Una delle cose che più mi manca dell’adolescenza è l’apertura all’inaspettato. Sarà che il lavoro più che elevarci ci sfianca, o che diventando adulti – qualunque cosa significhi oggi – tendiamo a perdere quella sorta di illusione che in un modo o nell’altro ci ha portati fino a dove siamo per guadagnarne in cinismo e pigrizia. Ci piacerebbe l’inaspettato, la novità, rompere la monotonia del quotidiano, eppure percepiamo come una fatica il cercarlo, crearlo, andargli incontro. Parlo al plurale perché la sensazione è che siamo sempre di più a non sentirci protagonisti delle nostre vite, del nostro tempo, in un periodo in cui molteplici crisi hanno messo a dura prova la nostra capacità di affrontare l’ignoto.
Fatta eccezione per la nostalgia del far cazzate, l’adolescenza è un periodo che non rivivrei mai. Eppure, se penso agli ultimi giorni del liceo e all’estate seguente, compresi in quel solco tra giugno e settembre, tra prima degli esami di maturità e dopo, provo un senso di gratitudine. Non tanto per ciò che erano stati gli anni precedenti o per i risultati, quanto per ciò che poteva ancora essere, per le possibilità che – un po’ per culo, un po’ per eredità – mi si aprivano davanti in quel momento. La consapevolezza, sopra tutte, che il futuro poteva essere creato, modellato. Potevamo essere tutto e il suo contrario. Pur venendo da un piccolo paesino abruzzese e non da Beverly Hills, senza aver ancora scoperto le droghe né vissuto a pieno gli anni Novanta, ci sentivamo come i protagonisti di un romanzo, mentre con le macchine rubate ai nostri genitori guidavamo verso la costa, dalla montagna al mare, con quella libertà e impazienza di vivere, di essere qualcuno, di non sapere davvero cosa stava succedendo che allontanarsi da un contesto in cui ti senti stretto porta inevitabilmente con sé. Alla radio Lana Del Rey cantava a ruota “Summertime Sadness” e noi sopra di lei, perché anche se ci sembrava l’estate più bella della nostra vita sapevamo che inevitabilmente sarebbe stata anche quella di un nuovo inizio, con la paura che una volta salutati e partiti ognuno verso il proprio futuro magari ci saremmo persi. È un momento, credo, diverso per ogni generazione, con le sue specificità, ma al contempo universale. È la sensazione che ho avuto guardando Gasoline Rainbow, il nuovo film dei Ross Brothers – Bill e Turner –, presentato nella sezione Orizzonti della scorsa Mostra internazionale del cinema di Venezia e disponibile da oggi in streaming su MUBI.
“A volte, quando guardo fuori di notte, vedo una luce sopra le colline e mi chiedo come sia… essere lì,” dice una voce intrisa di malinconia durante i primi secondi della pellicola. Vuole sapere se è l’unico a essere quello che è: uno “strano”, come dicono gli altri. “Voglio uscire,” continua. “Voglio essere me stesso, voglio essere accettato. Voglio essere amato per quello che sono”. Nella storia di cinque adolescenti che decidono di partire all’avventura attraverso gli Stati Uniti, c’è infatti sì la narrazione specifica di una generazione, la Z, ma anche un racconto che attraversa il tempo per parlare a tutti e tutte. Makai, Micah, Nathaly, Nichole e Tony hanno appena finito il liceo. Non sanno ancora cosa faranno dopo, probabilmente si troveranno un lavoro o cambieranno città. Vivono nella provincia sperduta dell’Oregon, dove si sentono fuori posto, degli outsider. La costa, l’Oceano Pacifico, distano oltre cinquecento chilometri, ma è proprio lì che vogliono arrivare, prendendo il camper del padre di Nat. C’è una festa, dicono, la festa alla fine del mondo, e vogliono assolutamente vederla. Di ciò che si lasciano dietro vediamo solo i tesserini di identificazione della scuola. Sono un gruppo di persone che si sono scelte tra loro, che pur nell’età acerba dei loro sentimenti sanno darsi e riconoscersi la solidità di una famiglia alternativa a quella biologica, a cui sono legati da una duplice emozione: la mancanza di essere lontani da casa e la consapevolezza che mai sapranno vederli per chi sono realmente, come invece sanno fare loro.
Gasoline Rainbow contiene tutti gli stilemi del genere on the road – le canzoni, le feste attorno ai falò, la brezza che sporgendosi dal finestrino ti arriva in piena faccia – ma si sposta anche in nuovi territori. “Di fronte al precipizio di un futuro sconosciuto, abbiamo immaginato il cast di Streetwise mentre percorreva le strade selvagge di Easy Rider: una gioventù irrequieta guidata dallo spirito di esplorazione, libera e spensierata, sparata da un cannone verso la nuova frontiera. Un Wizard of Oz punk rock,” racconta il duo di cineasti americani. Quando un incidente mette il furgone fuori uso, il gruppo viene lasciato ad attraversare il deserto a piedi, cercando con ogni mezzo possibile una via da seguire e affidandosi agli sconosciuti incontrati lungo la strada. Autostoppisti punk pieni di piercing che gli insegnano come salire su un treno merci per scroccare un passaggio in cambio di alcune porzioni di cibo avanzato; rocker di mezza età che offrono un divano su cui dormire, un giro in barca; il cugino di Michea, Noè, che pur essendo ormai adulto li tratta alla pari, elogiandone il modo in cui si trattano a vicenda. In tutto il film, infatti, ci sono una dolcezza insolita e la sicurezza che nulla di male potrà mai accadergli che emergono dal modo costante in cui Makai, Micah, Nathaly, Nichole e Tony si prendono cura l’uno dell’altro, dal prendere decisioni come gruppo, mai singolarmente, e dall’audacia con cui decidono se fidarsi di qualcuno semplicemente chiedendogli “Sei preso bene?”.
Sebbene sia il primo lungometraggio di finzione dei Ross Brothers, il modo in cui Gasoline Rainbow è raccontato mantiene la loro cifra stilistica, già sperimentata con il loro lavoro più conosciuto, Bloody Nose, Empty Pockets, con cui avevano iniziato a creare una forma ibrida tra fiction e documentario. Non è solo l’alternarsi di una camera professionale e una più amatoriale, in prima persona, come se i personaggi filmassero ciò che passa loro accanto durante il viaggio, ma sono anche alcuni elementi che hanno a che fare con il modo in cui la pellicola è stata realizzata: tutti e cinque gli adolescenti sono attori e attrici non professionisti, alle prime armi, che hanno nella vita reale gli stessi esatti nomi dei loro personaggi, e che in molte scene sono stati chiamati a improvvisare, seguendo più una direzione narrativa generale che un copione esatto.
I ritratti dei cinque si dipanano lentamente, costruendo l’immagine di un’America ansiosa e instabile, un ritratto sufficientemente estendibile anche all’Europa. Le conversazioni toccano tematiche importanti come le deportazioni, la brutalità della polizia contro le persone afrodiscendenti, l’emergenza climatica. Scene mai forzate, dove i discorsi più impegnativi si intrecciano a riflessioni personali in piena naturalezza, e si alternano a conversazioni imbarazzanti sul nulla o piene di momenti in cui sembrano quasi preoccupati di dover riempire il silenzio. In questo senso il film riesce a non essere una caricatura della generazione nata dopo il Duemila né un manifesto di quello che i giovani dovrebbero essere secondo gli ideali di chi li ha preceduti, ma un racconto corale e disomogeneo – esattamente come siamo tra amici nella realtà, soprattutto da adolescenti –, in cui la storia di Nicole, Tony o Nat non sono mai soltanto la loro singola storia. Ciò a cui assistiamo è la scoperta di cosa significhi vivere alla fine del mondo, dell’imparare a trovare un equilibrio anche tra la perdita e l’incertezza. Non è un caso che l’idea della pellicola sia venuta ai Ross Brothers durante la pandemia di covid, in un momento storico di isolamento e confini. Un periodo dove al desiderio di libertà e movimento si sono affiancati i valori della cura e della comunità, attraverso cui riscoprire quali sono le cose autentiche e quelle davvero importanti.
C’è una scena, in cui una delle due ragazze inizia a fare discorsi ipotetici sulle strade che potrebbe prendere la loro vita, o che avrebbero potuto intraprendere prima, dove l’altra risponde “Se i ‘se’ fossero canne saremmo tutti stonati”. Mi sembra una frase capace di racchiudere perfettamente il senso del film, ma anche di quello che, forse, sento di aver più abbandonato degli anni dell’adolescenza. La libertà di non ragionare secondo ciò che sarebbe potuto essere, ma di ciò che potrebbe essere ancora. Imparare a stare nel presente, direbbe l’app di meditazione scaricata sul telefono. Anche se forse nemmeno a diciassette, diciotto anni, lo si saprebbe davvero fare, perché si vive un tempo che è più che mai presente e futuro nello stesso momento, in continuo divenire. “Che faremo ora?”. “Non lo so”. Non importa dove balleremo, come sarà la festa. Ciò che conta è solo avere l’un l’altro, ancora adesso, dopo tutti questi anni.
“Gasoline Rainbow” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per ottenere 30 giorni di prova gratuita.
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