A sedici anni spesso mi chiedevo come mi sarei sentita rileggendo o rivedendo una di quelle opere che sentivo essere diventate parte di ciò che ero e sarei diventata, probabilmente reminescente di quel passaggio di Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino, in cui il Terzo lettore dice: “Anch’io sento il bisogno di rileggere i libri che ho già letto, ma ad ogni rilettura mi sembra di leggere per la prima volta un libro nuovo. Sarò io che continuo a cambiare e vedo cose di cui prima non m’ero accorto? Oppure la lettura è una costruzione che prende forma mettendo insieme un gran numero di variabili e non può ripetersi due volte secondo lo stesso disegno? Ogni volta che cerco di rivivere l’emozione di una lettura precedente, ricavo impressioni diverse e inattese, e non ritrovo quelle di prima. […] La conclusione a cui sono arrivato è che la lettura è un’operazione senza oggetto; o che il suo vero oggetto è se stessa. Il libro è un supporto accessorio o addirittura un pretesto”. In effetti, qualsiasi visione, lettura è uno strumento che agisce su noi stessi e sulla nostra percezione, cambiando a seconda delle domande che gli rivolgiamo e cambiandoci a sua volte: per essere attivato ha bisogno di uno spettatore o di un lettore. Il “testo” è uno strumento multiforme, cangiante. Così, non sapevo come mi sarei sentita a rivedere The Elephant Man, il film del 1980 affidato all’allora ancora giovane David Lynch, che consacrò Anthony Hopkins – che interpreta il Dottor Frederick Treves – e John Hurt – nei panni invece dell’Uomo Elefante – e che vede nel suo cast anche la grande Anne Bancroft, all’ora moglie di Mel Brooks che produsse il film.
The Elephant Man, disponibile in streaming su MUBI, si ispira liberamente alla storia di un uomo realmente vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, Joseph Merrick, narrata nel libro di memorie mediche dello stesso dottor Frederick Treves, The Elephant Man and Other Reminiscences, e dalle riflessioni contenute nel saggio del 1971 The Elephant Man: A Study in Human Dignity del grande antropologo inglese Ashley Montagu. Merrick, un uomo colpito da gravissime deformità, come è stato dimostrato nel 2003 in seguito a studi sul suo cadavere tuttora conservato, soffriva di quella che venne poi definita qualche anno dopo il film di Lynch sindrome di Proteo, una malattia congenita estremamente rara che causa una crescita incontrollata di pelle, ossa e tessuti vari, tra cui vasi sanguigni e linfatici, identificata per la prima volta dal dottor Michael Cohen nel 1979, che può assumere manifestazioni diverse da individuo a individuo, ma che nel caso di Merrick era particolarmente severa e invalidante.
Il film inizia nel 1884, quando Merrick ha ventidue anni ed è rinchiuso da un personaggio abietto in una topaia di Londra, sfruttato come fenomeno da baraccone e picchiato a sangue. Terrorizzato si finge demente, annulla quasi tutte le sue funzioni cognitive, calandosi nei panni di un animale, indifeso, ammaestrabile, considerato stupido, inferiore, senz’anima. Per sopportare le violenze, come succede a molte donne e bambini sopravvissute ad abusi, si dissocia, si fa oggetto. Finché non viene trovato e tratto in salvo dal Dottor Treves, che se inizialmente sembra il tipico medico senza scrupoli disposto a qualsiasi cosa per l’evoluzione della ricerca, e della sua fama, in realtà si dimostra ben presto tutt’altro, un uomo profondamente giusto, sensibile, illuminato, capace di usare le sue conoscenze della fisiologia umana non tanto per curare – Merrick è inguaribile – ma per “curarsi” del prossimo, averne cura, averlo a cuore.
Tutto il film si sviluppa intorno al pregiudizio morale – tuttora non del tutto scardinato, anche se sono stati fatti enormi passi negli ultimi decenni – legato alla non conformità, alla disarmonia, alla deformità, alla malattia, come se fosse una caratteristica inversamente proporzionale all’intelligenza e alla bontà. Lo sguardo analitico-scientifico, invece, permette a Treves di vedere Merrick per ciò che è realmente: non certo un mostro, un freak, ma un essere umano, peraltro estremamente sensibile, e intelligente, che ha resistito a un ambiente profondamente svantaggiato, alla povertà, all’ignoranza, senza farsi contaminare da essa.
John per gli altri esseri umani incarna orrore e compassione, repulsione e pena, eppure grazie alla protezione di Treves – che per primo lo considera come un essere umano al di là del suo aspetto – sentendosi finalmente accettato e al sicuro, fiorisce, inizia a conoscere persone, anche importanti, e – anche nella realtà – a scrivere poesie. In fondo a ben pensarci il poeta è la figura più vicina al mostro. Proprio perché si fa corpo di uno sguardo altro, subendone tutte le conseguenze sociali. David Lynch, all’epoca alla sua seconda prova cinematografica, attardando queste tematiche con totale padronanza e consapevolezza dà già da prova di aver ben chiari i punti fondamentali della sua poetica profondamente legata alla facoltà del linguaggio (spesso anche inconscio) e del suo fratello sguardo, inteso come abilità cognitiva – e a volte fallace – della mente, portando lo spettatore all’interno della cornice apparentemente distante della londra vittoriana, ma facendo già emergere nella sua opera quegli elementi ritmici e compositivi che trasformano la narrazione in qualcosa di ben diverso dal genere di film storico in bianco e nero. Sfruttando anzi questa ambientazione per compiere un viaggio nelle nostre emozioni più oscure, a metà tra vergogna e coraggio, paura ed empatia.
Impossibile non pensare a Freaks, il film del 1932 di Tod Browning, tassello fondamentale della storia del cinema, anche se questo ha un taglio grottesco, disturbante e horror. In Freaks, che vedeva nel suo cast attori con varie disabilità o condizioni genetiche ed era stato pensato per salvare la Metro-Goldwyn-Mayer, lo sguardo del regista appare amaro e caustico, conscio che la mostruosità si annidi spesso dietro ciò che viene considerato normale. Così, le emozioni dei “freaks”, all’inizio degli anni Trenta, vengono trattate al pari di quelle di chiunque altro. Allo stesso modo Lynch, attraverso il personaggio del dottor Treves, dà dignità all’esistenza di Merrick, riconoscendo il valore della sua esistenza, per quanto terribilmente martoriata, proprio perché Merrick, a suo modo, scopre cosa significhi vivere una vita umana, meritevole di affetto, rispetto, attenzione da parte degli altri individui, mentre prima era stato sempre e solo guardato con orrore e disgusto, come se non valesse nulla. La vera mostruosità, come ci fa sentire il film, sta nella crudeltà e nell’ignoranza degli esseri umani “normali”, guidati dalle apparenze e dall’incapacità di andare oltre alle proprie credenze – erronee – e ai propri pregiudizi.
L’abilità di Lynch sta nel farci empatizzare nel giro di poche scene con Merrick, guadagnando in pochi minuti la distanza – di sguardo ed esperienza – apparentemente enorme e incolmabile che inizialmente percepiamo dividerci da lui. Se all’inizio, come il dottor Treves, abbiamo paura di ciò che potremmo vedere, di trovarci al cospetto di così tanta sofferenza, uno sguardo alla volta addomestichiamo questa pulsione che ci porta a scappare da ciò che ci risulta assurdo, troppo enorme da contenere, immaginare. Sentiamo così che ciascuno di noi, nel suo piccolo, ha vissuto in maggior o minor misura la stessa sofferenza di Merrick, o almeno conosce bene quella stessa paura. La paura di essere diverso, di non essere accettato dal gruppo, la paura di non essere abbastanza forte per proteggersi, di essere inerme, di essere in minoranza, e di non poter “guarire”, di non poter cambiare. Questa è una ferita originaria dell’animo umano. Ed è nel riconoscerla che possiamo sanarla, ovvero evitando di compiere a nostra volta quei comportamenti che la tramandano.
Lynch usa il bianco e nero anche per esplorare il tema della dicotomia, fondamentale per la cultura vittoriana. In particolare per mettere in risalto quella tra la pulsione istintiva a lasciare indietro i più deboli del gruppo, e la nostra intelligenza emotiva, quell’empatia che ci porta a proteggerli, aiutarli, a farcene carico, anche senza nessun tornaconto, perché semplicemente è giusto così. È nell’esercizio di questa facoltà che le dicotomie, gli estremi dei tensori secondo cui ci muoviamo, si ammorbidiscono, si mescolano, come in una scala di grigi, ottenendo una pasta più morbida, meno aggressiva. Così nel film ci sono momenti di puro terrore, come quando Merrick viene aggredito da una folla di curiosi; ma ci sono anche scene di grande tenerezza, come quando, rimasto solo nella sua cameretta all’ospedale, recita con tutto il coraggio che ha in corpo, e che si traduce nella sua voce, il Salmo 23 della Bibbia, mostrando di averlo imparato perfettamente a memoria e di essere un lettore brillante e appassionato, o costruisce praticamente con una sola mano il modellino della cattedrale di San Filippo, di cui vede – ancora una volta il tema della speranza, e della fede – il campanile, il resto se lo deve immaginare.
Sotto strati di trucco prostetico – ottenuto grazie a calchi esatti del cadavere di Merrick – Hurt ci offre un’interpretazione incredibile. I suoi occhi, pieni di dolore e speranza, diventano il fulcro della storia, uguali a quelli di un animale fedele e ferito. Magnetici, impossibili da non amare. Questi occhi canini ci mostrano il mondo umano in tutta la sua orrenda brutalità, eppure capace di alcuni atti di pietà nei suoi confronti. Ma anche in un mondo fatto di nette separazioni è possibile sfruttare la propria forza per mantenersi al centro, contenendo tutto, invece che lasciarci sospingere, come sfere impazzite, da una parte e dall’altra. Le nostre azioni possono cambiare il mondo, per questo è così importante esercitare il nostro sguardo su esso, cosa che fa sempre il cinema, e in particolare questo film. Chi ha la forza per opporsi al fluire delle cose – per una serie di privilegi ereditati – ha la responsabilità etica di usarla.
Si scivola così in un mondo fatto di violenza, ma al tempo stesso in un profondo sentimento di pace, dato dall’affetto incondizionato tra il medico – che in realtà è sollevato dalla sua funzione, non potendo guarire in alcun modo l’ammalato, e il paziente, inteso proprio come entità ontologicamente definita dalla sopportazione. Un legame di profonda e onesta amicizia. Merrick – moderno Quasimodo – sopporta la sua condizione invalidante, sopporta le urla di terrore che suscita negli altri, le percosse e gli insulti del suo padrone, il dolore, il disgusto della maggior parte delle donne. E Treves cerca di rendergli tutto questo un po’ meno doloroso. Solo la famosa attrice Madge Kendall sa perfettamente come andare oltre la sua apparenza, toccandone in maniera estremamente intima la mente, quasi che il corpo fosse appunto solo un involucro, una maschera, qualcosa di cui ci si può sempre spogliare. “Lei non è un mostro […], lei è Romeo”, gli dice alla fine del loro incontro, mostrando tutta la potenza catartica di ciò che significa fare teatro, ma anche cinema, insomma, la potenza liberatoria e in questo senso salvifica della narrazione, qualsiasi forma essa assuma.
Tutti noi vorremmo poter esistere senza la costante paura di doverci conformare a delle norme violente, brutali, spesso grette e parziali, che soffocano la nostra identità e ci fanno vivere nella paura e nella scarsità. Solo spezzando questo incantesimo possiamo percepire quello stato di grazia e profonda stabilità che ci rimanda la storia dell’Uomo Elefante, letta con gli occhi di uno dei più grandi registi del mondo. The Elephant Man, ipnotico e straziante, schivando le retoriche che vogliono nelle persone disabili degli esempi per gli altri, ci mostra come la vera grandezza dell’essere umano in ultima analisi stia nella capacità di amare, nonostante tutto. È da qui che emerge il profondo sentimento di grazia della pellicola, come alla fine di un viaggio faticoso, di una maratona estenuante in cui nessuno fa il tifo per noi. Merrick alla fine trova la pace, sa che fingere per una volta di essere come tutti gli altri gli sarà letale, ma nonostante tutto l’affetto delle persone che hanno scelto di stargli vicino è arrivato allo stremo, smette di lottare con la vita, e si addormenta felice, sapendo di essere stato amato, almeno una volta, ricordandoci che tutti noi desideriamo che il mostro che ci portiamo dentro possa essere accettato e amato.
“The Elephant Man” è disponibile in streaming su MUBI Italia. Iscriviti qui per avere 30 giorni di prova gratuita.
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