Fin da quando siamo bambini, la nostra educazione cambia in base a una discriminante fondamentale: il sesso con cui nasciamo. Se hai il pene allora i tuoi genitori appenderanno sulla porta un fiocco blu, presto capirai che le virtù più importanti sono il coraggio e l’intraprendenza e giocherai a fare l’astronauta o lo scienziato. Se invece hai la vagina, allora il fiocco sarà rosa e la prima volta che mamma e papà ti porteranno al Toys Center (o in qualunque negozio ne sia il corrispettivo per chi è nato dopo il 1995) vedrai che il tuo divertimento consiste nel giocare a fare la mamma, preparare biscotti e stirare; capirai anche quanto è importante essere graziose, pacate e sedersi composte; ma soprattutto, raggiunta l’età della pubertà, capirai di essere stata condannata a essere la protagonista di un processo naturale considerato da molti come disdicevole e repellente, di cui non potrai parlare se non con altre donne – e comunque senza lamentarti troppo: le mestruazioni.
Può sembrare una descrizione parossistica della realtà, specialmente ora che ci raccontiamo ogni giorno quanto le cose siano cambiate rispetto al passato – e fino a un certo punto, in alcuni contesti, è certamente così. Ma la verità è che siamo molto lontani dal lasciarci alle spalle queste categorizzazioni limitanti, e la realtà ce lo dimostra in ogni piccolo aspetto della nostra vita, dalla sfera privata, al lavoro, fino ad arrivare, appunto, al sistema sanitario.
Avere un utero che sanguina ogni 28 giorni non è sinonimo di malattia. Ma allo stesso tempo non è normale contorcersi dal dolore ogni volta che succede, o essere costrette a saltare il lavoro, le feste con gli amici o gli esami universitari per rimanere sdraiate a casa in posizione fetale, in attesa che passi quell’ultimo crampo; non è normale nemmeno doversi sottoporre a decine di controlli e girare decine di ambulatori prima di essere prese sul serio e trovare un medico che ci faccia un esame che attesti il motivo per cui stiamo così. E, spesso, questo motivo è l’endometriosi.
È probabile che negli ultimi anni abbiate sentito parlare di questa malattia, che rimane però ancora troppo poco conosciuta. Nelle parole di Laura Buggio, dottoressa e ricercatrice del Policlinico di Milano, si tratta di una “Patologia benigna tipica dell’età fertile, caratterizzata dalla presenza del tessuto endometriale – il tessuto che riveste le pareti interne della cavità uterina – al di fuori dell’utero, in varie sedi e in altri organi”. Questo causa vari sintomi, in base al luogo in cui l’endometriosi è localizzata, tra cui il dolore durante la mestruazione, il rapporto sessuale o la minzione. Tra le conseguenze, oltre alla fitte lancinanti, alla stanchezza cronica e ai disturbi del sonno, c’è anche una stretta correlazione con l’infertilità: il 60, 70% delle donne infertili ha infatti ricevuto una diagnosi per endometriosi, anche se la metà di loro riesce poi a procreare tramite le tecniche di fecondazione assistita.
Questa patologia colpisce oltre il 5% delle donne, e globalmente sono circa 176 milioni le persone interessate; in Italia 3 milioni. Eppure, nonostante la prevalenza piuttosto alta (la ben più nota celiachia, ad esempio, colpisce circa l’1% della popolazione), un recente studio ha attestato che in Europa sono ancora necessari 7,4 anni in media per ricevere una diagnosi corretta per questa malattia: una media che, come ci conferma la dottoressa Buggio, si è abbassata nell’ultimo decennio, ma che resta troppo alta. Il ritardo è dovuto a svariati fattori, tra cui l’estrema variabilità della patologia, che può manifestarsi in modo molto diverso, ma anche alla scarsa conoscenza che se ne ha e alla tendenza di pazienti e medici a sottovalutare il dolore femminile, specialmente quando si parla di ciclo mestruale.
“Quando avevo sedici anni, tornando a casa da scuola mi sono accorta di essermi macchiata i pantaloni di sangue. Nel giro di un’ora sanguinavo così tanto che, nonostante indossassi due assorbenti interni e uno esterno, nel giro di 5, 10 minuti il sangue era già arrivato ai vestiti. Tutti i dottori mi hanno sempre detto che era tutto nella mia testa.”; “Mi ci sono voluti sette anni per ottenere una diagnosi. Sette anni in cui mi sono sentita dire da tutti i medici che non c’era nulla che potessero fare, che era normale che le mestruazioni fossero dolorose”. Queste testimonianze sono due delle tante voci anonime raccolte sul canale Instagram dall’artista australiana Ellie Kammer, che si occupa di sensibilizzare il pubblico all’endometriosi attraverso le sue opere d’arte. Le esperienze di queste ragazze, purtroppo, non sono isolate.
Uno studio qualitativo del team del professor Vercellini, tra i maggiori esperti al mondo su questo tema, e coordinato dalla dottoressa Federica Facchin, psicoterapeuta e ricercatrice dell’Università Cattolica di Milano, ha evidenziato diversi comuni denominatori nelle storie delle donne affette da endometriosi: la reticenza a chiedere aiuto, la difficoltà nel trovare un medico consapevole, la sensazione di essere sottovalutate, ignorate e il timore di essere considerate “esagerate” o, ancora peggio, “isteriche”: un termine ancora diffuso impropriamente come sinonimo di “teatralità”, se non addirittura di “finzione”. E queste sensazioni sono confermate dai dati: in uno studio pubblicato sul Journal of law, medicine and ethics si legge che negli Stati Uniti un uomo che lamenti un forte dolore addominale attende in media 49 minuti al pronto soccorso prima di ricevere antidolorifici; una donna, per gli stessi sintomi, ne deve aspettare 65 e ha molta più probabilità di vedersi somministrare sedativi. Un altro studio, dell’Università del Maryland, attesta che in generale le donne ricevono cure sanitarie di qualità inferiore rispetto agli uomini.
“Dal punto di vista sociale,” ci spiega Facchin, “circola quest’idea che l’essere donna significhi doversi rassegnare a una quota di dolore. Questa rappresentazione normalizzante del dolore femminile è sostenuta dai medici, dalle persone vicine alle pazienti, e anche dalle pazienti stesse, che si sentono inadeguate e pensano di essere loro il problema”. E soprattutto, sottolinea Facchin, è molto pericolosa e le conseguenze si notano anche nei fatti di cronaca che spesso vedono le donne tristemente protagoniste.
L’associazione della donna con il “sesso debole”, condannato a un’esistenza di sofferenza e sacrificio, ma anche con l’imprevedibilità e con l’isteria, è antica e trasversale. Areteo di Cappadocia, il medico dell’Antica Grecia a cui si devono la prima descrizione della celiachia e l’invenzione del termine “diabete”, definiva l’utero “la cosa vivente”; Sorano d’Efeso, uno dei primi ginecologi, lo definì therion, “la bestia selvaggia”; anche più recentemente, nel 1856 il fisico inglese Edward Jordan parlava della teoria dell’utero errante, sposata poi anche da Freud, che vedeva quest’organo come “un animale dentro l’animale” il quale, spostandosi in varie parti del corpo, causava le più disparate patologie.
Oggi queste descrizioni ci possono apparire ridicole, ma la verità è che quest’idea ancestrale del corpo femminile ha ancora delle conseguenze sulla qualità della vita delle donne nel mondo, e non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma anche in Occidente. È ad esempio appurato che le donne affette da endometriosi soffrono maggiormente di depressione o ansia.“Le donne che hanno appena ricevuto la diagnosi hanno livelli di ansia particolarmente elevanti. Mano a mano che il tempo passa subentrano aspetti di tipo depressivo che riguardano le domande che la donna si pone rispetto alla propria identità. Ricevere la diagnosi significa sentirsi dire: tu hai una malattia cronica, una malattia per cui non esiste una cura definitiva e per cui l’unica cosa che si può fare è imparare a conviverci”.
E non sempre è facile. Molte donne si identificano con la patologia, che colonizza il loro essere facendole sentire “donne a metà”, come ha confessato una paziente di soli 28 anni rispondendo al sopra citato questionario. Questo avviene non solo per la qualità della vita, che si abbassa notevolmente specialmente quando l’endometriosi è sintomatica, ma anche perché questa patologia è legata a doppio filo con la dispareunia (il dolore durante il rapporto sessuale) e la sub-fertilità, ovvero due questioni che si situano al cuore dell’identità femminile. “L’endometriosi ti fa perdere il tuo valore in quanto donna,” racconta una paziente di 45 anni. “Puoi anche trovare qualcuno che ti ami e ti capisca, ma se a un certo punto lui vuole dei figli, improvvisamente diventi un rifiuto e vieni scartata come un oggetto.”; “Come donna mi sento ‘difettosa’ e incompleta. Capirei se volesse divertirsi con qualcun’altra. Non voglio più parlare di sesso, di nessun tipo, la questione per me è chiusa.” E poi c’è il senso di colpa, che subentra anche quando la relazione va bene: “Mi sono chiesta a lungo se lui non potesse stare meglio con qualcun’altra, qualcuna che non abbia problemi. Mi sento in colpa”.
Oltre alla salute mentale e fisica della donna, che viene duramente messa alla prova, c’è poi la questione economica. Proprio per via della difficoltà a vedersi diagnosticata la patologia, molte donne sono costrette a sottoporsi a quello che in letteratura viene definito “Doctor shopping”, ovvero il rimbalzo da uno specialista a un altro, magari in diverse parti d’Italia. Questo per la paziente ha dei costi diretti elevati, legati alle visite e agli spostamenti, ma anche dei costi indiretti: permessi, mancate opportunità lavorative e anche, in alcuni casi, perdita definitiva dell’occupazione. Le donne con endometriosi dolorosa hanno infatti più elevati tassi di disoccupazione sia rispetto alle pazienti che presentano endometriosi asintomatica, sia rispetto alle donne sane. E la patologia non ha solo un costo per la donna, ma anche per la società nella sua interezza: uno studio americano ha calcolato che in 10 Paesi analizzati, tra cui l’Italia, il costo sociale di una paziente con endometriosi è in media di 16mila dollari annui, ai quali si devono aggiungere ulteriori 13mila dollari di produttività mancata.
In Italia questa patologia è recentemente rientrata nell’elenco delle patologie LEA, ovvero quelle per le quali è prevista l’assistenza del Servizio sanitario nazionale. Questo però riguarda solo gli stadi terzo e quarto della classificazione ASRM e quindi, come ci spiega la dottoressa Buggio, per avere diritto all’esenzione, le pazienti devono aver avuto una diagnosi chirurgica di endometriosi, e non sempre accade in quanto la malattia può essere individuata anche attraverso esami clinici e strumentali. Inoltre, la classificazione ASRM non è correlata ai sintomi, e una donna al primo stadio può provare un livello di dolore più elevato rispetto a una paziente al quarto, eppure non avere diritto a un aiuto da parte dello Stato. Per di più, anche per quelle poche che la ricevono, l’esenzione non riguarda i farmaci, ma solo le visite specialistiche.
Ma i medici italiani sono anche tra coloro che stanno facendo di più sul piano della ricerca. Il podio mondiale dei maggiori esperti in tema di endometriosi è occupato da tre professionisti milanesi, Vercellini, Somigliana e Viganò, ed esistono diverse associazioni, come Etic, ApeOnlus o la Fondazione italiana endometriosi che si impegnano per sensibilizzare specialisti e pazienti sulla questione. E questo nonostante lo Stato faccia molto meno che in altri Paesi per finanziare la ricerca scientifica (in generale) e si rifiuti ancora oggi di considerare istituti di tutela come il congedo mestruale (una proposta a riguardo giace alla Camera da oltre un anno ormai), di riconoscere l’illecito di violenza ostetrica o anche solo di eliminare l’Iva al 22% sugli assorbenti. E allora è inutile che ci raccontiamo che le violenze di genere sono superate, se ancora oggi non riusciamo ad accettare che essere donna può e deve essere un’esperienza piacevolissima, e non un calvario di sofferenze taciute.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 18/02/2018.