meno ore rispetto agli uomini per questioni domestiche, e sotto il cui rettorato il numero di professoresse di ruolo ad Harvard è sceso dal 36% al 13%. La reazione a queste dichiarazioni misogine ha influenzato la sua scelta di dimettersi dalla carica e non gli ha permesso di diventare Segretario al Tesoro nella prima presidenza Obama.

Lawrence Summer

Ma l’argomentazione che usa la diversità biologica per sottomettere la donna non è prerogativa maschile. Nel 2017 Danielle Brown, un’alta carica dell’HR team di Google fino a pochi mesi fa, ha sostenuto che le donne abbiano una maggiore inclinazione a svolgere lavori in ambito sociale e artistico e che il primato nella scienza dovrebbe essere attribuito agli uomini.

The Gendered Brain di Gina Rippon capovolge tutte le visioni arcaiche sul fatto che alla nascita i cervelli maschili e femminili siano diversi ed enfatizza un cambiamento condizionato dal nurturing effect. Per quanto l’influenza genitoriale sia importante, tutte le energie che un genitore senza preconcetti può spendere nel cercare di evitare che i figli vengano condizionati da certi stereotipi, però, non saranno mai sufficienti in confronto al potere della società. Per questo è necessaria una svolta radicale che faccia superare il binarismo di genere e ci rieduchi a riconoscere questi atteggiamenti tossici che la maggior parte di noi, volenti o nolenti, per forza di cose ha introiettato.

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