Vi è mai capitato di andare da un medico e di vedere tante penne con nomi di medicinali sulla sua scrivania? Magari anche cose più elaborate, tipo post-it ovali con la sagoma di una pastiglia o chiavette USB a forma di siringa, rigorosamente branded? Bene, dietro a ognuno di questi oggetti all’apparenza insignificanti si nasconde un mondo che pochi immaginano.
Il tema del conflitto di interessi in medicina e del rapporto medici/industria è un po’ come il parente strambo al cenone di Capodanno: si sa che esiste, ma tutti preferiscono non parlarne e sono sollevati se non si presenta.
Dennis Thompson, professore di Filosofia politica all’Harvard Center per l’Etica e le Professioni, ha elaborato una definizione che ha avuto discreta fortuna, secondo la quale il conflitto di interessi può essere definito come un “insieme di condizioni per cui un giudizio professionale concernente un interesse primario tende a essere indebitamente influenzato da un interesse secondario”.
Beninteso, per Thompson gli interessi secondari non sono illegittimi in quanto tali. Ciò che può risultare problematico è la loro interdipendenza con quelli primari, e il loro impatto nelle decisioni professionali. Ambire a guadagni maggiori, volere un percorso professionale prestigioso o preferire la propria famiglia e gli amici sono desideri comuni, che tutti sperimentano. Qualcuno forse sogna anche una vita alla Gianluca Vacchi, ma è meglio che torni con i piedi per terra. Il corto circuito si verifica quando questi interessi rischiano di minare l’indipendenza del proprio giudizio.
Quando si parla di conflitto di interessi si cade poi spesso nell’equivoco di considerarlo sinonimo di corruzione, ma si tratta di due concetti ben distinti. Nel primo caso, tornando a Thompson, ci si riferisce a condizioni di rischio che non sempre possono essere percepite, o da cui non è possibile sottrarsi; nel secondo, invece, si parla di comportamenti e atti illleciti compiuti in piena coscienza.
Una differenza fondamentale, che serve per evitare stigmi e generalizzazioni del calibro “tutti i [inserire una professione a caso] sono corrotti, venduti al soldo di Big [inserire una lobby a caso]” buttando tutto nel calderone da bar della “malasanità”.
Il punto non è crocefiggere il medico in sala mensa solo perché nel taschino del camice tiene delle penne con il logo dell’ultimo innovativo farmaco contro la disfunzione erettile (cosa, peraltro, già imbarazzante di per sé), ma capire che anche senza volerlo si può diventare strumenti per altri fini, in questo caso di mercato.
Molti alzeranno gli occhi al cielo pensando già a una manfrina moralista da puri di spirito: «Una penna non sarà certo in grado di influenzare le mie decisioni». Sbagliato. Se c’è una cosa che Don Draper ci ha insegnato è che la pubblicità funziona, per non parlare dei piccoli regali che instaurano un senso di riconoscenza per il quale ci si sente in dovere di ricambiare il favore.
A riprova di ciò si potrebbero citare centinaia di studi rigorosi in letteratura scientifica che dimostrano come il mondo della medicina sia, su tanti fronti, condizionato più di quanto i medici pensino.
Nel 2001 il ricercatore americano Michael Steinman, con un brillante questionario, ha messo in luce come i medici tendano a considerarsi immuni da ogni influenza quando parlano di se stessi, e reputino invece facilmente condizionabili quasi tutti i colleghi di reparto. Esiste, insomma, un palese scollamento percettivo tra l’idea della propria capacità critica e quella attribuita agli altri.
Sia il gadget regalato in reparto che il congresso alle Maldive tutto pagato, open bar incluso, rientrano in un preciso approccio finalizzato a massimizzare i profitti su specifici prodotti.
Poco importa che si tratti di farmaci salvavita: una casa farmaceutica è un’azienda e, in quanto tale, ha come legittimo interesse primario fare soldi e la pubblicità è da sempre lo strumento migliore.
«Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque», diceva nel 1976 Henry Gadsen, l’allora direttore generale della Merck, fugando ogni dubbio sulle finalità aziendali. Frase tanto schietta quanto profetica, dato che negli anni si è assistito al boom di vere e proprie storture tra cui il cosiddetto disease mongering, cioè la costruzione a tavolino di malattie a fini commerciali. Sapete chi ha inventato il termine alitosi? Non l’autore di un materiale diagnostico, bensì la Listerine®, quella dei collutori.
Tralasciando queste pratiche speculative, i dati di mercato mostrano come le spese delle grosse industrie farmaceutiche in marketing siano più del doppio rispetto alla quota di risorse destinate alla ricerca e sviluppo. Il tema negli Usa è così sentito che persino John Oliver ci ha dedicato una puntata del suo Last Week Tonight.
L’obiezione più comune di fronte a simili premesse è di solito una: va bene, ma se anche facessi pubblicità a un prodotto che funziona, che può far star meglio un paziente, in fondo che male ci sarebbe? All’atto pratico magari nessuno, ma il rischio potenziale che il mio giudizio sia falsato o compromesso aumenta esponenzialmente. Se chiedete quale sia la bevanda più buona a un tizio con un cappellino della Coca-Cola® ci sono buone possibilità che la risposta non sia «la Pepsi®».
Il concetto di “farmaco che funziona” non sempre coincide con ciò che afferma davvero la letteratura scientifica. Rimanere al passo sul fronte delle molecole innovative a fronte della quantità immensa di studi pubblicati, a volte anche in contraddizione, può essere impegnativo.
Per questo, nonostante si siano sviluppati negli anni strumenti sempre più affidabili per sintetizzare le evidenze scientifiche, molti medici ancora oggi in parte si affidano agli “informatori scientifici del farmaco”.
Con una creatività degna dei vari Professional Sales Directors e Brand Marketing Managers di LinkedIn, l’unico paese in cui queste figure si chiamano così è l’Italia. Nel resto del mondo si preferisce chiamarli per quello che sono davvero, cioè addetti alle vendite. E non piazzisti da due soldi ma turbo-professionisti addestrati a convincere con collaudate tecniche di persuasione, che classificano i medici in base a precise categorie – lo scettico, l’amichevole, il distaccato, l’arrendevole – per utilizzare la strategia promozionale adeguata, e che sanno infiocchettare i dati nel modo più vantaggioso. «Quando sei a cena con un medico, lui sta mangiando con un amico, tu con un cliente», ha dichiarato in un articolo Shahram Ahari, ex rappresentante farmaceutico.
Lo stesso discorso fatto per i singoli medici però vale anche in questo caso, perché il succo non è avviare una caccia alle streghe contro le aziende farmaceutiche, senza le quali torneremmo a curarci con le radici, e men che meno contro i rappresentanti, che fanno il loro mestiere.
Guardate il film Il venditore di medicine, diretto nel 2013 da Antonio Morabito per avere un’idea della complessità di un mondo in cui le linee di confine sono molto sfumate. Non esiste una realtà manichea di buoni con le maschere di Guy Fawkes stile V per Vendetta da una parte e avidi Gordon Gekko che trafficano in pasticche dall’altra – o, meglio, in qualche caso sì, se consideriamo la vicenda di Martin Shkreli, ma questa è un’altra storia. Lo diceva anche il grande saggio Obi-Wan Kenobi, soltanto un Sith vive di assoluti.
Esistono però interessi divergenti tra medici (il benessere del paziente) e aziende private (i profitti) che non possono essere ignorati, ed esistono consequenziali comportamenti e rapporti di influenza che rischiano di compromettere la cosa più importante per un professionista della salute, cioè la fiducia nella sua indipendenza di giudizio da parte di colleghi, pazienti e cittadini.
Moltissimi operatori sanitari e dipendenti pubblici svolgono il proprio lavoro con integrità, ma basta il tarlo del sospetto per allontanare la popolazione e ingrossare le fila di chi se ne approfitta.
Al di là degli episodi condannabili che sfociano nella corruzione manifesta, la partita per il futuro della medicina si gioca tutta qui, nel campo della trasparenza e della credibilità.
Che fare? Come insegna Freud, che ormai si può citare a caso su Internet, il primo passo per risolvere un problema è ammettere la sua esistenza. Occorre riconoscere che i conflitti d’interessi possono riguardare tutti, hanno diversa natura e costituiscono un problema serio in medicina.
Il tema si estende ben al di là del singolo rapporto informatore/medico. Conflitti di interessi si trovano nell’ambito delle pubblicazioni scientifiche, della ricerca sponsorizzata, dei congressi, dei corsi di aggiornamento e hanno manifestazioni molto diverse. L’enfasi su quelli a carattere finanziario è dovuta al fatto che sono i più “tracciabili”, ma non significa che siano gli unici o i più importanti.
Ben Goldacre, medico e divulgatore inglese che parla con la stessa velocità dei protagonisti dei telefilm di Aaron Sorkin, ha scritto un libro esaustivo intitolato Effetti Collaterali (in originale Bad Pharma) che esamina minuziosamente ogni ambito del macrocosmo conflittuale tra medicina e industria. Se volete passare qualche giorno storditi da una vertiginosa mole di dati e riferimenti, regalatevelo per Natale e non guarderete più un’Aspirina® con gli stessi occhi.
Da qui si deve passare alla concreta distinzione tra le attività e le relazioni inaccettabili, quindi proibite, e quelle invece che possono essere permesse e gestite. Gli esempi di soluzioni per regolare il sistema cercando di creare rapporti equilibrati tra medici e industria sono numerosi.
Nel 2010, negli USA, è stato approvato il Physician Payments Sunshine Act, legge che ha reso visibile su una piattaforma web ad accesso libero tutte informazioni relative ai pagamenti che le industrie farmaceutiche e di dispositivi medici erogano ai singoli medici e agli ospedali universitari, dai pranzi di lavoro ai fondi alla ricerca, dai gettoni di presenza ai meeting alle compartecipazioni aziendali in azioni. Così, se voglio capire perché il mio medico continua a prescrivermi lo stesso sciroppo per la tosse anche se ho l’alluce valgo, posso cercarlo sul sito e vedere se negli ultimi anni si è fatto qualche congresso con cena in un 3 stelle Michelin offerto dalla casa produttrice.
E da noi in Italia? Dal 30 giugno 2016 è stato messo in atto il Disclosure code, un codice di trasparenza sottoscritto dalle imprese e dalle associazioni nazionali del farmaco dei Paesi europei aderenti all’European Federation of Pharmaceutical Industries and Association. Manco a dirlo, per via di diverse clausole permissive, ha in realtà suscitato più dubbi che certezze.
Il vero cambiamento deve quindi essere culturale: normare è doveroso, ma insufficiente. Se non si radicherà nella testa dei futuri medici che accettare ogni nuovo farmaco per collezionare regali e pacchetti all inclusive in giro per il mondo dalle aziende non è sinonimo di bravura, competenza e prestigio, si continueranno a fare leggi per poi aggirarle.
I corsi di laurea in medicina sono ancora impreparati a smontare questo contorto sistema di status symbol e purtroppo alimentano un retaggio culturale secondo il quale, per il solo fatto di perdere diottrie, capelli e vita sociale sui libri durante i sei anni di università, in automatico si acquisirà capacità critica, integrità di giudizio e immunità da ogni influenza.
Gruppi di professionisti, associazioni studentesche e network scientifici internazionali da anni si battono affinché questi temi diventino parte della cultura e dei percorsi formativi dei medici di domani.
L’arma migliore che i medici hanno in mano per scollarsi dell’impropria etichetta di casta corrotta è l’umiltà di riconoscersi dei limiti e dichiarare i propri conflitti di interesse facendo il possibile per evitarli o minimizzarli. Una cura di trasparenza per riaffermare la propria indipendenza.
L’alternativa sono magari delle simpaticissime tazze a forma di supposta, ma il gioco non vale per niente la candela.