"Sick of Myself" racconta perfettamente il nuovo paradigma della nostra epoca: soffro, dunque sono. - THE VISION

Non riesco a individuarne pienamente le cause o i cambiamenti sociali che ne sono all’origine ma a un certo punto, nell’immaginario collettivo, mi sembra il mito dell’eroe per come l’abbiamo conosciuto per secoli sia sparito, soppiantato da nuovi codici attraverso cui mostrare la propria unicità. Sopravvive al massimo nelle card di qualche giornale, in cui l’azione più basilare e umana, come aiutare una persona anziana o raccogliere una cartaccia da terra, è elevata a caso speciale. Forse perché la retorica che ha finito per circondarlo è diventata insopportabile o perché essere eroi, quando molto spesso facciamo fatica anche solo ad arrivare a fine giornata per mille piccole e valide ragioni, ci sembra un ulteriore compito a cui siamo però sempre meno interessati. A emergere come figura in cui riconoscersi, nell’ultimo decennio, è stato invece il suo diretto opposto, la vittima. Se prima riuscire a evitare agli altri il dolore o resistervi noi stessi, ci raccontavano, era ciò che ci dava valore, oggi questa dinamica sembra essersi ribaltata: a volte tendiamo a ingigantire ogni dolore per attirare l’attenzione, alzarci al di sopra del rumore. Penso che in parte questa dinamica ha alimentato – o si è intrecciata – alla patologizzazione dell’esperienza umana, un tema centrale del nostro presente, con lo scopo ultimo di acquisire legittimazione – e sentirsi visti, capiti, convalidati. A mettere perfettamente in scena questo costante nuovo modo di porci, in tutto il suo essere grottesco, è Sick of Myself, del regista norvegese Kristoffer Borgli. Diventato in Italia uno dei casi cinematografici dello scorso anno, la pellicola è oggi disponibile su Mubi nella rassegna dedicata al Festival di Cannes, dove il film è stato presentato nel 2022 nella sezione Un Certain Regard. 

Signe, la protagonista, condensa tutti questi atteggiamenti in un’ossessione per le bugie e il vittimismo, utile a suscitare la compassione delle persone che la circondano e per avere tutti gli sguardi su di sé. Con le amiche, con il fidanzato, al lavoro, ogni occasione diventa una potenziale scena in cui mettersi al centro dell’attenzione. Le sue giornate al bar dove fa la cameriera procedono monotone una dopo l’altra fino a quando, improvvisamente, vengono sconvolte quando una cliente viene attaccata e sbranata da un cane feroce. Signe corre in suo soccorso e, quando rientra a casa, stordita, camminando per le strade della città ricoperta dal sangue della donna, c’è un pensiero che si fa sempre più costante e insistente nella sua testa. Non riguarda ciò che è accaduto alla cliente, ma ciò che sta accadendo a lei: l’attenzione che riceve dalla polizia, dai media, dai suoi amici, dagli sconosciuti che incontra la illumina, le dà vita, finalmente si sente riconosciuta.

È un bisogno che cresce veloce, ma non è mai abbastanza: qualcuno sarà sempre più famoso e avrà più successo di lei. È una constatazione insopportabile. Questo desiderio narcisistico la porta, persuasa dalle foto degli spaventosi effetti collaterali del Lidexol, un ansiolitico scovato sul web, a decidere di assumerlo per ammalarsi davvero, simulando una rara patologia senza cura al solo fine di ottenere ancora più attenzione altrui e diventare, così spera, famosa – proprio come merita di essere. La dose eccessiva di farmaco che assume inizia a deturparle il volto, fino a renderla irriconoscibile. Eppure Signe sceglie di apparire in questo modo, la fama che ne consegue compensa i dolori, compensa il diventare brutta. Preferisce una sorta di martirio, la malattia, all’orrore ancora più insopportabile dell’anonimato, seppur in salute. Adesso è un mostro dei tabloid, è vero, ma è anche e soprattutto una star.

Un atteggiamento che nel quotidiano coinvolge soprattutto i social, dove il concetto di trauma e, in maniera più ampia, quello di “vittima ideale” sono stati elevati a strumenti per ottenere attenzione. Com’è ovvio, non si parla delle vittime reali, ma della trasformazione dell’immaginario della vittima in uno status dietro cui trincerarsi per evitare di essere messi e di mettersi in discussione, per acquisire autorevolezza e virtù morale. Un modo per elevarsi sopra alle centinaia di contenuti che fruiamo passivamente ogni giorno per “sentirci ascoltati” e, soprattutto, per diventare qualcuno, cioè acquisire follower ed engagement, e di conseguenza successo secondo le nuove equazioni della società. Ogni situazione negativa così – sul lavoro, a casa, tra amici – può diventare un pretesto da trasformare in vittimismo.

D’altronde perché non dovrebbe, quando ci permette di realizzare facilmente contenuti capaci di creare compassione ed engagement. È una stasi però che appiattisce il mondo e la complessità umana, eliminando le nostre infinite possibilità di non essere solo vittime, ma anche carnefici, di sbagliare, di avere colpe. Siamo diventati come un essere fermo al centro di una stanza che dà di matto quando anche una sola persona gli stacca gli occhi di dosso. Un’attitudine che non ha a che fare solo con le dinamiche dei social, ma anche con il mondo esterno, corporeo, in cui così facendo non solo si riduce la capacità di confrontarsi con qualunque differenza (secondo una nuova formula cartesiana sintetizzabile in “Soffro, dunque valgo”, fino ad ammalarsi davvero di sé stessi, come suggerisce il titolo del film), ma si spogliano anche le relazioni che abbiamo con le altre persone di qualunque complessità.

L’assunzione del farmaco è infatti solo l’apice dei comportamenti di Signe per ottenere attenzione e che inevitabilmente coinvolgono anche la relazione col suo fidanzato, Thomas, che si trasforma lentamente  in una competizione a chi riesce a mantenere più a lungo su di sé l’interesse altrui. Nessuno si salva: se lui è un cleptomane che ruba oggetti da trasformare in “arte”, lei in un momento di disperazione cerca di istigare un cane ad azzannarla per avere una storia più grande da raccontare – più grande non solo di lei, ma anche dei successi del fidanzato – fino a che il proprietario dell’animale non le urla di trovarsi qualcos’altro da fare. In questo senso Sick of Myself non è solo il ritratto di chi siamo diventati, ma anche della nostra incapacità di stare in relazione, da cui cerchiamo solo convalide. Il nostro rapporto con l’amore sembra in molti casi essersi ridotto alla scelta fra noi stessi e l’Altro, a un continua lotta a nascondere parti di noi per mostrarci sempre al meglio, al non lasciarci mai superare nella competizione che è diventato vivere nella società della performance.

Oggi, infatti, assistiamo sempre più a una traslazione nel quotidiano, nel nostro modo di strutturare la nostra esperienza, di quello che il sociologo Jean-Michel Chaumont definiva “la concorrenza delle vittime”. Analizzando una delle peggiori tragedie del Novecento, la Shoah, Chaumont notava come, spesso, il rifiuto di confrontare qualsiasi altro evento all’Olocausto non fosse dovuto a una sorta di rigore storico o al dovere nei confronti della memoria, ma a un tentativo di acquisire, attraverso la storia, un riconoscimento identitario. Così nasce una disputa su quale genocidio sia durato di più, quale sia avvenuto prima, quale sia stato peggiore, in un tentativo di competizione che invece di consolidare il significato della Storia, la banalizza e strumentalizza per autorappresentarsi come titolari di un’offesa unica, in una perversa rincorsa al paragone. Così oggi, nel racconto di noi stessi, non ci accontentiamo più di essere solo vittime sui social, vogliamo anche essere le migliori, uniche fra tante. 

Certo la colpa non è solo individuale. Viviamo in un sistema in cui più diminuisce il tempo di concentrazione e attenzione che ciascuno di noi è in grado di dedicare all’esterno, più aumenta inesorabilmente il nostro bisogno di non essere invisibili nemmeno per un secondo. È un lavoro estenuante il tentativo di riuscirci, soprattutto a livello psicologico, che ci fa perdere, mi sembra, non solo la capacità concreta di saper affrontare le difficoltà, una volta che ingigantite assurgono tutte al livello di “trauma”, ma prima di tutto la possibilità di collaborare, cooperare, essere comunità. Né eroi né vittime, semplicemente essere persone qualunque. Basterebbe questo, forse, per stare meglio. Eppure, come in ogni momento ci ricorda la disperazione di Signe in Sick of Myself, farlo è più difficile di quanto crediamo. Soprattutto da soli.


“Sick of Myself” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per ottenere 30 giorni di prova gratuita.  

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