“Toxic” mostra come la bilancia sia diventato uno strumento di sottomissione e obbedienza femminile - THE VISION

Nel 2006, quando avevo dieci anni, è stata trasmessa in Italia la prima edizione di America’s Next Top Model, un talent show per modelle che stava già avendo un enorme successo negli Stati Uniti. La conduzione del format era affidata a Tyra Banks, figura estremamente nota nel mondo della moda – e prima donna afroamericana a comparire sulla copertina di GQ nel 1996 –, che aveva il compito di accompagnare le concorrenti lungo una dura competizione fatta di diverse prove: quelle legate al settore, come sfilate e servizi fotografici, ma anche quelle riguardanti la versione della “cura di sé” e della bellezza universalmente riconosciuta negli anni Zero, che corrispondeva con la cosiddetta “thinness” – la magrezza estrema necessaria non solo per fare la modella, ma anche per rientrare nel dominio dei corpi femminili attraenti. Al termine della gara, la vincitrice sarebbe stata eletta come la modella più promettente, con buone speranze di poter lanciare la propria carriera. Il ruolo di Tyra, una sorta di Virgilio dello showbiz, consisteva quindi nel dispensare una serie di consigli del mestiere alle ragazze – tra cui l’indimenticabile tecnica dello “smize, crasi di “smile” ed “eyes”, ovvero l’espressione di sorriso fatto con gli occhi da tenere obbligatoriamente durante le sfilate –, ma anche di testare la loro resistenza a un ambiente lavorativo pressante e competitivo, tra conteggio delle calorie, sfuriate per chi sgarrava le regole – alimentari e non –, umiliazioni pubbliche davanti alla giuria e alle compagne. 

America’s Next Top Model, oggi, non avrebbe probabilmente lo stesso appeal televisivo di quando veniva proposto a un pubblico di preadolescenti che, come me, erano cresciute con i modelli aspirazionali basati sul giro vita di Kate Moss. Nonostante la lore del corpo femminile sia ancora strettamente legata a standard estetici irrealistici, infatti, credo che oggi saremmo tutti concordi nel percepire come abusanti le scene di misurazione della circonferenza delle cosce, o delle pesate dei pochi grammi di finocchi e carote con cui le concorrenti pranzavano. Il reality, però, descrive una convinzione da cui non mi sembra ci siamo ancora staccati, nonostante gli sforzi della body positivity, cioè quella che vede nella magrezza una sorta di fattore di elevazione, capace di farci accedere – soprattutto se donne – a possibilità e obiettivi che vanno ben oltre la prestanza fisica. Come se essa bastasse di per sé non solo a farci sentire belle, desiderabili, sexy ma soprattutto ad avvicinarci in qualche modo alla realizzazione, forse addirittura alla felicità. La stessa convinzione, frutto di una cultura ancora profondamente attaccata al controllo del corpo femminile, muove anche le protagoniste di Toxic, esordio alla regia con cui l’autrice lituana Saulė Bliuvaitė ha vinto il Pardo D’Oro al Festival di Locarno 2024 e disponibile su MUBI, che si svolge in un contesto molto simile a quello del reality di Banks: una scuola che promette a ragazze giovanissime una carriera da top model. 

La magrezza, in Toxic, viene infatti resa parte di un racconto di “vita provvisoria”, come la chiamava la psicoanalista svizzera Marie Louise Von Frantz. Con questo termine, la studiosa voleva indicare uno stato emotivo transitorio e tipicamente adolescenziale, che riguarda quel momento della vita in cui si è convinti che tutto sia in pausa in attesa di raggiungere un risultato ipotetico nel futuro: quando sarò ricca, allora si che; quando sarò in carriera, allora si che; quando sarò magra allora si che. Le protagoniste tredicenni di Bliuvaitė, Marija e Kristina – entrambe interpretate da attrici emergenti, rispettivamente Vesta Matulytė e Ieva Rupeikaitė –, in questo senso, iniziano a sperare che la magrezza possa rappresentare il loro scalino per il successo, consentendogli di fuggire dalla città in cui vivono – un luogo indefinito e decadente della Lituania post sovietica –, dai propri problemi familiari, e di accedere quindi a una nuova vita. Entrambe danno al loro corpo e al loro peso la responsabilità di fare da discriminante tra un prima e un dopo, un’infelicità presente e una auspicata felicità futura, rendendolo così il mezzo unico della propria realizzazione personale – e mettendo in scena, non a caso, un meccanismo di controllo molto simile a quello che scatena i disturbi del comportamento alimentare.

È dunque a partire dal “potere” conferito alla magrezza che nasce, nelle due protagoniste, il desiderio di raggiungerla a tutti i costi, anche quando ciò implica enormi sofferenze. Di qui, il percorso di formazione tracciato in Toxic si avvicina scena dopo scena a un percorso di deformazione corporea, fatto di tutte le violenze che le due ragazze si auto-infliggono per dimagrire. Dapprima, la classica riduzione delle calorie, con momenti in cui la regista segue Marija e Kristina mentre accampano scuse per il mancato appetito, nascondono il cibo in tasca, o svuotano i propri piatti nel giardino dei genitori. Poi, le dita in gola per vomitare, utilizzando la tecnica infallibile che le ragazze hanno scovato su un blog e che permette loro di non fare rumore mentre rimettono, quindi di non destare sospetti in famiglia. Ancora, la decisione di Kristina di farsi un piercing sulla lingua per averla gonfia e tumefatta, così da non riuscire a mangiare nulla. Infine, quando nulla di tutto ciò basta più a fare scendere il numero sulla bilancia, la ricerca sul deep web di un uovo di tenia, ottenuto per cinquanta euro – e quindi molto più a buon prezzo dell’Ozempic –  grazie a un amico, sperando che l’aiuto del parassita associato alla ferrea disciplina possa servire a restringere di ancora qualche centimetro cosce e giro vita. L’intento di Bliuvaitė è quello di mostrare, attraverso l’ossessione di Marija e Kristina, quanto il controllo del peso e del corpo in senso estetico abbiano in sé qualcosa di estremamente degradante, quando portati all’estremo – come si vede dai corpi provati e dalle espressioni sofferenti delle protagoniste, osservate minuziosamente dalla regista –, anche se la maggior parte delle donne ha probabilmente imparato sin da bambina a ritenerlo una pratica necessaria. Il climax di dolore a cui le due ragazze si sottopongono crea infatti una similitudine tra queste forme di controllo e la tortura a tutti gli effetti, di cui Marjia e Kristina sono sì agenti in prima persona, ma non esattamente anche mandanti – dato che questo ruolo, per la regista, compete più a fattori esterni.

L’atmosfera che ammanta il film sin dalle prime scene è infatti quella di una truffa annunciata. Non solo per quanto riguarda l’operato di una scuola per modelle che promette una carriera “tra Parigi e Tokyo”, ma chiede di pagare in anticipo i servizi fotografici, costringendo le ragazze a indebitarsi o a prostituirsi per ottenere i soldi. Toxic riesce a creare un sistema di denuncia a cerchi concentrici, che si sofferma sia sul settore del reclutamento modelle, sia sulla cultura nociva che ha plasmato per decenni la percezione del corpo delle donne, pretendendo che questo fosse immancabilmente magro, tonico, attraente. Come a dire che l’ossessione delle due ragazze non è qualcosa che appartiene solo a loro, ma che risulta ben radicato nell’inconscio collettivo femminile. 

I contratti da strozzini proposti dalla presunta scuola per top model che le protagoniste frequentano si presentano così come una delle tante emanazioni di un inganno più grave: quello che ha reso la bilancia uno strumento di sottomissione – dato che, per dirlo con le parole dell’autrice femminista Naomi Wolf nel suo Il mito della bellezza, “una cultura fissata con la magrezza femminile non rappresenta un’ossessione per la bellezza femminile, bensì per l’obbedienza femminile” – e che l’ha scelta proprio per la sua presa universale, dato che qualsiasi donna, anche se molto magra, può sempre desiderare di esserlo di più se la diminuzione del peso le viene venduta come il passepartout per sentirsi accettata e realizzata. Il simbolo di questo inganno, nel film, è incarnato dalla figura di Marija, che pur zoppicando a causa di una disabilità, continua a essere illusa e sfruttata dai proprietari della scuola, che la tengono appesa al suo sogno nonostante l’evidente disagio fisico che la ragazza prova nello sfilare – enfatizzato dalle molte scene in cui si muove sulla passerella in modo inevitabilmente scoordinato, sgraziato rispetto alle altre: una difficoltà che non dipende dalla sua volontà, e non rientra quindi nella retorica per cui tutto è possibile quando si “crede in sé stessi”, che un’agente continua a propinare come un mantra alle ragazze.

All’ultimo cerchio, il più largo dei gironi di denuncia messi in piedi da Bliuvaitė, c’è invece il contesto in cui Marjia e Kristina vivono, ovvero quello di una Lituania piegata da anni di dominazione sovietica, che rimane ancora oggi in una condizione di povertà – economica e culturale – estrema. Con il montaggio alternato che mostra prima le strade di una periferia degradata, poi i veicoli abbandonati, poi le case buie e anguste delle famiglie delle ragazze, la regista presenta un contesto che non è stato in grado di proteggerle nemmeno da bugie facilmente smascherabili, perché nessuno attorno a loro ha gli strumenti adatti per farlo. Bliuvaitė sembra dunque chiamare in causa, per il quadro desolante in cui versa la parte del Paese descritta in Toxic, non solo le responsabilità storiche dell’Unione Sovietica, ma anche quelle dell’Unione Europea, per quanto riguarda il presente della Lituania, che non ha quasi visto emancipazione negli oltre vent’anni trascorsi dal 2004, quando è diventata stato membro.

Ciò che c’è di “tossico” – termine ormai abusato, ma in questo caso estremamente pregnante –, nel film di Bliuvaitė è quindi un desiderio di magrezza, bellezza, attrattività che viene confuso con un desiderio di riscatto, da due protagoniste a cui non è stato insegnato come operare questa distinzione. La “giustificazione” data dal contesto in cui le ragazze crescono non impedisce però alla regista di mostrare come questo fraintendimento sia stato in qualche modo “indotto” su larga scala, a partire dalle pretese che l’iconografia e la cultura in cui siamo immersi applica al corpo femminile. La perdita di peso, il desiderio di magrezza e tutto ciò che Marjia e Kristina fanno per raggiungerla, sono quindi soltanto il sintomo di un’intossicazione che ascrive al raggiungimento di un ideale di corpo perfetto anche la possibilità, per qualsiasi donna, di conquistare ben altri obiettivi, riguardanti la sua posizione sociale, lavorativa, ma anche il suo valore in senso assoluto. “No more excuses, I want to see your potential”, diceva Tyra Banks per spronare le concorrenti di America’s Next Top Model, così come l’agente di Marjia e Kristina ordina loro di “credere in sé stesse”, per perdere ancora quell’ultimo chilo in più. Quello che chiedono entrambe, come suggerisce Beuvalité in Toxic, è però di credere a ciò che dicono loro, senza metterlo mai in discussione, onde evitare che a qualcuna venga il dubbio che per quanto il nostro potenziale possa essere nascosto e ancora ottimizzabile, tirarlo fuori non debba mai fare così male. 


“Toxic” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

Seguici anche su:
Facebook    —
Twitter   —