“Magic Farm” mostra la nostra difficoltà di osservare e ascoltare senza intervenire a tutti i costi - THE VISION

L’attuale panorama mediatico e culturale è intrinsecamente segnato da una crisi della rappresentazione, dove l’imperativo della produzione incessante di “contenuto” è divenuto il motore di un sistema che pone la quantità e l’impatto narrativo al di sopra della verità e della complessità del reale. Non ci muoviamo nel mondo per comprendere la realtà altrui, ma per confermare le nostre prefigurazioni e categorie preesistenti. Magic Farm, l’ultimo film della regista e sceneggiatrice Amalia Ulman, disponibile in streaming su MUBI e presente nel calendario del MUBI FEST con una proiezione prevista per sabato 15 novembre, alle 15.30, presso il Cinema Quattro Fontane di Roma, offre un punto di osservazione cruciale su questa dinamica.

Al centro di Magic Farm c’è Creative Lab, una moderna società di media newyorkese – molto molto simile a Vice News, di cui sembra mettere in scena una parodia – che viaggia per il mondo con lo scopo di raccontare bizzarre tendenze locali. Il loro piano è realizzare un servizio su Super Carlitos, un musicista che, secondo l’insicuro produttore Jeff, sarebbe diventato un fenomeno virale esibendosi con orecchie da coniglio. La troupe, guidata dalla cinica e stressata conduttrice Edna, interpretata da Chloë Sevigny, da suo marito e da un team più junior, arrivano in America Latina per scoprire immediatamente che l’obiettivo è meno facile del previsto. A causa dell’incompetenza – e del pessimo spagnolo – di Jeff, la troupe non trova il musicista, perché si ritrova nel Paese sbagliato. “San Cristóbal” è infatti un nome fin troppo comune per molte città in America Latina e sono atterrati nella località errata. Senza il musicista, la troupe deve così inventarsi una storia da portare ai loro capi, non volendo tornare a mani vuote. Iniziano così a coinvolgere gli abitanti del posto per fingere di appartenere a un culto religioso inventato, creando un documentario costruito a tavolino. Guidati dal cinico principio del “Non lasciare mai che la verità si metta in mezzo a una buona storia”, Jeff, Elena (interpretata dalla stessa Ulman) e Justin cercando disperatamente di inventarsi uno spunto qualsiasi su cui costruire il nuovo servizio ma, sono più assorbiti da loro stessi che dalla curiosità verso ciò che li circonda, e così si lasciano sfuggire ciò che meriterebbe di essere rivelato: lo spettro dell’inquinamento, la tosse intensa, i difetti fisici e le malattie che affliggono i residenti del piccolo paese di San Cristóbal, causati dai pesticidi diffusi sui campi dagli aeroplani.

“L’idea mi è venuta per la prima volta quando ho scoperto dei glifosati [un erbicida ampiamente usato, ndr] e dei problemi di salute che provocano nel Sud del mondo”, ha spiegato Ulman in un’intervista. “Mi è rimasto in mente, specialmente per la sua importanza in Argentina e per come ha colpito la mia famiglia. Il mio modo di lavorare non è così cosciente o deliberato: tendo ad assorbire il mondo che mi circonda”. Poi nel 2020 ha finalmente visto la prima scena del film. “Lavoro così: di solito vedo visivamente le prime inquadrature”, ha raccontato in un’altra occasione. “La storia ha lentamente preso la forma di questi documentaristi che visitano l’Argentina. Ho trovato che fosse un buon veicolo per raccontarla. Non mi sentivo a mio agio nel narrarla in prima persona, come argentina, non avendoci mai vissuto. Entrare nella storia come straniera era una prospettiva che consideravo più adatta”.

In Magic Farm, l’Argentina si ritrova, all’apparenza involontariamente, a tessere una complessa tela narrativa che riflette e amplifica le proiezioni e i deliri della mentalità occidentale. La troupe di produzione americana, lungi dall’essere un mero strumento di documentazione, emerge come il vero fulcro dell’azione, trasformandosi nel personaggio principale della sua stessa, spesso comica, disfatta. La compulsione a costruire un “racconto” che prescinde le verità dei soggetti che riguarda è profondamente sintomatica della cultura contemporanea del Primo Mondo. Essa si manifesta nell’atto di proiettare i propri ideali, le proprie aspettative e, talvolta, i propri pregiudizi, sul resto del pianeta, come un filtro attraverso cui si tenta di attaccare e cementare la propria versione preconfezionata. La pellicola di Ulman diventa così una metanarrazione sulla difficoltà, se non l’impossibilità, per l’Occidente di osservare senza intervenire, di ascoltare senza interpretare. 

Già nel suo lungometraggio del 2021, El Planeta, Ulman aveva dimostrato un notevole acume nell’analizzare le maglie della classe e del consumismo. Quel film seguiva le vicende di una madre e una figlia che, con una miscela di bluff e inganni, si destreggiavano per mantenere un tenore di vita apparentemente ambizioso nella Spagna post-crisi. In Magic Farm, le strutture sociali e il concetto di identità tornano prepotentemente al centro della riflessione artistica della regista. Tuttavia, l’attenzione si concentra stavolta sulla troupe americana, lasciando che i personaggi locali più complessi e intriganti – quelli che potrebbero offrire una genuina decostruzione delle aspettative occidentali – rimangano relegati a figure marginali, al di fuori del cono di luce dell’interesse principale degli americani. È in questa sottile omissione che risiede un ulteriore, potente commento sulla miopia culturale e sulla tendenza a privilegiare il dramma auto-riferito rispetto alla realtà esterna.

Quando la narrazione diventa un atto di egemonia culturale, l’oggetto dell’attenzione viene sistematicamente privato della sua agency e della sua autentica urgenza. La tendenza a privilegiare il dramma auto-riferito degli osservatori rispetto alle verità strutturali dei soggetti osservati è il fallimento etico al cuore della cultura e dell’informazione contemporanea. La nostra tendenza all’omissione consapevole di ciò che non “fa storia” o alla distorsione volontaria del mondo suggeriscono che la difficoltà, se non l’impossibilità, per chi detiene il capitale narrativo, risiede nel separare l’atto di osservare da quello di intervenire con le proprie interpretazioni e schemi. Finché l’ansia di produrre “la storia perfetta” – il content, appunto, l’acchiappa-click – supererà l’obbligo di testimoniare il reale con onestà intellettuale, il ciclo di omissione e perpetuazione dei pregiudizi continuerà a definire la nostra percezione delle dinamiche globali, delle ingiustizie sociali ma anche di noi stessi.

Quando la narrazione si trasforma in un atto di egemonia culturale, l’oggetto dell’attenzione viene sistematicamente spogliato della sua agency e della sua autentica, vibrante urgenza. Assistiamo a un preoccupante sbilanciamento: la tendenza a privilegiare il dramma auto-riferito degli osservatori rispetto alla disarmante verità strutturale dei soggetti osservati. Questo non è solo un errore metodologico, ma il fallimento etico e morale che si annida al cuore della cultura, dell’informazione e della rappresentazione mediatica contemporanea. La nostra civiltà narrativa, ossessionata dalla “storia che funziona”, manifesta una tendenza distruttiva all’omissione consapevole di ciò che non “fa storia” – ciò che è complesso, sfumato, irrisolvibile o, semplicemente, non si adatta alla curva drammatica predefinita. Ancor più grave è la distorsione volontaria del mondo, una manipolazione che serve a confermare pregiudizi preesistenti o a generare il massimo engagement. Questa patologia del racconto suggerisce che la difficoltà, se non l’impossibilità, per chi detiene il capitale narrativo – giornalisti, registi, scrittori, influencer –, risiede nel separare l’atto di osservare da quello, quasi automatico, di intervenire con le proprie interpretazioni, le proprie griglie culturali e i propri schemi di valore. L’osservazione si confonde con l’appropriazione.

Finché l’ansia di produrre “la storia perfetta” – il content ottimizzato, l’acchiappa-click compulsivo – supererà l’obbligo fondamentale di testimoniare il reale con onestà intellettuale, il ciclo vizioso di omissione e distorsione dei pregiudizi continuerà a definire la nostra percezione. Un ciclo che non influenza solo la nostra comprensione delle dinamiche globali o delle ingiustizie sociali complesse e lontane, ma che plasma, in modo insidioso e profondo, anche la nostra percezione di noi stessi e delle nostre comunità. Ma, soprattutto, della possibilità stessa di un dialogo autentico basato sul riconoscimento reciproco.


“Magic Farm” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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