Non sono mai stato a New York, né nutro per la città quella fascinazione che spesso si riserva per uno dei luoghi più conosciuti al mondo. Sarà che la maggior parte delle persone che me ne parlano e che l’hanno visitata mi dicono tutte la stessa cosa: che fa un effetto strano, perché a forza di vederla in film, fumetti, serie tv ti sembra di conoscerla già. Probabilmente è solo uno stereotipo, come deve essere Roma per gli americani, eppure è indiscutibile che la rappresentazione cinematografica continua di un determinato luogo ci permette di sviluppare una sorta di familiarità con quel contesto, anche per il legame emotivo con determinate storie che vi vengono raccontate. Per il soft power, di certo, che il cinema ha anche a lungo rappresentato.
D’altronde, chiunque di noi, anche per gioco, saprebbe forse indicarne più di una strada senza per forza esserci stato in vacanza. Non credo esista qualcos’altro come New York nell’immaginario italiano, o europeo. Eppure, se dovessi ridurre a una sola fotografia l’essenza della città, non avrei dubbi nello scegliere la solitudine di un uomo. Il maschile non è un caso perché mi sembra che per molto tempo, al cinema, tutto ciò che un uomo poteva essere si legava indissolubilmente anche alla sua capacità di accettare o superare l’essere solo, mentre la solitudine femminile è stata elevata da disperazione a strumento di empowerment per dimostrare che, sì, anche da sole tutto sommato non si stava male. Come scrive Olivia Laing nel saggio Città sola, “la solitudine è una città, ma sul come abitarla non esistono regole”. Vale per New York, Milano, ma anche per i nostri luoghi interiori. A ricordarmelo è stato Lo spacciatore, di Paul Schrader, disponibile in streaming su MUBI nella rassegna La città che non dorme mai dedicata a New York.
John LeTour è un uomo tranquillo e solitario, ha appena superato i quarant’anni. Ha smesso di drogarsi da un paio d’anni, però beve ancora – vino, l’unica dipendenza da cui non riesce a staccarsi – e non si è mai veramente impegnato ad andare alle riunioni degli alcolisti anonimi. Fa il suo lavoro per soldi, spaccia. Ha clienti di cui si preoccupa, incluso un tipo completamente matto che si è rintanato in un appartamento con alcol e droghe. A loro, quando guadagna a sufficienza, non la vende. Quando va male, gli spacca la faccia per non farsela comprare. È un sopravvissuto, uno che nessuno avrebbe scommesso sarebbe riuscito a invecchiare così tanto. Si sente fuori posto nel lavoro di un giovane, ma non sa cos’altro fare: emerso dall’altra parte, dalla dipendenza, si sta scoprendo disorientato, incapace di immaginare un’altra vita per se stesso. Eppure deve farlo, anche perché Ann, il suo “capo”, ha deciso di abbandonare questo campo e di aprire un’azienda di cosmetici. È la terza volta che lo ripete, ma questa volta fa sul serio. Anche Robert, il suo aiutante, che prepara dosi e materiali, molla. In una delle annotazioni del suo diario, scrive: “Posso essere una brava persona. Che cosa strana da far accadere a metà della tua vita”. Anche il passato non lo lascia andare: per una coincidenza, mentre sotto al diluvio guarda le strade della città dal retro dell’auto che lo guida da un riccone all’altro per smerciare coca e qualche metanfetamina, John incontra Marianne, una ragazza con cui aveva avuto una relazione anni prima, ma che poi era uscita dal giro.
John è un uomo comune ad altre storie, ci sembra di conoscerlo: somiglia a Travis Bickle, congedato dal Vietnam e insonne cronico, perso alla guida del suo taxi; o Julian Kay, un gigolò, amato da numerose donne facoltose di mezza età per la sua prestanza fisica e per l’eleganza. Si somigliano non per fisicità o carattere, né perché sono uno il continuo della storia dell’altro, ma per un destino condiviso, mi verrebbe da dire, sempre incapaci di essere davvero parte della società, per essere la naturale evoluzione della rappresentazione di come ci si sente a stare al mondo quando vivere è un talento che non si domina appieno. Non a caso, la serie di Schrader composta da Taxi Driver (1976 – di cui scrisse la sceneggiatura, diretto da Martin Scorsese), American Gigolo (1980) e Lo spacciatore, appunto, è stata definita la trilogia di “un uomo in una stanza”, a man in a room.
Non è solo il fatto di essere lavoratori notturni ad accomunarli, ma la loro essenza: uomini impegnati in sforzi maldestri per salvarsi e riuscire a creare connessioni con gli altri, dalla violenza che subiscono dalla loro stessa vita, che sia a causa della guerra, della droga o dell’imposizione del sesso. La violenza come unico strumento di cambiamento. Ciascuno di loro svolge un servizio importante per le persone, ma una volta eseguito non conta più nulla, svanisce come assorbito dall’ambiente circostante. Sono delle non-persone, esistenti e visibili solo nel perimetro del loro compito, di ciò che le rende utili allo sguardo altrui, ai loro desideri – spostarsi, scopare, farsi, rilassarsi, non essere soli, parlare con qualcuno quando la coca inizia a bruciarti la gola.
“Il protagonista è invecchiato man mano che io sono invecchiato”, racconta Schrader in un’intervista. “Quando aveva vent’anni era arrabbiato. Quando ne aveva trenta era narcisista. E adesso che ne ha quaranta è ansioso. Penso che i tempi siano cambiati allo stesso modo”. Il soggetto del film venne rifiutato più e più volte, nonostante la presenza già confermata di Willem Dafoe e Susan Sarandon, tanto che a un certo punto, partendo da un consiglio che gli aveva dato Francis Ford Coppola – “Inizia a fare un film e alla fine le persone crederanno che lo farai davvero e lo finanzieranno” – Schrader finanziò di tasca propria le prime tre settimane di pre-produzione fin quando i soldi arrivarono. Era un progetto a cui non poteva rinunciare, anche perché parte di ciò che ha cercato di fare con il personaggio di LeTour è stato mescolare l’evoluzione personale, anche propria, con quella sociale.
D’altronde gli anni Novanta erano stati un’epoca di grandi cambiamenti. In Europa, le dimissioni di Margaret Thatcher, la dissoluzione dell’Unione sovietica, la nascita di quella che poi sarebbe stata l’Unione europea, la fine della prima Repubblica in Italia. Negli Stati Uniti, dopo dodici anni veniva eletto il primo presidente democratico, Bill Clinton, e mentre la Borsa di Wall Street continuava a segnare record su record, il liberismo reaganiano produsse una recessione tra il 1990 e il 1991: il disavanzo pubblico ammonta al 5% del PIL, la criminalità è dilagante, la fascia della povertà è in aumento. L’euforia che aveva caratterizzato gli anni Ottanta sembra star svanendo e l’ansia generata da quegli eventi penetra nel film sotto forma di una travolgente malinconia, che afferra ogni cosa. New York, poi, era sull’orlo della bancarotta ed era diventata sinonimo di pericolo: l’epidemia di crack e il numero di persone senzatetto avevano toccato l’apice e la metropolitana era diventata il luogo deputato alla criminalità. I club, le case dei clienti, le strade di una città ai cui lati continua ad ammassarsi la spazzatura hanno perso ogni fascino, ogni forza attrattiva. Tutto è in decadimento. John, Ann, Robert sono i primi a chiedersi come siano finiti a essere dei “vecchi fannulloni” in un “business da giovani”, una metafora che sembra racchiudere la nostalgia di un’intera generazione per ciò che sarebbe potuta essere, che avrebbe potuto fare.
Se il titolo italiano, Lo spacciatore, cristallizza il passato di LeTour, un passato che vuole in tutti i modi abbandonare, anche se non sa davvero come fare, quello originale, Light Sleeper, che indica una persona dal sonno leggero, mi sembra evocare al meglio l’essenza liminale della pellicola, questo rappresentare un continuo passaggio da uno stato all’altro, da un momento all’altro – dal sonno alla veglia, dalla notte alle prime luci dell’alba, dal passato al futuro, da chi eravamo e chi vorremmo essere, da una fine a un inizio – in cui tutto sta nel trovare l’equilibrio, come se fosse facile poi, quando ci si sente passeggeri della propria vita, più che al suo controllo. È anche il cognome del protagonista a rimandarci il senso di un movimento continuo, senza stabilità, senza meta: LeTour, un uomo – perché per Schrader sono sempre maschi – che si trova di passaggio nelle vite degli altri, e che non riesce a consolidare la propria, in cerca di un punto, di un momento dell’esistenza da cui le cose possano andare avanti, ripartire. Un tipo d’uomo che Schrader d’altronde conosce bene perché familiare con questo mondo di insonnia, brama e dipendenza, così come con le persone che vivono come in un bozzolo. Non a caso si è ispirato proprio alla storia del suo spacciatore personale, tornatagli in mente, durante un sogno, una notte di settembre, e a cui ha poi mescolato il suo privato.
Quella di Lo spacciatore è una storia di crescita personale, sulla capacità di imparare a guardare avanti verso ciò che la vita potrebbe diventare invece di rimuginare all’infinito su ciò che è stato. Tanto che uno dei momenti più importanti e intensi del film è proprio il suo epilogo, quando LeTour, forse avendo trovato finalmente una nuova libertà, dice “I’ve been looking forward”, reso in italiano come “Non vedevo l’ora”, ma che in lingua originale richiama letteralmente l’atto del “guardare in avanti”, anche se per tutto il tempo non ha fatto altro che stare con lo sguardo rivolto al passato. Lo spacciatore è così soprattutto un ritratto di insoddisfazione esistenziale, in cui l’assoluzione, la redenzione a quelle che pensiamo siano le nostre colpe o quelle che la società ci imputa, non è a portata di mano. Non lo è mai, in effetti, nemmeno nella realtà. Forse, come per John, c’è sempre, per ognuno, però, una possibilità di cambiare. Il costo che paghiamo per farlo, impareremo, è prima di tutto un conto con noi stessi.
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