Nel 1972 Michel Siffre, geologo e speleologo francese, trascorse 205 giorni all’interno della Midnight Cave, in Texas, a circa 134 metri di profondità. Voleva studiare come il corpo umano avrebbe reagito in condizioni di completo isolamento, senza patire la fame o la sete – nella grotta c’erano cibo e acqua a sufficienza e la temperatura era di circa 22 gradi – ma deprivato di qualsiasi contatto sociale. Non c’erano orologi né calendari, ma una luce veniva accesa o spenta ogni volta che Siffre si svegliava o andava a dormire. Nonostante i quotidiani esercizi fisici e di memoria, poco alla volta Siffre perse ogni forma di orientamento temporale, il suo umore crollò e cominciò a rifiutare l’utilizzo del telefono – sua unica forma di contatto con l’esterno. Rimase sveglio anche trentasei ore di fila, o ne dormì due. Provò a fare amicizia con un topo ed ebbe un grave crollo psicologico. Una volta tornato in superficie, recuperò gradualmente le capacità che aveva perso.
Nel corso dell’ultimo anno nessuno è stato recluso in una grotta, tuttavia è evidente l’affinità che lega la vicenda di Siffre alla quotidianità imposta dalla pandemia. Non si è trattato solo di noia o solitudine: a causa delle misure di isolamento, controllare la diffusione dell’epidemia ha significato, in molti casi, pregiudicare sensibilmente la salute psico-fisica della collettività.
A un equilibrio psichico messo a dura prova si sono aggiunte, con il passare dei mesi, ulteriori difficoltà legate allo svolgimento delle attività quotidiane. Sempre più persone lamentano infatti difficoltà a concentrarsi, lentezza nei movimenti e fatica nell’attribuire un senso a giornate che scorrono sempre uguali, frequentando gli stessi luoghi e relazionandosi sempre alle stesse persone. A volte anche rimanere attenti durante un programma televisivo sembra richiedere uno sforzo esagerato, o ascoltare le notizie dagli Smart speaker fino alla fine (e durano pochi minuti), mentre stimoli apparentemente insignificanti scatenano reazioni emotive incontrollabili.
Gli scienziati hanno associato questo “annebbiamento mentale” alla compromissione del nostro naturale funzionamento cognitivo. Memoria, attenzione, creatività e orientamento rappresentano infatti qualità innate nell’essere umano, ma per mantenersi attive necessitano di essere costantemente esercitate. In condizioni normali si tratta di un esercizio spontaneo, perché l’attenzione viene automaticamente catturata dai cambiamenti che si verificano nell’ambiente. Fin dalla nascita un bambino, nel momento in cui sopraggiunge un nuovo stimolo, girerà la testa verso di esso. In mancanza di elementi nuovi, diversi o interessanti, però, anche questo meccanismo rischia di venire sospeso.
L’orientamento temporale, poi, è fortemente legato al ricordo degli eventi passati e alla percezione della loro durata. Il lockdown ha compromesso sensibilmente questo meccanismo, generando uno sfasamento temporale per cui giornate apparentemente velocissime si alternano a periodi in cui il tempo sembra non passare mai. Affinchè un evento custodito in memoria possa essere recuperato, infatti, è necessario che questo presenti alcuni elementi che lo distinguono dagli altri. La ricerca ha definito questo processo “separazione dei modelli” (pattern separation), riconoscendo nell’ippocampo (regione del cervello con un ruolo importante nella formazione e nel recupero dei ricordi) il principale responsabile. Se questi mancano di tratti distintivi, quindi, sarà difficile associarli a un giorno piuttosto che a un altro e ciò contribuirà a pregiudicare anche la nostra percezione del tempo.
Fra aprile e maggio 2020 l’Università di Padova, in collaborazione con l’IRCCS Santa Lucia di Roma, con uno studio intitolato “Cognitive and mental health changes and their vulnerability factors related to COVID-19 lockdown in Italy” ha indagato gli effetti del lockdown sulle capacità cognitive di 1.215 persone di età compresa fra i 18 e gli 88 anni. Dai risultati è emerso che attenzione, concentrazione e capacità di pianificazione sono state, insieme all’orientamento temporale, le funzioni più danneggiate dall’isolamento forzato; la memoria, al contrario, ne è uscita rafforzata. Sebbene possa apparire paradossale, i ricercatori hanno associato questo risultato proprio alla monotonia dell’isolamento. “La quotidianità, durante le restrizioni, era caratterizzata da un ritmo meno frenetico, riducendo al minimo anche i potenziali fallimenti della memoria”: impegni che prima sarebbero rientrati nella routine, come una telefonata o una visita medica, sono quindi stati investiti di un’intensità tutta nuova. Se in condizioni normali sarebbe stato difficile distinguerli dalle restanti attività della giornata, durante il lockdown rappresentavano un’eccezione rispetto alla norma ed erano dunque difficili da dimenticare.
Secondo Carmine Pariante, professore di psichiatria biologica al King’s College di Londra, l’annebbiamento mentale che ci impedisce di ragionare come vorremmo potrebbe rappresentare una conseguenza dello stress. Incertezza, paura del contagio e immagini di terapie intensive al collasso sono tutti stimoli fortemente debilitanti e così i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, sono aumentati anche in chi non lavora a diretto contatto con il virus. A livello fisiologico, un innalzamento dei livelli di questo ormone attiva una serie di risposte a cascata che vanno dall’aumento del battito cardiaco e della pressione del sangue, alla limitazione di tutte le funzioni non indispensabili, come la digestione, la riproduzione o la crescita. Quando lo stress non è legato a un evento passeggero, ma diventa parte integrante della giornata, come nel caso di una pandemia di questa portata, dover convivere con uno stato di allerta costante può indurre spossatezza, mal di testa, disturbi del sonno o problemi digestivi. Da un punto di vista cognitivo, attenzione e concentrazione sono le prime funzioni danneggiate, mentre a livello psichico non è raro sopraggiungano problematiche emotive o dell’umore.
Il legame fra ansia, depressione e problemi cognitivi è stato confermato anche dallo studio padovano. Nello specifico, circa il 35% della popolazione ha riportato livelli di ansia medio-gravi, mentre il 32% ha manifestato sintomi depressivi significativi; in questi casi, le funzioni cognitive sono risultate maggiormente compromesse. Disturbi dell’attenzione e della concentrazione hanno riguardato soprattutto le donne e questo gender gap è stato associato a un maggior carico mentale, a sua volta legato alle difficoltà incontrate nella gestione della carriera e del lavoro domestico in tempi di restrizioni. L’assetto sociale imposto dalla pandemia, con i figli a casa da scuola e gli anziani più bisognosi di assistenza, ha così nuovamente evidenziato gli squilibri strutturali che caratterizzano la gestione intra-familiare del lavoro di cura. L’economia domestica rappresenta ancora una prerogativa prettamente femminile, tanto che le donne con figli presentavano livelli di stress del 40% superiori alla media già nel periodo pre-pandemico. Non sorprende quindi che il loro funzionamento cognitivo abbia maggiormente risentito dell’isolamento.
Anche le abilità cognitive dei giovani adulti sono state particolarmente compromesse dalla pandemia. L’incertezza economica e lavorativa ha penalizzato una parte significativa della popolazione, ma essere giovani ha significato confrontarsi con problematiche aggiuntive legate a disoccupazione, prospettive lavorative ancora più incerte e difficoltà nella gestione della propria carriera accademica. Anche l’improvvisa interruzione di una vita sociale più intensa rispetto alle generazioni più anziane ha aumentato, nei giovani, la percezione di solitudine e la conseguente vulnerabilità psichica. Una simile condizione di stress psico-fisico, unita all’aumento del tempo trascorso online – secondo la professoressa di neuroscienze cognitive presso l’Università di Westminster Catherine Loveday, “più cognitivamente impegnativo perché il cervello, per riempire le lacune audiovisive, deve concentrarsi più duramente” – ha favorito l’incremento dei disturbi legati ad attenzione e concentrazione.
In molti casi, l’incertezza generale ha infine spinto la popolazione verso una ricerca spasmodica di informazioni, fenomeno che l’Oms ha definito “infodemia”. La sovraesposizione a notizie spesso contrastanti, oltre a facilitare la diffusione delle più improbabili teorie complottiste, ha contribuito a confondere ulteriormente le idee. All’aumento dell’incertezza è seguita l’amplificazione dei livelli di stress: di conseguenza, i consumatori compulsivi di notizie sul Covid hanno riportato una maggior distrazione e un peggioramento più marcato dei sintomi ansiosi.
A più di un anno dai primi casi di Covid, l’isolamento sociale è ancora parte integrante della quotidianità di milioni di persone. Se da un lato ormai è noto che molte forme di disagio psicologico sono da imputarsi alle conseguenze della pandemia, però, non vale lo stesso per la compromissione delle funzionalità cognitive. Lo sforzo necessario a portare a termine i compiti più banali viene spesso vissuto con profondi sensi di colpa e ciò non fa altro che aumentare stress e frustrazione. Immersi in una società che ha fatto della produttività il suo valore portante, ascoltare se stessi significa andare controtendenza.
“L’annebbiamento mentale è un segnale con cui il nostro corpo e il nostro cervello ci dicono che stiamo spingendo troppo,” afferma sempre il professor Pariante, “In questi casi, dovremmo fermarci e chiederci ‘Perché oggi va peggio di ieri?’, piuttosto che spingerci ulteriormente e rischiare il burnout”. La dottrina che vede nella performance la chiave per la felicità aveva già dimostrato di essere incompatibile con i bisogni dell’essere umano e mai come ora è necessario che ai cittadini venga data una tregua. Abbiamo bisogno di rallentare e di accettare la nostra fallibilità per poterla superare, altrimenti i danni saranno molto elevati e non è detto che, come Siffre, una volta usciti dalla grotta riusciremo gradualmente a recuperare.