Oggi consideriamo “sano” essere belli e impermeabili al dolore, come in “Crimes of the future” - THE VISION

Qualche mese fa la casa farmaceutica svedese Apotek Hjärtat è stata costretta a introdurre delle restrizioni sui prodotti antietà, imponendo un limite anagrafico al loro acquisto. Un po’ come per gli alcolici, il fumo o la pornografia, chi ha quindici anni o meno e vive in Svezia ora non potrà più acquistare cosmetica per la cura della pelle contenente esfolianti AHA e BHA (usati spesso in caso di acne), vitamina A (retinoidi) e vitamina C, a meno che non abbia l’autorizzazione di un genitore o un certificato che attesta una condizione medica rilevante. Questa decisione – che mi è sembrata eccessiva solo finché non ho pensato alle decine di creme ringiovanenti o presunte tali che anche io ho in wishlist – servirebbe ad arginare il fenomeno delle cosiddette “Sephora Kids”, che rappresenta la deriva più estrema dell’ossessione per la skincare che ha preso piede negli ultimi anni tra le ragazze ancora sotto i trenta, nel tentativo di evitare a queste clienti molto giovani, spesso addirittura preadolescenti, il rischio di subire gli effetti collaterali di prodotti pensati per donne che hanno pelli con una quarantina d’anni più della loro.

Trovarsi di fronte a scenari reali tanto eccezionali da sembrare “presi da un film” è già di per sé qualcosa che non accade di consueto. Sono ancor più rari, però, i casi in cui mi capita di associare naturalmente un avvenimento o una notizia a un determinato film di un preciso regista, quasi fosse il prolungamento di una sceneggiatura che già conosco e che, non avendo trovato spazio sul set, ha dovuto per forza di cose realizzarsi fuori, nella vita vera. In questo caso particolare, l’immagine di sciami di ragazzine che prendono d’assalto i beauty store, svuotando gli scaffali davanti a commesse sull’orlo di una crisi di nervi, potrebbe benissimo essere una potenziale scena mai girata di Crimes of the future, del 1970, diretto da David Cronenberg, dove il regista canadese immagina un futuro ipotetico – nella narrazione si tratta del 1997 – in cui un’epidemia causata proprio dall’abuso di prodotti cosmetici per la pelle ha finito per uccidere tutte le donne sessualmente mature, lasciando dietro di sé un mondo di soli uomini adulti e bambine. Come se la realtà, a più di cinquant’anni di distanza, offrisse una sorta di spin off del film in cui compaiono gli stessi personaggi ipocondriaci, schiavi di un istinto di conservazione ormai guasto, che li porta a dedicare un’attenzione spasmodica alla salute del loro corpo, ma anche alla sua bellezza e prestanza, nell’illusione di poter allontanare, così facendo, il profondo malessere emotivo che li affligge.

L’attualità di Crimes of the future titolo che Cronenberg riprenderà nel 2022 per battezzare una delle sue opere più recenti, sottolineando una continuità esclusivamente tematica, non narrativa, tra i due film – sta proprio nella descrizione di un’umanità ossessionata dallo stato del proprio corpo, che per essere definito “sano” deve risultare anche bello, vigoroso, apparentemente impermeabile al dolore e al cambiamento. Proprio questa esasperazione dell’ipocondria, in entrambi i film, illude i personaggi di poter in un certo senso dimenticare le condizioni emotive disperate in cui l’umanità si trova, mentre tenta di sopravvivere in un mondo al collasso. Nei futuri apocalittici immaginati dal regista una delle grandi priorità dell’essere umano è infatti proprio quella di metabolizzare l’opprimente sentimento d’epilogo che invade la realtà attorno a lui, passando immancabilmente per la modificazione – quando non per il deturpamento – del corpo, nella speranza che lo spostamento delle nevrosi che lo assillano dall’universo mentale a quello fisico possa renderle un po’ più sopportabili.

Così come Saul, protagonista del film del 2022 interpretato da Viggo Mortensen, scopre di poter espellere “materialmente” i suoi dolori interiori attraverso la generazione di organi mutanti, che si fa poi rimuovere durante performance avanguardistiche a metà tra l’arte e la chirurgia, nel primo Crimes of the future si assiste a una vera e propria galleria di interventi che manipolano i processi fisiologici nel tentativo di alleviare degli scompensi psicologici, di sedare l’angoscia che i personaggi provano di fronte a un mondo che non tornerà mai più come lo conoscevano. A partire dalla volontà di rallentare l’invecchiamento attraverso la cosmetica sperimentale che è costato la vita a tutte le donne, ognuno dei gruppi di personaggi che compaiono nel film ha elaborato la sua strategia di adattamento, il suo stratagemma per fregare – o almeno provare a rallentare – l’estinzione, e la sensazione è che Cronenberg si sia divertito a inventarne di sempre più assurdi e perversi: ci sono i collezionisti di organi deformi, che ne gestiscono la compravendita, i feticisti che cercano un rimpiazzo agli organi sessuali femminili tra gli oggetti più diversi, gli scienziati che sperimentano come innescare nelle bambine una pubertà precoce, e infine i disillusi, che tentano addirittura di regredire nella scala evolutiva sviluppando tentacoli e pinne per tornare a vivere nel brodo primordiale.

Il narratore di questa umanità lacerata è Adrian Tripod – interpretato da Ronald Mlodzik, che compare in altri film di Cronenberg come Stereo (1969) o Il demone sotto la pelle (1975) – e la voce del protagonista è l’unica che si sente nel corso del film, del tutto privo di colonna sonora. Le parole di Tripod bucano un silenzio che veicola un enorme senso di vuoto, ma senza riempirlo del tutto, perché si limitano a descrivere con tono monocorde ciò che il protagonista vede insieme allo spettatore, come se stesse prendendo appunti per una relazione di laboratorio, e non assistendo alla fine del genere umano. Il suo ruolo, infatti, è molto simile a quello che il regista affida ai chirurghi gemelli protagonisti di Inseparabili: Tripod incarna lo sguardo di una scienza che non si limita all’oggettività, ma sconfina nella spietatezza, mettendo da parte ogni tipo di compassione umana per procedere nella scoperta della nostra natura fino ai suoi aspetti più celati e disturbanti, che inevitabilmente emergono in una situazione così estrema. Per restituire questa forma di distacco assoluto che rende il protagonista un personaggio quasi dis-umano Cronenberg decide di trasformare Mlodzik in una sorta di trasposizione filmica dell’uomo senza qualità descritto dallo scrittore austriaco Robert Musil, accentuando la bellezza androgina dell’attore e allenandolo all’impassibilità pressoché totale, così da spogliare da ogni inflessione emotiva il tono della sua voce, le espressioni del viso, i movimenti in scena.

Tripod vaga alla ricerca del suo maestro, il dermatologo Antoine Rouge, considerato il principale responsabile della diffusione della malattia che ha quasi del tutto eliminato il genere femminile, percorrendo spazi simili a zone industriali abbandonate, dove edifici svuotati, ormai privi di scopo, sembrano essere stati riconvertiti a giostre di un luna park, percorsi a ostacoli che i personaggi attraversano quasi per gioco, senza l’intenzione di raggiungere alcun luogo. Uno degli aspetti più inquietanti del film è infatti l’apparente tranquillità di tutte le figure che Tripod incontra, che hanno imparato ad accontentarsi di un corpo su cui esorcizzare la loro angoscia esistenziale tramite diverse forme di autolesionismo, comprimendo invece ogni altra espressione di sofferenza o terrore fino ad annullarla. L’atmosfera che permea il film è quella di un’attesa indefinita e senza speranza, in cui il femminile perduto, la salvezza del genere umano, la risoluzione del dramma interiore vissuto dai personaggi rimangono un miraggio, un desiderio irraggiungibile che questi si stanno esercitando a rimuovere – come spesso accade anche oggi, con tutti i desideri e le pulsioni su cui la nostra società pone uno stigma.

Essendo Crimes of the future il secondo film diretto da Cronenberg in ordine cronologico è interessante notare come la sua ricerca sulla sessualità sia ancora in parte legata alla dicotomia maschile-femminile, che in seguito verrà del tutto abbandonata per fare spazio all’incontro e alla fusione della fisicità umana con corpi non umani – quelli mostruosi in La Mosca, o quelli tecnologici in Videodrome e Crash – e quindi all’esplorazione di geometrie erotiche anomale, impossibili, che sono quelle che interessano maggiormente al regista. Già in quest’opera, però, si intuisce la volontà di Cronenberg di andare oltre il senso comune, riscrivendo di volta in volta, di film in film, i principi fondanti di un personalissimo manuale a metà tra l’anatomia e la psicanalisi, con cui il regista tenta di espandere la percezione che abbiamo di noi stessi, collocando la nostra identità, i pensieri, gli istinti, i sogni e i desideri che custodiamo in diversi luoghi del nostro corpo, allontanandoli dallo scrigno della mente a cui siamo abituati ad affidarli.

Nel caso di Crimes of the future questo ruolo fondamentale è attribuito alla pelle, la parte più esteriore del corpo, agitata da recettori che rappresentano il nostro primo veicolo di relazione ma anche di contaminazione, da cui deriva la possibilità di toccarsi, conoscersi, riconoscersi nel corpo dell’altro, di accoglierlo; ma anche di ammalarsi, come accade non a caso alle donne nel film. Come a ricordarci che la nostra identità, a differenza di come tendiamo a immaginarcela, non è qualcosa di chiuso, immutabile, sigillato agli urti del mondo, ma un Io-pelle, come lo avrebbe chiamato lo psicanalista francese Didier Anzieu, che non esiste se non nello scambio, nell’interazione con un’alterità. L’impresa tutt’altro che semplice portata avanti in Crimes of the future è quindi quella di traghettare lo spettatore attraverso un’enorme operazione di chirurgia che non ha scopi medici, ma psicologici, e a cui ognuno dei personaggi partecipa in modo diverso, tentando di salvarsi come può dall’angoscia di un mondo che sta per finire. Per farlo, ciascuno di loro si serve dell’unico elemento che sente di possedere ancora pienamente, ovvero il corpo che abita. 

In questo senso, la filmografia di Cronenberg è un continuo tentativo di proiettarsi nel futuro anteriore, mostrando un post-umano che non stiamo ancora vivendo, ma che potremmo trovarci a sperimentare sulla nostra pelle molto prima di quanto avremmo immaginato. Gli esseri umani che diventeremo, o almeno quelli che il regista immagina in Crimes of the future, vanno però contro l’idea di progresso, crescita, evoluzione in senso positivista a cui continuiamo a rimanere affezionati, nonostante la realtà attorno a noi continui a darci segni della sua insufficienza. Il film ci immerge in un sentimento di precarietà e impotenza che è stato tutt’altro che estraneo alla nostra vita negli ultimi anni, ricordandoci come esso non possa che tirare fuori le nostre più grandi debolezze, i complessi, le nevrosi che non vorremmo ci appartenessero, e che il nostro crimine futuro – tra i primi che rischiamo di commettere – è quello di dimenticarlo, nascondendoci a una vulnerabilità che invece rimane impossibile da sradicare, sia per quanto riguarda il nostro corpo, sia la nostra emotività.


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