“Shakedown” è un viaggio sensoriale nel piacere libero - THE VISION

Avrò avuto diciassette o diciotto anni la prima volta che, ballando a una serata queer, ho sentito di essere in un contesto che mi apparteneva. Ancora non sapevo che sarebbe stato solo uno dei mille posti, completamente diversi fra loro, in cui avrei sentito che in quel momento, tra quelle mura o in mezzo a quegli alberi, tutte le possibilità che agli altri mi sembravano sempre permesse – di innamorarmi, di farmi toccare, di non preoccuparmi di come parlavo – finalmente lo erano anche per me. È una storia lunga quella dei locali LGBTQ+, che ha caratterizzato indubbiamente parte di quella del movimento e che oggi, nonostante siano diventati punto di riferimento anche per le persone non queer, continua a essere spesso ridotta a un tentativo di “ghettizzazione” o viene direttamente cancellata smantellandoli. Shakedown, il primo documentario dell’artista, imprenditrice e regista americana Leilah Weinraub, mostrato per la prima volta alla Berlinale del 2018 e disponibile da questo mese in streaming su MUBI nella rassegna dedicata all’esperienza LGBTQ+, Un posto tutto per noi: gli spazi queer al cinema, parla proprio della libertà che si può trovare in uno di questi.

Il documentario prende il nome da una serie di serate organizzate a Los Angeles da donne nere per la scena underground lesbica della città, dove al centro ci sono le cosiddette angels – spogliarelliste, go-go dancer, ballerine –, protagoniste della vita notturna dagli anni Novanta ai primi Duemila. Egypt, Jazmyne, Slim Goodie e Slow-Wine, così come tutte le altre persone che rendono il club una famiglia. Un luogo e un momento in cui inventarsi, reinventarsi, giocare con il desiderio e guadagnarsi da vivere. Weinraub diventa testimone delle loro storie da un punto di vista privilegiato, perché intimo e privo di barriere: la prima volta che ci è entrata era stata portata da un’amica ed era rimasta così stupita da ciò che aveva visto sul palco che aveva chiesto se poteva lavorare lì anche lei, prima come fotografa e poi come videomaker, catturando le movenze sensuali, erotiche e mai accomodanti degli “angeli”. In questo senso, il documentario è un film onesto e complesso sulla libertà, il conflitto e la connessione umana.

Weinraub non dipinge mai le ballerine o gli altri avventori come qualcosa di più o di meno di ciò che sono realmente. Non nasconde nulla perché non mostra la sessualità semplicemente per amore dello spettacolo, in modo voyeuristico, ma come mezzo per interrogare se stessi. “Ciò che mi piaceva dello Shakedown è che il modo in cui le persone si relazionavano all’espressione di genere era sempre casuale. Se ne parlava, era qualcosa su cui la gente inventava continuamente variazioni, ma era rilassato”, racconta la regista. “Il modo per essere radicali è lasciare alle persone lo spazio per seguire la casualità. Quando una pratica diventa dogmatica significa che è regolamentata”. Dopo aver raccolto oltre 300 ore di girato nell’arco di sedici anni, Weinraub le ha mescolate a flyer, volantini, poster delle serate e interviste in un modo che ricorda l’arte del collage e che dà a Shakedown un carattere fortemente sensoriale. Non a caso, dopo averne proiettato una versione breve alla biennale del Whitney Museum of American Art di New York e al Museo di arte contemporanea di Los Angeles (MOCA), la pellicola è stata la prima opera non-per adulti con cui Pornhub ha dato spazio a contenuti artistici non direttamente pornografici.

In una delle scene iniziali, Mahogany, una leggenda nella scena queer di Los Angeles – che racconta di come l’abbiano iniziata a chiamare in quel modo non per il film del 1975 con Diana Ross ma perché era “nera e carina” – spiega che il primo comandamento per eccitare e comandare lo sguardo che si posa addosso a una spogliarellista è quello di entrare in scena con fierezza, dando una perfetta prima impressione. “Vogliono che li ecciti, ma voglio anche che li lasci immaginare”. Se negli anni Cinquanta le spogliarelliste si muovevano sul palco avviluppate a boa di piume che ne seguivano i movimenti e in parte ne coprivano il corpo, negli anni Novanta è diventato tutto molto più esplicito, ma dipende sempre chi è che guarda.

“Agli uomini non interessa come sei vestita, puoi avere addosso qualunque cosa. Per le donne, invece, devi avere la giusta femminilità, indossare abiti e tacchi di qualità”. Ma ciò che viene messo a nudo qui, oltre al corpo, è un ritratto intimo della vivacità e della timidezza, del potere e dei bisogni, dell’orgoglio e dei dubbi di una micro-comunità. L’effetto complessivo è sì carnale ma anche riflessivo. Nonostante abbia i suoi momenti divertenti, infatti, Shakedown utilizza un tono serio, in un certo modo anche dirompente rispetto al contenuto delle immagini, capace di sottolineare quanto questa comunità – come ogni comunità – abbia dovuto impiegare tempo per costruirsi e formarsi, continuando ad affrontare diverse critiche, essendo caratterizzata da una triplice intersezione, quella di donne nere lesbiche. 

Weinraub fa un ottimo lavoro nel non voler definire gli spazi attraverso i quali si muove e i corpi che vi si muovono al loro interno, attorno a lei. I suoi ritratti sono maturi, le persone rappresentate sfuggono qualunque categorizzazione, basandosi piuttosto sulla condivisione di un’esperienza. Da sempre, infatti, gli spazi queer permettono di scoprire nuovi modi di sentire, gli altri e se stessi, anche per la comunità, in cui viversi al contempo secondo e contro ogni sicurezza che di sé si è sempre avuta. C’è poi una radicalità nella capacità del film di dare spazio all’esperienza queer nera piuttosto che modellarla su una forma riconoscibile per gli spettatori, senza voler a tutti i costi renderla comprensibile a chi non la conosce. In qualche modo sembra disconoscere l’etimologia stessa della parola “documentario”, dal termine latino documentum a sua volta derivato dal verbo docēre, insegnare, dimostrare: Shakedown non mira a fare nessuna delle due cose, non è un atto di convincimento né la prova della solidità di una tesi, della risoluzione di un dubbio; è semmai la concessione a prendere parte a un presente – ormai passato, avendo il club chiuso nel 2004 – che non è mai stato di tutti e a cui ad alcune persone viene permesso di far parte, anche solo per poco, senza che sembri di assistere a un freak show o a una visita guidata. 

Nonostante il documentario sia principalmente sul corpo, sul piacere, sulla sessualità, il punto di partenza di Weinraub è stato il lavoro. L’idea iniziale si basava sul seguire il tragitto che i soldi effettuavano dalle clienti alle spogliarelliste ai loro acquisti, cercando di capire come i contanti funzionano nelle piccole comunità. Nelle interviste sparse nel film, infatti, i membri dello Shakedown parlano del loro rapporto con il loro lavoro, di quanto possono guadagnare quella sera o di come la bravura di una prima spogliarellista possa lasciare gli spettatori a corto di dollari per la successiva. Essendo la nostra identità ormai strettamente legata al lavoro, era inevitabile, però, che partendo da questo si finisse per parlare di sessualità, famiglie, relazioni. Ce lo ricorda uno dei comandi che viene scandito all’inizio del film che sì, bella la libertà, l’erotismo, la carne, ma tutto gira sempre attorno ai soldi. “Se sei etero e non hai intenzione di lasciare una mancia, spostati dietro”.

Dietro a glitter, piume e perizomi, si nasconde anche una certa fragilità degli spazi che in quanto persone marginalizzate riusciamo a costruire. La chiusura dello Shakedown nel 2004, l’arrivo della polizia pronta a serrare il locale e ad arrestare per oltraggio alla pubblica decenza, in una Los Angeles sempre più gentrificata, sono la parabola di molti luoghi della comunità che a un certo punto hanno smesso di esistere. Una geografia di posti in cui era possibile esprimere la propria identità, quale che fosse in quel momento, senza che per due, tre ore fosse un problema, qualcosa da giustificare, e che per questo hanno costituito un argine, prima di caderci vittime, all’imposizione dell’ordine sociale. “Nulla è come sembra dall’esterno e dall’esterno tutto sembra piuttosto uguale”, dice Egypt a un certo punto. “Alcuni posti sono semplicemente difficili da trovare”. Alcuni, come lo Shakedown, semplicemente non si possono trovare più.


“Shakedown” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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