Il confine tra vittima e martire, nell’immaginario della destra, è sottilissimo. Troppo. - THE VISION
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La destra italiana, soprattutto da quando è al governo e le responsabilità sono aumentate, di fronte a qualsiasi problematica sfodera la carta del vittimismo. Esiste proprio una sintomatologia ben precisa: manie di persecuzione, sindrome dell’accerchiamento, tendenza a lamentarsi o giustificarsi in modo grottesco quando viene svelata la propria natura. Può sembrare un paradosso, visto che molti membri del governo vengono da una storia che affonda le sue radici nel neofascismo, e quindi in un’apparente maschera muscolare e sfrontata. Eppure il “vittimismo del camerata” non è un fenomeno recente, nasce con Mussolini stesso ed è stato portato avanti con trasporto anche da Almirante e dalle sue creature politiche, ovvero quelle che ci governano attualmente. Nel mondo della psicologia divulgativa esiste la cosiddetta “Sindrome di Calimero”, caratterizzata proprio dal vittimismo e dalle continue lamentele di fronte alle avversità. Chi ne soffre è convinto di avere il mondo contro e di essere vittima di un’ingiustizia. Anche i neofascisti spesso si comportano come dei piccoli Calimeri, non accettano di essere definiti per ciò che sono: “piccoli e neri”, laddove piccoli non corrisponde alla statura e neri al colore delle piume.

Quando nel 1935 la Società delle Nazioni, organizzazione antesignana dell’ONU, decise di sanzionare l’Italia per i crimini di guerra durante la campagna colonialista in Etiopia, Benito Mussolini e il Partito Fascista non la presero benissimo. Nonostante i documentati orrori commessi in Africa e la quasi unanimità dei voti al Consiglio della Società delle Nazioni – 50 Stati favorevoli alle sanzioni, tre astensioni, unico voto contrario quello italiano – Mussolini mise in atto una campagna per far credere di essere stati trattati in modo ingiusto. Le sanzioni, economiche e commerciali, furono definite “inique” e si arrivò a parlare di “assedio economico”. La strategia di Mussolini era quasi comica: convincere gli italiani che il motivo delle sanzioni fosse la paura degli Stati stranieri per una grande nazione che si stava espandendo in modo trionfale. Ovviamente la campagna africana fu in realtà un disastro sotto tutti i fronti, ma l’impeto persuasivo e i metodi repressivi del regime portarono il popolo a seguire questa propaganda. Ferito nell’orgoglio e nel portafoglio, il regime creò l’iniziativa chiamata “Oro alla Patria”, con gli italiani esortati a donare le proprie fedi nuziali per aiutare economicamente quello che più che un glorioso impero era ormai lo zimbello d’Europa.

Donne italiane donano le loro fedi nuziali durante la campagna “Oro alla Patria”, 1935

Anche riagganciandoci ai giorni nostri, il confine tra vittima e martire, nell’immaginario della destra, è sottilissimo. Sono sfumature quasi impercettibili, e forse la crasi perfetta sta nella figura del perseguitato. Dagli Stati esteri (Mussolini), dalla magistratura (Berlusconi e i suoi figli politici), dai comunisti (sempre Silvio e adesso Salvini), per fare un giro immenso e tornare di nuovo agli altri Stati che per mero dispetto starebbero tentando di gettare cattiva luce sull’Italia. Come è successo nei giorni scorsi con la risposta tragicomica di Giorgia Meloni ai timori dell’Unione Europea, palesati nella Relazione annuale sullo stato di diritto dell’UE della Commissione Europea, per i problemi in Italia riguardanti l’informazione, dai rischi di ingerenza politica del governo sulle attività della RAI del governo alle intimidazioni ai giornalisti. Tutti fatti conclamati. La presidente del Consiglio Meloni, che non poteva controbattere con argomentazioni valide, ha riesumato la carta del vittimismo. Ha scritto una lettera alla rieletta presidente della Commissione Ursula Von der Leyen dichiarando che il contenuto di quella relazione “è stato distorto a uso politico da alcuni nel tentativo di attaccare il governo italiano”. Addirittura ha trasformato le epurazioni e le censure della RAI in “normali dinamiche di mercato”. In pratica ha escluso l’esistenza di problemi reali, trasformandosi ancora una volta in Calimero di fronte ai rimproveri dell’Unione Europea.

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni

Tornando alle radici del vittimismo di destra, un altro atteggiamento che può essere associato al fenomeno in questione è la codardia. Nonostante vittimismo e codardia non siano sinonimi e abbiano tratti diversi nel pensiero e nell’azione, c’è un filo che li accomuna fino a creare un rapporto di causa ed effetto. Il vittimista tende a distorcere la realtà anche attraverso meccanismi di viltà, perché è comodo fuggire dal dato obiettivo, spostando l’attenzione degli altri su un’altra narrazione. Per esempio il fascismo ha la retorica della forza muscolare, del dominio, ma poi si è spesso tradotta in azioni ben poco attinenti al tanto decantato “onore”. Lo squadrismo fascista è da sempre un “tanti contro pochi”, se non un “tanti contro uno”, dall’omicidio di Matteotti in poi. Anche durante gli anni di piombo, erano tipiche le scene dei fascisti in gruppo, armati di catene, mazze o coltelli, che nella lotta tra rossi e neri cercavano il rosso fuori dal gruppo, lo accerchiavano per uno scontro impari. È un retaggio valido ancora oggi, come testimoniato dai numerosi casi in cui dei militanti di CasaPound hanno preso di mira il singolo individuo per aggredirlo o picchiarlo. E c’è vittimismo – e codardia – anche nell’eventuale fuga. Mussolini pur di non farsi prendere si travestì da soldato nazista e tentò di nascondersi in un camion tedesco, tradendo l’ideale tronfio e macchiettistico del fascismo audace, impavido, battagliero, patriottico. Sia nell’attacco che nella fuga, il fascista nella Storia ha esibito la propria vigliaccheria.

Come dicevo, il postfascismo ha segnato forse ancora di più i tratti del vittimismo, se pensiamo al lamento missino, soprattutto nei primi anni del partito di Almirante, per non aver contribuito a scrivere la Costituzione italiana. Almirante stesso definiva il MSI come il partito degli emarginati. In realtà è sempre stato il partito dei “graziati”, ovvero i latitanti o gli incarcerati tornati a galla in seguito all’amnistia Togliatti e all’assenza di qualsiasi Norimberga italiana. Eppure non hanno mai superato il complesso d’inferiorità per non aver costruito l’Italia del dopoguerra, per non aver dato vita all’arco democratico che ha trasformato una nazione non soltanto in una Repubblica, ma in una riserva che inizialmente, almeno negli intenti, teneva lontani proprio i vecchi rigurgiti neri. Poi si sono ugualmente insinuati nella scena politica entrando in parlamento e, recentemente, arrivando alla guida del Paese, ma resta in loro, a quanto pare, la percezione di essere gli “ospiti non invitati”. Giustamente, aggiungerei. Anche perché per ottenere questo potere hanno dovuto fingere di rinnegare la propria storia, annacquare i loro lati nostalgici – per lo meno in favore di telecamera o nell’opinione pubblica – e la codardia moderna risiede nell’operazione di nascondere le proprie origini pur credendo ancora nel calore di una fiamma che espongono tuttora nel simbolo.

Giorgio Almirante, 1975

I neofascisti italiani, credendosi “i sopravvissuti”, sono in costante equilibrio sul filo che li condanna contemporaneamente a elogiare Almirante e a rinnegare con toni flebili il Ventennio. Si sono aggrappati all’arco costituzionale con le unghie, sanno benissimo che è minuscola l’anticamera che separa la stanza dell’istituzionalismo forzato da quella con le collezioni dei busti del Duce; quella della legittimazione da quella dell’assalto alla CGIL o dei raduni a Predappio. Sono sul cornicione e pensano di cavarsela con un “Non un sono fascista, ma…”, con gli omissis storici e con l’ambiguità. E così l’indole vittimistica riaffiora con prepotenza quando bisogna giustificare un insuccesso o rispondere a una critica. “È colpa degli altri” diventa il refrain utile per ogni stagione, così come “L’Europa ci danneggia” o “Le opposizioni screditano il Paese”. Il vittimista, per sua natura, non riconosce mai le sue colpe. Sarebbe l’ammissione di un fallimento, la pistola fumante a certificare un’incapacità politica o comunicativa. La sindrome di Calimero così non abbandona mai la destra italiana e porta il Paese a doversi confrontare con una classe dirigente inadatta ad affrontare i problemi di una nazione.

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