“L’Empire” ci ricorda che nella lotta tra bene e male i vincitori esistono solo nella fantascienza - THE VISION

Nel cartone animato Leone il cane fifone in onda su Cartoon Network all’inizio degli anni Duemila, tutti gli avvenimenti più bizzarri hanno luogo nella campagna sperduta di una località chiamata Altrove. Leone, un piccolo cane rosa che vive con i suoi proprietari, si trova a dover affrontare mostri e alieni di ogni tipo che gli piombano addosso come se tutti i fenomeni paranormali si concentrassero sulla fattoria in cui vive, tra le balle di fieno e il nulla. In una divertente parodia del genere sci-fi, sulla scia di capolavori come The Twilight Zone, lo schema narrativo dentro cui si ritrova il protagonista è sempre lo stesso: salvare la propria famiglia incosciente e poco attenta ai cataclismi che si verificano nel paese di Altrove. Durante tutti gli episodi di Courage the Cowardly Dog, questo il titolo originario della piccola serie cult, noi spettatori non possiamo che chiederci come sia possibile che tra tutti i posti a disposizione sul pianeta terra, gli UFO e le creature fantastiche che perseguitano Leone decidano di palesarsi tutte in mezzo al nulla. Ed è un po’ la stessa domanda che siamo portati a farci guardando L’Empire, film del regista francese Bruno Dumont, vincitore del premio della giuria all’ultimo Festival internazionale del cinema di Berlino e disponibile in streaming su MUBI.

Non siamo nel villaggio di Altrove ma in un paesino sperduto tra la campagna e le coste del nord della Francia, non c’è un cane rosa che cerca di fermare le forze oscure del male ma la polizia francese che si trova nel mezzo di alcuni strani crimini commessi con spade laser, bambini predestinati a distruggere il mondo e astronavi spaziali. Il contrasto tra l’amenità del set di L’Empire e i fatti che si susseguono nella trama del film è il primo vero scontro che salta agli occhi, in un film che ruota attorno al duello epico tra forze opposte. Spiagge selvagge, fattorie, campi, mucche, cavalli, contadini, bagnanti ignari: lo sfondo della vicenda che il regista, già docente di filosofia, avvezzo al racconto di temi complessi, sceglie di dare al suo film ha una forte valenza simbolica. Lontano dalle grandi città e dalla modernità, in una dimensione sospesa tra passato e futuro, si combatte la guerra tra bene e male, in un’atmosfera che ricorda molto quella della di Guerre stellari, la saga per eccellenza del cinema fantascientifico americano. Solo che, a differenza di Guerre stellari, il set arcaico e arretrato, che rimanda a un immaginario da feudalesimo più che da epoca industriale, rende lo scontro tra le due forze contrapposte ridicolo, depotenziando qualsiasi intento epico e glorioso che sta alla base del cinema fantascientifico come quello di George Lucas.

Che L’Empire sia una grande parodia, infatti, non c’è dubbio, sebbene non abbia niente di demenziale, ma al massimo molto di grottesco e ironico. Per riassumere l’atmosfera del film, potremmo dire che Dumont ha messo in scena ciò che sarebbe successo se Pier Paolo Pasolini avesse diretto un episodio di Star Wars: attori non professionisti, ambientazione rurale, navicelle spaziali e spade laser. In mezzo, altri cult della comicità surreale sci-fi come Guida Galattica per Autostoppisti o Balle spaziali di Mel Brooks, il tutto mescolato a una puntata di Futurama o di Rick e Morty. L’Empire, così come altri film di Dumont, non ultimo France, del 2021, dove Lea Seydoux interpreta una giornalista inviata di guerra spietatamente determinata che, tre le altre cose, mette in scena i suoi stessi servizi pur di fare clamore, appartiene a quel genere di racconti che se in un primo momento possono sembrare tanto assurdi da essere privi di senso, visti nell’insieme hanno l’assetto di un grande affresco in cui succede tutto in contemporanea.

La trama de L’Empire, infatti, è molto lineare: nel villaggio sperduto e assolato in cui agiscono i protagonisti, vive un bambino che scopriamo essere Le Margat, ossia la personificazione del male assoluto. Biondo, paffuto, sorridente, il bambino è tutt’altro che malefico, almeno nel suo aspetto superficiale che nasconde la natura perfida, o così ci viene raccontato. Così come succede nelle saghe in stile Star Wars, il bene e il male si scontrano attraverso la salvezza o l’eliminazione dell’eletto, che si tratti di Harry Potter o di Anakin Skywalker. Attorno al piccolo Margat, troviamo i personaggi che compongono l’azione piatta e volutamente circoscritta del film: in una sorta di ossimoro cinematografico, tanto sono epiche le missioni dei protagonisti, quanto umane, rupestri e prive di magnificenza sono le loro azioni nel mondo terrestre, che li vede intenti a svolgere compiti elementari come andare in spiaggia, prendere il sole, guidare con macchine scassate nel nulla. L’eroina che ha il compito di distruggere il Margat, interpretata dall’attrice Anamaria Vartolomei, è una Tomb Raider intergalattica, vestita con anfibi, pantaloncini e cintura mimetica, mentre il padre del piccolo essere maligno è un operaio di una officina che ha tutto l’aspetto di uno zotico di campagna, maleducato, molesto e inopportuno. Nel frattempo, mentre la polizia francese indaga goffamente sulla decapitazione della madre del Margat avvenuta con una spada laser, il male e il bene, proiettati nello spazio, osservano le vicende del piccolo e insignificante pianeta Terra.

Non c’è niente di complesso nello svolgimento di questa trama, se non il classico – parodiato e ridicolizzato – schema di opposizione tra forze contrastanti, tipiche del cinema manicheista e schematico americano, vero bersaglio della caricatura di Dumont. Il male, vestito da giullare e rappresentato come un aristocratico che si intrattiene in scenari sontuosi (tra le ambientazioni c’è anche la Reggia di Caserta), parla in un francese forbito, mentre il bene, che si manifesta in una chiesa gotica, è una donna che parla al contrario, emettendo suoni incomprensibili. Visti uno per volta, tutti questi personaggi diventano così parte di uno schema di rappresentazione orizzontale, dove ciascuno incarna una forma allegorica o una rivisitazione ironica di figure simbolo del cinema fantascientifico, senza contribuire all’azione della trama. Presi ciascuno nella sua unicità, nessuno di loro ha davvero senso, soprattutto nelle configurazioni terrestri in cui tutto sembrano tranne che veri eroi di qualche saga epica; è nella totalità della rappresentazione che, proprio come in un dipinto in cui nessuno si muove ma tutti rappresentano qualcosa anche nella stasi, Dumont assegna il senso alle sue creature bizzarre.

Tanto paradossale quanto prevedibile nella sua schematicità classica, questa lotta tra bene e male ha trovato nel cinema la fortuna di essere riproducibile e comprensibile a tutti, senza troppi sforzi, da risolversi non tanto nel duello finale, con buchi neri e cataclismi che si riversano sulla terra nel momento in cui le due forze si confrontano. Il vero interrogativo filosofico, infatti, lo lasciano Line e Jony, l’eroina al servizio del bene vestita da Lara Croft e il rozzo padre del maligno, nel momento in cui si trovano ad avere una serie di rapporti sessuali nel mezzo alla campagna francese. Non c’è bene e non c’è male nel modo in cui si incontrano, nonostante siano l’uno l’opposto dell’altra, ma solo piacere, un piacere che non deriva dalla giustizia o dalla predominazione, come vorrebbero le forze che li comandano, ma dal semplice fatto di volerlo provare.

Spogliato delle sue caratteristiche etiche e morali, il sesso è solo un atto di incontro tra due creature dell’iperspazio che trovano nella forma umana attrazione e godimento, un modo per sospendere qualsiasi forma di contrasto, senza però risolverlo, ed è anche – in un certo senso – il modo in cui il pianeta Terra nella sua inutilità e insignificanza, se paragonato all’immensità dell’universo, fa scacco matto alla potenza superiore delle forze esterne. Semplice, brutale, elementare, selvaggio, proprio come l’ambientazione di L’Empire, che appare così rurale e bucolico, lontano dalle sovrastrutture della civiltà avanzata, il sesso fa da ponte simbolico, senza lasciare che a vincere sia il bene o il male, perché nella sua istintività inspiegabile – e volendo anche nella sua bassezza – lascia che i protagonisti finalmente agiscano con la loro stessa volontà e non pilotati dall’alto. Ed è forse questo il messaggio finale del film di Dumont, la risposta alla domanda sul perché tra tutti i posti in cui le forze aliene che governano la galassia si incontrino in quell’angolo di niente, così spoglio e primario, un po’ come il villaggio di Altrove. Quell’angolo di niente, dove l’istinto trova spazio, è il posto in cui accettare che nella lotta tra bene e male i vincitori ci sono solo nei finali di film come Star Wars.


“L’Empire” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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