Con “Megalopolis”, Coppola racconta un’utopia e il suo diventare realtà - THE VISION

Nel 2009, il filosofo francese Marc Augé si chiedeva, in un saggio dal titolo provvidenziale Che fine ha fatto il futuro?, una domanda che a ben guardare non abbiamo mai smesso di porci negli oltre quindici anni a seguire, essendoci ritrovati più volte in circostanze in cui non solo veniva da chiedersi che fine avesse fatto il nostro sguardo al futuro, ma soprattutto che cosa ne era stato della nostra capacità di immaginarne uno diverso, alternativo, in grado di mettere in discussione il presente. Secondo Augé, una volta abituati a una postmodernità che ci ha portato a concentrare tutte le nostre energie su un eterno qui e ora, pieno di richieste e pretese da rivolgerci, abbiamo infatti finito per accettare l’idea che il tempo presente abbia attratto a sé da un lato il passato, riducendolo a un deposito da cui attingere alla svelta ciò che ci fa più comodo per giustificare le nostre azioni presenti; dall’altro il futuro, che viviamo sempre più come qualcosa da affrontare in chiave fatalistica, senza poterci aspettare nulla di meglio delle dirette conseguenze di ciò che sta accadendo oggi. Come se la nostra immaginazione si fosse in qualche modo atrofizzata, smettendo di generare nuovi slanci e desideri, anche utopici. Per questo probabilmente non sappiamo più trovare un futuro, e non abbiamo idea di che fine abbia fatto: semplicemente a un certo punto abbiamo rinunciato a cercarlo con la mente, aspettando che ci venisse addosso, prima o poi, nel bene e nel male.

Viviamo infatti una delle epoche meno utopiche che si possano ricordare, tanto che il termine stesso “utopia”, insieme alla nostra capacità di formularne di nuove, meno utilizzato nel linguaggio comune, e con un atteggiamento sempre più disilluso. Eppure, l’utopia come genere narrativo ha attraversato tutta la storia della filosofia e delle arti dalla Repubblica di Platone al pensiero di Marx ed Engels, passando per l’ideale di città rinascimentale elaborato da Tommaso Moro –, fino ad arrivare quasi a scomparire, ai giorni nostri, come se fosse venuta a mancare una delle sue condizioni di esistenza fondamentali. Qualsiasi racconto utopico, infatti, è mosso in primo luogo dalla sensazione che il mondo non stia funzionando come deve, e che difficilmente possa essere rimesso in sesto senza una revisione totale; in secondo luogo, dalla convinzione che noi esseri umani potremmo essere in grado di individuare l’intoppo, e di capire cosa fare per aggiustare ciò che non funziona. E se la prima condizione è una costante del nostro presente, a mancarci non può che essere la fiducia nelle nostre possibilità di rinnovare il mondo, avvicinandoci un po’ di più all’utopia che ci augureremmo diventasse. Ci vuole quindi grande coraggio per pensare un’utopia in un tempo che di questi slanci immaginativi sembra non volerne sapere, prendendosi la responsabilità di dare vita a un’opera inattuale com’è Megalopolis, l’ultimo film di Francis Ford Coppola, uscito nel 2024 e ora disponibile in esclusiva su MUBI.

Con Megalopolis, infatti, Coppola racconta un’utopia e la sua costruzione percorsa da un profondo conflitto tra progresso e conservazione, che coinvolge tutti i personaggi del film mescolando il piano dell’ideologia politica e quello dell’interesse personale –, fino alla realizzazione, quindi al momento in cui essa smette di essere tale trasformandosi in realtà. Lo schema narrativo del film è identico a quello di tutta la letteratura utopica, e muove dalla progettazione di una città ideale – Megalopolis, appunto – come luogo che nasce per fare spazio a una società altrettanto ideale. A complicare la sceneggiatura, però, c’è ciò che rende il film un’opera audace e a mio avviso irripetibile, ovvero la volontà di ambientarlo in una versione attualizzata, futuribile, dell’Impero romano, in cui New York diventa Nuova Roma, i combattimenti dei gladiatori si svolgono in arene con enormi maxi schermi, e i grattacieli si alternano nello skyline urbano con enormi statue di pietra raffiguranti divinità del pantheon romano. Coppola dà quindi letteralmente vita a una commistione di passato, presente e futuro, così da creare il luogo adatto in cui immaginare la sua città ideale – descritta in decine di inquadrature, con i suoi grandiosi palazzi dorati, i trasporti futuristici e le simmetrie architettoniche rinascimentali –, e per chiedersi se ancora ci sia spazio per le utopie, anche oggi che sembriamo avervi rinunciato del tutto.

L’inattualità del film e i suoi aspetti contraddittori – che sono costati a Coppola diverse stroncature da parte della critica – derivano quindi dal fatto che il suo racconto nasce diviso, a metà tra due tempi diversissimi, tra cui è davvero difficile trovare la sintesi, al punto da renderlo in un certo senso “antico” per il presente – alcune scelte di linguaggio sono state infatti giudicate fuori tempo massimo, soprattutto per quanto riguarda alcuni dialoghi considerati sessisti e inadatti alla sensibilità di oggi, senza poter essere giustificati dall’ambientazione in un periodo precedente della storia –, ma allo stesso tempo inimmaginabile per il passato – dato che riesce a creare una giustapposizione sorprendente e affascinante di antichità e ipermodernità, immaginando un mondo di consoli che girano la città in limousine, domus romane abitate da uffici di agenzie di comunicazione e marketing digitale, ed eventi mondani in stile fashion week popolati da personaggi in toga e corone d’alloro. Questa frammentazione e ricomposizione temporale, per quanto a tratti straniante, serve al regista per dare un contesto al declino di un impero e al suo rinnovamento, come se avesse intuito che il racconto di un’utopia, oggi, non avrebbe spazio di per sé, e che quindi era indispensabile calarlo in un tempo diverso dal nostro – perché inventato ex novo grazie alla mescolanza con il passato –, in modo da dargli una sua consistenza e credibilità.

La difficoltosa commistione dei piani temporali si riversa quindi su diversi aspetti del film, personaggi compresi. Lo stesso protagonista del film, Cesar Catilina, interpretato da Adam Driver, è una reinterpretazione dell’ideale di “uomo universale” dell’umanesimo rinascimentale, che guardava con grande ammirazione alla Roma antica. Cesar non solo ha vinto il Premio Nobel per aver inventato una sorta di metallo biologico chiamato Megalon; è anche un artista, un urbanista, un architetto, un esperto di politica e il capo della Design Authority di Nuova Roma. È una figura alla Robert Moses, se questi negli anni Cinquanta avesse esibito lo spettro di talenti di Leonardo da Vinci; e la sua ambizione è quella di trasformare i quartieri, l’architettura, l’estetica, la tecnologia della sua città, per rispondere a un’esigenza di rinnovamento sociale e politico espressa dai cittadini che la popolano – ma non per questo agendo necessariamente nel loro interesse. Ciò che ha in mente è infatti una tecno-utopia dalle conseguenze controverse, che richiede la demolizione di quartieri già esistenti e, almeno temporaneamente, lo sfollamento dei loro residenti.

I fini perseguiti da Catilina, centrati interamente sui suoi talenti, la sua visione e il suo essere a tutti gli effetti una figura eccezionale, nutrono quindi un umanesimo per così dire parziale, ambiguo, che premette – fino addirittura a imporla – l’idea geniale di un singolo, alle istanze espresse dalla popolazione di un’intera città. C’è infatti qualcosa di anacronistico in questo sforzo titanico del protagonista – e della regia di Coppola nel volerlo legittimare – di ergersi contro un “mondo che non lo comprende”, una forzatura del concetto di unicità che di certo non siamo ancora riusciti a debellare, ma che inizia a stridere a contatto con un’epoca come la nostra, che costantemente ci ricorda quanto ogni evoluzione o potenziale progresso sia sempre e solo di massa, e quanto l’individuo non possa essere una soluzione definitiva alle storture del contesto in cui ci muoviamo. L’eccezionalità plateale di Caesar e la sua sicurezza inscalfibile servono però a rappresentare, nel mondo creato da Coppola, la guida eroica di cui il pensiero utopico ha bisogno, e che spesso compare nelle opere appartenenti al genere – oltre che nella nostra realtà storica, dove il passaggio tra crisi e instaurazione dei regimi totalitari segue un percorso molto simile a quello descritto dal film, se non fosse che Cesar riesce a tenersi sempre un passo a distanza dal potere politico. 

È ancora Cesar, inoltre, l’epicentro del doppio conflitto – politico e familiare, civico e personale – che ostacola la costruzione di Megalopolis. Da un lato, infatti, il protagonista è rallentato dalle proteste della popolazione di Nuova Roma – rappresentata da Coppola come uno sciame di manifestanti con indosso un cappellino rosso, che ricorda quello MAGA, in una metafora piuttosto evidente dell’incapacità della destra americana di abbandonare i propri ideali retrogradi e proiettarsi nel futuro –, dall’altro dalle perplessità del suo sindaco, Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito). Il conflitto politico con quest’ultimo si fa poi anche personale in un secondo momento, ovvero quando Cesar si innamora della figlia di Cicero, Julia (Nathalie Emmanuel), in una sorta di calco della leggenda di Priamo e Tisbe, matrice di tutte le storie di amori drammatici, che Ovidio ha raccontato nelle sue Metamorfosi – e Shakespeare ha reso famosa con la sua versione cinquecentesca del mito, Romeo e Giulietta – e segue la storia di due amanti costretti a rinunciare alla loro unione a causa delle divergenze ideologiche delle famiglie d’origine.

La storia d’amore tra Cesar e Julia, in questo senso, entra infatti a far parte di un epos, un mito di fondazione – questa volta a lieto fine, a differenza della leggenda originale – che prende corpo nel corso del film, e in cui i sentimenti dei personaggi convergono alla conversione ideologica del padre di Julia e quindi alla realizzazione di Megalopolis, rafforzando la potenza dell’utopia di Cesar, quasi fossero mossi da un inconscio illuminato che collabora al progresso, al rinnovamento di un impero altrimenti destinato alla rovina. Ciò che interessa a Coppola, quindi, non sembra essere tanto l’analisi sociologica dei problemi sollevati dall’operato di Cesar – l’incompatibilità tra la sua visione urbanistica e le questioni sociali che essa lascia in sospeso (riguardo, per esempio, la gentrificazione di Nuova Roma e il destino della sua popolazione, esclusa da qualsiasi decisione riguardante Megalopolis); il conflitto tra gli imperativi astratti dell’artista e quelli concreti della realtà in cui vive; la fiducia in un progresso senza sbavature che viene intuita dal genio, ma mai compresa da chi lo circonda.

Se questi aspetti vengono trascurati dall’inno utopico che Megalopolis si rivela essere scena dopo scena è perché nel film, appunto, tutto lo spazio viene conquistato dall’utopia in sé, utilizzando ogni elemento narrativo, ogni personaggio, ogni avvenimento per darle un contesto e delle condizioni di esistenza, ma senza mai distogliere l’attenzione dal progetto utopico, protagonista unico della narrazione – dato che lo stesso Cesar si rivela essere un tramite del fine ultimo, ovvero la costruzione di Megalopolis. Il film non è un’analisi di fattibilità, ma una contemplazione dell’utopia, che viene esibita in tutte le numerose scene in cui Cesar mostra il progetto di Megalopolis, proiettando personaggi e spettatori nel grande render 3D di un futuro possibile, che fa impallidire il presente, offrendo un’alternativa talmente migliore da risultare spaventosa, come tutto ciò che rischia di essere irrealizzabile.

Ed è probabilmente da qui che si iniziano a percepire le stonature, le piccole idiosincrasie e gli aspetti apparentemente anacronistici del film, che ci richiede un esercizio immaginativo audace e del tutto disinibito, a cui non solo non siamo più abituati, ma che abbiamo proprio messo da parte, per paura di illuderci di un avvenire diverso dal presente, assumendoci necessariamente il rischio che esso possa invece non essere mai. Megalopolis è quindi un film che richiede un importante investimento personale, come l’ha preteso, ironicamente, da Coppola stesso. Il regista ha infatti investito nel film più di 120 milioni di dollari – impegnando parte delle sue finanze, tra cui la sua tenuta vinicola californiana –, ma anche quarant’anni di vita, durante i quali il progetto ha subito innumerevoli riscritture, ritardi e false partenze, oltre che un’enorme quantità di energie per cercare un produttore che credesse nella sua opera, ottenendo decine di rifiuti.

Quello che chiede a noi, invece, è di riattivare i circuiti della nostra immaginazione verso il futuro, arrischiandoci anche nel dominio dell’irrealizzabile e dell’utopico, pur di smuoverci dalla quieta e passiva accettazione di ciò che ci sta accadendo attorno, nel presente, e delle conseguenze che questo avrà negli anni a venire, smettendo di pensarle come necessarie e inevitabili. L’epopea di Coppola, nonostante i suoi anacronismi e le stranezze derivanti da un infinito iter produttivo, tenta infatti di riportarci in un luogo dove i racconti epici di rinnovamento avevano un senso e una collocazione nell’immaginario collettivo, risultando per questo a tratti poco credibile, inattuale, o retorico, perché inevitabilmente – e volutamente – distante dall’indolenza immaginativa del nostro tempo. Un tempo in cui sembra impossibile aggirare il fallimento e la delusione, quando ci si prende la briga di porsi la domanda su che fine abbia fatto il futuro – come a detta di molti è accaduto a Coppola con la realizzazione del film –, ma che ha sempre più bisogno del coraggio che servirebbe per provare a darvi una risposta, parziale, errata o utopica che sia.


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