C’è un caldo che nutre e un caldo che ti butta giù, che si insinua sottopelle esasperandoti, succhiandoti le energie, e non dà tregua, che ti stanca senza che tu faccia niente, ti fa sentire scomoda nel corpo, tesa nella mente, irrequieta. In Hot Milk, film di Rebecca Lenkiewicz disponibile su MUBI, tratto dall’omonimo romanzo di Deborah Levy finalista al Man Booker Prize (tradotto in italiano col titolo Come l’acqua che spezza la polvere), quel caldo è ovunque. Brucia nei paesaggi assolati del sud della Spagna, gli stessi che anche Hemingway ha usato per l’emblematico racconto “Colline come elefanti bianchi”, ma soprattutto nei silenzi, nei corpi che si sfiorano senza accettare di comprendersi, negli sguardi che non riescono a incontrarsi, nella paura di avvicinarsi davvero. È il caldo della confusione, del desiderio e del risentimento. Quello delle parole non dette, dei gesti interrotti, della fatica di essere sé stesse quando si è figlia di una madre che occupa tutto lo spazio.
La protagonista, Sofia Papastergiadis, ha 25 anni, è intelligente, affascinante, lucida, ma bloccata. Da anni vive in funzione della madre Rose, che soffre di una malattia misteriosa che le impedisce di camminare. Sofia ha messo in pausa la sua vita per assisterla, rimandando i propri progetti, le relazioni, le possibilità. Lo ha fatto per amore, certo. Ma anche per senso di colpa, e per abitudine. Perché, in fondo, a volte è molto più facile nascondersi dietro la necessità dell’altro che affrontare le proprie domande.
L’arrivo in Andalusia, ad Almería, dove lei e la madre Rose si recano per chiedere aiuto al dottor Gómez, un enigmatico guaritore che potrebbe riuscire a curare Rose, fa aumentare le tensioni tra madre e figlia, che si ritrovano sole con sé stesse, e con tutto quello che non si sono mai dette. Il dottor Gómez – ambiguo, affascinante, più vicino a un santone che a un medico – non cura solo Rose, ma in qualche modo spoglia entrambe, lasciando emergere una verità scomoda: che spesso il legame più tossico è quello che si chiama amore. E nel frattempo Sofia, nella luce abbacinante e rarefatta di quella città di mare e di porti, si ritrova attratta dalla magnetica Ingrid. Nel romanzo di Levy, la malattia di Rose è volutamente ambigua. Non si capisce infatti se sia reale o psicosomatica, se sia un modo per controllare la figlia o meno. Ma a ben vedere questo non importa: ciò che conta è che quel corpo paralizzato è diventato l’alibi per non crescere, da entrambe le parti. Sofia si muove intorno alla madre come un satellite, incapace di una vera autonomia. Rose, dal canto suo, continua a nutrirsi della dedizione della figlia, facendo della sua fragilità una forma di potere. In questo senso, Hot Milk è un romanzo e un film sulla dipendenza reciproca, sull’amore che imprigiona, sulla difficoltà di separarsi.
Il film, con la regia precisa e sensibile di Lenkiewicz, riesce a restituire questa tensione senza essere mai didascalico. Gli spazi sono dilatati, le inquadrature statiche, la recitazione misurata. Eppure arriva tutto. Il mare è attraente e minaccioso, l’aria è immobile, i corpi bruciano. Sofia osserva tutto con occhi sempre più distaccati, quasi anestetizzati: il dottore che manipola la madre, il padre che vive in Grecia con la nuova moglie, la giovane Ingrid con cui intreccia una relazione complicata e piena di contraddizioni. Ogni cosa le scivola addosso trasformandola. Uno degli aspetti più affascinanti di Hot Milk non a caso è proprio il modo in cui mette in scena l’identità femminile come processo frammentato, ambiguo, mai definitivo. Sofia è alla ricerca di sé, ma non sa da dove cominciare. È figlia, ma anche donna. È devota, ma anche aggressiva. Ama e odia. È passiva, ma anche desiderosa di agire. E ogni figura femminile che incontra – dalla madre a Ingrid, fino alla dottoressa cinica e risoluta che lavora insieme Gómez – diventa uno specchio in cui riconoscersi o da cui fuggire. Un modello positivo o negativo.
Il film non ci offre risposte, ma suggestioni, mostrando la fatica di abitare un corpo quando ci è stato insegnato a viverlo come una prigione o come un’arma. Mostra la solitudine che si prova quando si ama qualcuno che ci soffoca. Mostra la rabbia silenziosa che si sedimenta negli anni e nel corpo, e che a un certo punto esplode o implode. Sofia, in fondo, non è una vittima. È complice di quel rapporto malato, come spesso accade nei legami familiari troppo stretti, ma è anche pronta a cambiare, e il film si focalizza proprio su questo passaggio con delicatezza: non c’è un punto di svolta, non c’è catarsi. C’è un lento, doloroso, ma necessario processo di separazione. Visivamente, Hot Milk è un film che lavora per sottrazione. I colori sono desaturati, i dialoghi essenziali, le azioni minime. Ogni gesto è sintomo di qualcosa che non si riesce a dire. La regia di Lenkiewicz, autrice e sceneggiatrice britannica già nota per aver partecipato come attrice in Ida (vincitore dell’Oscar al miglior film straniero nel 2015, di cui ha scritto la sceneggiatura insieme al regista Pawel Pawlikowski), dimostra una sensibilità profonda per il linguaggio del non detto. Come nel romanzo di Levy, il vero centro del racconto non sono gli eventi, ma i vuoti che lasciano. È lì che si annida il trauma, ma anche la possibilità del riscatto.
L’acqua – il mare, le meduse, il latte – è una presenza continua, simbolica. È l’elemento materno per eccellenza: accoglie, avvolge, nutre. Ma è anche ciò che sfugge tra le dita, che cambia forma a seconda di ciò che la contiene, che può sommergere o avvelenare, e che pure ci è necessario per vivere. È il legame primordiale con la madre, il liquido amniotico in cui si è stati immersi prima ancora di esistere, che ci rilassa, ci fa sentire al sicuro e liberi al tempo stesso, ma è anche il luogo dove si può annegare se ci si resta un istante di troppo. L’acqua è calma e distruzione, limpidezza e mistero, vita e rischio. E come ogni relazione profonda, soprattutto quella con la madre, ha in sé questa ambivalenza: desideriamo restarci dentro, ma abbiamo bisogno di uscirne per vivere. Nell’acqua si specchia il conflitto di Sofia, il suo desiderio di protezione e la necessità di separazione. È la sostanza che la trattiene, la seduce e la mette alla prova. È ovunque, come lo è il legame con la madre: invisibile ma totalizzante, dolce ma potenzialmente tossico.
Nonostante l’età della protagonista, Hot Milk è una storia di formazione. Ma non una di quelle lineari, piene di apprendimenti e conquiste. È un percorso obliquo, fatto di scarti, regressioni, epifanie imperfette. Sofia non diventa una donna “completa”: diventa semplicemente più consapevole della propria incompletezza. Accetta il fatto che non esista un punto d’arrivo, che l’identità sia un processo in divenire, che amare qualcuno non basti a salvarlo, né a salvarsi. Alla fine, la separazione dalla madre non è nemmeno una rottura violenta, ma un distacco graduale. Un giorno, Sofia smette di portarle l’acqua. Un giorno non risponde a una chiamata. Un altro giorno si guarda allo specchio e si riconosce. Non come la figlia di, non come l’infermiera di, non come l’ombra di qualcun altro. Come se stessa, e basta.
Hot Milk è un film che si sviluppa lentamente, ma arriva forte e chiaro al punto. Parla di una madre e di una figlia, ma anche di tutte le relazioni che ci formano e ci deformano. Parla della fatica di diventare adulti quando si è cresciuti accudendo qualcuno. Parla della rabbia che ci portiamo dentro quando non ci sentiamo visti. Parla del corpo, del desiderio, del controllo, e lo fa con tutta l’onestà possibile, dolorosa e disarmante. Nel cinema come nella vita, le storie che ci rimangono più impresse non sono per forza quelle in cui succedono più cose, ma quelle in cui qualcosa cambia profondamente, in cui c’è uno spostamento, o un forte impatto. Hot Milk è una di queste. Ti lascia con una sensazione di inquietudine, di irrisolto. Ma anche con la certezza che, a volte, bastano pochi gradi di consapevolezza in più, ma fondamentali, per cambiare direzione alla nostra esistenza.
“Hot Milk” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova.
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