500mila italiani soffrono di dismorfofobia. È la malattia dell’era dell’apparenza.

“Mi sono iscritta perché disperata con mio figlio, che pur essendo magrissimo si vede le ossa del bacino enormi. In famiglia stiamo vivendo un dramma, rischia anche di perdere il posto di lavoro”, scrive Annamaria, con qualche errore sintattico dovuto alla foga, tra i numerosissimi messaggi di un forum i cui iscritti condividono una battaglia, in alcuni casi, e un’amara rassegnazione in molti altri. Il nemico è subdolo, perché arresta quello slancio alla vita necessario a farsi strada nelle relazioni di tutti i giorni. Alcune volte, impedendo addirittura di uscire di casa. “Sono rimasta un mese intero rinchiusa in camera, non riuscivo a sopportare l’idea che qualcuno potesse guardarmi in faccia. La vedevo come una violenza, volevo restare al sicuro”, confida Sara tra i post successivi. L’esistenza di Sara e di tante altre persone che per darsi forza condividono le proprie esperienze da dietro lo schermo del computer è influenzata da un disturbo particolare, su cui ancora non si sa molto.

Spesso si parla di depressione, a volte di anoressia nervosa, altre ancora, di sociopatia, ma in realtà il male da cui spesso originano tutti gli altri è definito dismorfofobia, o disturbo da dismorfismo corporeo (DDC). La dismorfofobia è infatti disturbo sottostimato, ancora vittima di confusione tra gli stessi medici; eppure, di dismorfofobia se ne parlava già nel 1891, quando lo psichiatra Enrico Morselli la descriveva per la prima volta come “sensazione soggettiva di deformità o di difetto fisico, per la quale il paziente ritiene di essere notato dagli altri, nonostante il suo aspetto rientri nei limiti della norma”. Da qui, un enorme vuoto che finisce nel 1980, quando il disturbo da dismorfismo corporeo viene inserito nel DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Da quel momento la dismorfofobia diventa meritevole di attenzione da parte della comunità scientifica, che cerca di analizzarla procedendo a tentoni, da un paziente e all’altro.

La difficoltà principale sembra essere legata a un vizio primario: chi ne soffre raramente osa confessarlo, perché rivelare – persino allo psichiatra – l’ossessione per un proprio difetto, immaginario o meno, sarebbe come accendere i riflettori su di esso. La conseguenza è che, per vergogna, sono gli stessi pazienti a tentare di sviare il problema, camuffando il disturbo e scaricando la colpa su altre sofferenze. A oggi, per fortuna, la percezione comune circa patologie come la depressione sta assumendo sempre di più una connotazione diversa rispetto al passato, sia per chi ne sente parlare che per chi ne soffre. La dismorfofobia rimane invece, al pari di altri gravi disturbi, un vero e proprio tabù, nascosto, dissimulato o magari messo a tacere da un calvario di interventi di chirurgia estetica.

Eppure, il disturbo da dismorfismo corporeo miete molte vittime, quasi sempre giovani o molto giovani. Si parte dall’età di 12 anni per proseguire fino ai 30 e a seguire; a soffrirne, secondo le ricerche epidemiologiche dell’Istituto di Terapia cognitiva e comportamentale, circa il 2,5% della popolazione generale. Solo in Italia, quasi 500mila persone. Il dato è piuttosto fumoso, vista la ritrosia a parlarne che fa supporre una presenza molto più alta di casi. Nonostante alcuni studi rilevino una caratteristica ereditaria, lo sviluppo della dismorfofobia è maggiormente imputabile a sensazioni di rifiuto o inadeguatezza provate in famiglia durante l’infanzia, e in seguito rafforzate all’interno della propria sfera sociale. Quando tutto sembra porre alla base del nostro essere il modo in cui appariamo diventa più difficile non rischiare di sprofondare in un’inadeguatezza patologica. E per di più non sempre l’immagine che abbiamo di noi stessi è uguale a quella che percepiscono gli altri.

Sembra proprio di trovarsi fra le pagine di Uno, nessuno e centomila, uno dei capolavori del premio Nobel Luigi Pirandello, in cui il protagonista Vitangelo Moscarda dà inizio a una guerra con il suo naso che vedrà la conclusione nel rifiuto totale dello specchio, oggetto-simbolo dell’identità dell’essere umano. Ma se Moscarda poteva decidere di allontanarsi per sempre da uno specchio, non è certo così per i giovanissimi di oggi, impegnati senza sosta in un’incessabile gara all’esserci, che anche se non è la causa primaria di certo non aiuta. La teoria sociologica della devianza di Merton ci fa pensare che ciò di cui si ha paura, sostanzialmente, sia il non poter raggiungere i modelli imposti dalla contemporaneità.

In questo caso la sanzione sociale, temutissima per chi si sente in difetto, sarebbe l’emarginazione. Così entrare nel tunnel delle ossessioni per il proprio aspetto fisico e della dismorfofobia diventa molto facile. Si tratta di un comportamento completamente diverso dalla vanità e dal voler apparire al meglio. I diffusissimi filtri-bellezza virtuali sviluppano nel dismorfofobico un approccio ossessivo, mirato a mascherare i presunti difetti fisici per qualsiasi apparizione sul web: questo il parere del medico estetico inglese Tijion Esho, che ha coniato l’espressione “Snapchat dysmorphia” per indicare uno stato di assuefazione tale dai selfie e dal modo in cui si vorrebbe apparire negli scatti condivisi sui vari profili social che sconfina poi in appuntamenti sempre più assidui con il chirurgo plastico. Se nei decenni precedenti gli adolescenti avevano come riferimento il volto di un’attrice o il seno di una modella, adesso il punto d’arrivo agognato diventa proprio la versione “migliorata” di se stessi tramite le app di fotoritocco. “Vengono da me e mi mostrano il cellulare. Non dicono ‘Non mi piace il mio naso’, ma ‘Non mi piace come viene il mio naso in foto’. È una tendenza che prima non esisteva”, sottolinea Daniele Fasano, presidente della Scipre (Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica).

Il disturbo da dismorfismo corporeo è profondamente influenzato dalle dinamiche narcisistiche poste in essere dall’era dei social, anche se il narcisismo patologico è tutt’altra faccenda. A differenza di quanto si possa credere comunemente, il desiderio più grande del dismorfofobico non è quello di apparire bello o bellissimo, ma quello di sembrare “normale”, cioè di poter amalgamarsi al resto della società senza avere l’impressione di essere abbandonato o messo da parte, sensazioni che vengono collegate per via diretta a un unico motivo, cioè quel maledetto difetto che proprio non si riesce a marginalizzare e che anzi diventa la causa, sempre più frequentemente, del diradamento degli impegni sociali e persino lavorativi. D’altro canto, liberandosi da una serie di ipocrisie, non risulterebbe utile demonizzare alcuni interventi di chirurgia estetica scrupolosi ed eseguiti con cautela e giudizio, dal momento che in diversi casi comprovati (cioè quando il difetto non è immaginario ma reale e magari estremo) possono rappresentare l’unico punto di svolta alle problematiche del dismorfismo corporeo.

Dopotutto, lo scrittore e poeta Iosif Brodskij non aveva torto quando affermava che l’essere umano è in quanto creatura estetica, ancor prima che etica. Ma è necessario che si crei una rete informativa più consapevole e diretta nella comunità scientifica, affinché una patologia in via d’espansione come questa possa trovare gli strumenti migliori per essere diagnosticata, affrontata e arginata. La dismorfofobia è prima di tutto un problema di pressione psicologica che si focalizza sulle nostre aspettative, che a loro volta si rispecchiano in quelle (presunte) del mondo esterno. Riuscire a mettere da parte almeno per un istante il giudizio degli altri, forse basterebbe a farci scoprire la bellezza dell’autoconsapevolezza, persino maggiore di quella del selfie perfetto.

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