Quando si parla di cambiamento climatico, uno dei temi più difficili da affrontare è quello del rapporto tra la crescente domanda di energia a livello globale e le conseguenti emissioni di gas serra nell’atmosfera che questa comporta. Si tratta di una questione complessa, esacerbata dal fatto che il carbone è ancora oggi la fonte di energia più diffusa e che il fabbisogno energetico dei Paesi in via di sviluppo cresce mediamente del 5% ogni anno. Finora la discussione pubblica si è concentrata principalmente sulle soluzioni offerte dalle energie rinnovabili, ma negli ultimi tempi, a sorpresa, si è tornato a discutere anche di un ipotetico ruolo futuro dell’energia nucleare nell’abbattimento delle emissioni.
Non si tratta di un argomento facile. In Italia l’opinione pubblica ha già rigettato l’uso di questa tecnologia per ben due volte tramite referendum abrogativo – nonostante ancora oggi l’8% del nostro fabbisogno venga da centrali nucleari straniere – e anche a livello globale, gli investimenti per la costruzione di nuovi impianti sono in costante calo.
Nel 2011 la Germania ha avviato un programma di progressivo smantellamento dei suoi reattori da completare entro il 2022, il Belgio ha approvato un piano simile che dovrebbe partire a breve e negli Usa la tanto attesa bozza del Green New Deal democratico propone una vera e propria transizione energetica basata solo su eolico, solare e geotermico da realizzarsi entro il 2030 – con il nucleare grande escluso, come ha fatto notare James Temple, senior editor dell’MIT Technology Review.
Nonostante la sua cattiva reputazione però, altri paesi come la Francia, il Regno Unito, la Slovacchia e l’Ungheria hanno ancora in programma la costruzione di nuovi reattori. E anche nella comunità scientifica, l’opinione un tempo scettica su questa tecnologia è stata sostituita negli ultimi anni da un vero e proprio attivismo pro-nucleare. In parte, gli esperti sono preoccupati per il troppo affidamento fatto finora sulle energie rinnovabili, che malgrado la loro popolarità si sono rivelate insufficienti da sole a soddisfare il nostro crescente fabbisogno energetico. In alcuni casi, paradossalmente, hanno addirittura esacerbato il problema delle emissioni.
Attualmente, le rinnovabili – intese come eolico, solare, idroelettrico, biomasse e geotermico – forniscono circa il 17% delle necessità energetiche dell’Ue, mentre il nucleare, da solo, si aggira intorno al 30%. Questo perché, a differenza dell’energia atomica, queste tecnologie restano legate a fenomeni naturali non controllabili, come il sole, il vento e la disponibilità d’acqua – tutte caratteristiche stagionali. Solare ed eolico, ad esempio, hanno cali improvvisi e imprevedibili che ci costringono a usare soluzioni come il gas naturale per rispondere alla domanda energetica quotidiana, vanificando parte dello sforzo fatto per contenere le emissioni inquinanti.
I sostenitori di questo sistema sono convinti che il problema possa essere risolto tramite un apparato di supporto fatto di batterie, caricate preventivamente durante i picchi di energia per essere poi usate come sistema di alimentazione. Sfortunatamente le attuali batterie in litio, le più affidabili in questo senso, hanno ancora un costo elevato. Inoltre non mantengono la carica abbastanza a lungo e rischierebbero di portare i costi dell’energia per i consumatori a livelli letteralmente insostenibili. C’è poi il problema del consumo di suolo causato dai campi di pannelli solari, un tema che sta molto a cuore a chi si occupa di conservazione degli habitat. Idroelettrico e geotermico, infine, sono necessariamente legati a formazioni paesaggistiche e geologiche particolari, che non tutti i Paesi presentano.
Anche se riduzione dei consumi e contenimento degli sprechi restano gli obiettivi fondamentali per la lotta al cambiamento climatico, secondo gli esperti per gestire il problema del peaking – il picco giornaliero di domanda energetica – è necessario affiancare a solare ed eolico una soluzione affidabile che non contribuisca all’effetto serra. Secondo il Global Carbon Project, le emissioni di CO2 nel 2018 sono salite del 2,7%, il peggior aumento registrato negli ultimi sette anni. Nonostante l’uso di energie rinnovabili sia cresciuto a livello globale, il carbone è ancora utilizzato per il 38% – la stessa percentuale del 1998 – della domanda energetica del pianeta e resta il maggiore responsabile di questi numeri. Chiudere altre centrali nucleari farebbe solo aumentare queste stime.
Ad esempio, è stato calcolato che se gli Stati Uniti decidessero improvvisamente di chiudere tutti gli impianti nucleari sul suolo nazionale, le emissioni aumenterebbero nell’immediato del 6%, dato che le centrali sarebbero sostituite necessariamente da quelle alimentate a gas naturale. Quest’ultimo – principalmente metano – è meno dannoso del carbone, ma resta comunque un gas serra e non può essere l’unica risorsa su cui fare affidamento. L’energia atomica, invece, è un’opzione già disponibile, a basso contenuto di carbonio e virtualmente illimitata. Inoltre, oggi costruire un reattore costa molto meno di una volta. L’energia elettrica viene ancora prodotta nello stesso modo – tramite il calore generato dalla fissione di isotopi di uranio-235 e plutonio-239 – ma i nuovi impianti in via di sperimentazione sono più piccoli e semplici da costruire rispetto a quelli grandi e costosi del passato.
Sono i cosiddetti reattori modulari, progettati per produrre una minore quantità di energia ma realizzabili in tempi più contenuti e con costi più bassi. Nel caso del reattore progettato dalla NuScale Power di Portland, ad esempio, la capacità è di 60 megawatt di energia, circa il 6% della potenza prodotta da un reattore convenzionale. Ogni volta che la domanda energetica cresce, un altro mini-reattore può essere aggiunto.
In Nord America sono attualmente in corso di sviluppo diversi progetti avanzati di fissione molto promettenti, ma il problema resta la domanda. Per esempio, sempre la NuScale ha attualmente un accordo con il consorzio Utah Associated Municipal Power Systems per la costruzione di una centrale da 12 mini-reattori che alimenti 46 diverse utenze, ma il progetto può partire solo se tutti i membri del gruppo acconsentono a finanziarlo entro la fine dell’anno. Finora, progetti simili sono naufragati per la mancanza di ordini, in parte dovuti al fatto che l’opinione pubblica considera questa tecnologia pericolosa per la salute.
Tuttavia, come spesso accade, percezione e dati statistici non sono necessariamente concordi. In uno studio sul rapporto tra fonti di energia elettrica e salute, pubblicato su Lancet nel 2007, il nucleare è risultato la tecnologia con minore impatto sia in termini di emissioni che di conseguenze sulla salute. Fonti di energia molto più diffuse come il carbone, il gas naturale e il petrolio, rilasciano continuamente nell’atmosfera inquinanti dannosi, come monossido di azoto, piombo, idrocarburi a catena lunga, polveri sottili e ozono.
Ovviamente, il problema dello stoccaggio delle scorie esaurite, altamente inquinanti e praticamente indistruttibili, resta il principale e ancora irrisolto aspetto negativo del passaggio al nucleare. Finora, la soluzione migliore sembra essere quella di confinarle in adeguati depositi sotterranei continuamente monitorati, ma resta complicato trovare un accordo tra le parti su dove costruirli, cosa che finora è stato il principale ostacolo di progetti come quello della Yucca Mountain, nel Nevada. Fortunatamente, data la densità di questi isotopi, la produzione delle scorie è molto limitata. Secondo il Dipartimento dell’Energia americano, tutto il materiale esausto accumulato in sessant’anni dagli Stati Uniti coprirebbe una superficie di circa 7mila metri quadrati per 9 metri di altezza.
Questo non significa che i rischi anche ipotetici di un incidente dovrebbero essere minimizzati, ma evidentemente conciliare le necessità energetiche globali con i rischi legati alle tecnologie che utilizziamo rimane un nodo fondamentale. Purtroppo, il tempo a disposizione per prendere queste decisioni continua a diminuire.
È per questa ragione che al momento si tratta di una soluzione al cambiamento climatico considerata percorribile da alcuni climatologi. L’Ipcc, l’organo delle Nazioni Unite che si occupa di monitorare il clima, nel suo ultimo rapporto a ottobre ha esplicitamente affermato che per evitare l’aumento della temperatura di 1,5° C nei prossimi anni, sarà necessario aumentare l’uso del nucleare e dei sistemi di cattura della CO2, ma avverte anche che il problema implicito legato alla sicurezza, al management delle scorie e alla proliferazione delle armi nucleari è ancora presente. Si tratta in pratica di decidere a cosa vogliamo dare priorità.
Ma l’energia nucleare potrebbe avere anche implicazioni pacifiste in futuro. Secondo un articolo degli ingegneri nucleari Flavio Parozzi e Franco Polidoro, il materiale fissile delle armi atomiche potrebbe essere riciclato nella produzione di energia elettrica, accelerando così il disarmo o almeno ridimensionando gli arsenali ancora attivi. Si calcola che al momento 5 mila testate siano già pronte per essere smantellate, ma date le caratteristiche del plutonio – l’isotopo utilizzato per le armi termonucleari – non c’è garanzia che non venga poi utilizzato nuovamente a scopo bellico. Almeno in quest’ottica, avere più centrali potrebbe voler dire una minore probabilità di usare il materiale fissile per costruire delle armi.
Forse dopo tutti questi anni di diffidenza è arrivato davvero il momento di fare pace con l’energia atomica.