L’epilogo della presidenza Trump si è consumato nell’ultimo, surreale, appuntamento della campagna elettorale del presidente uscente: sabato, il suo avvocato ha tenuto una conferenza stampa annunciata su Twitter che, forse per un clamoroso errore di prenotazione, si è tenuta, anziché in una sala conferenze di un hotel di lusso della catena Four Seasons, nel parcheggio di un’omonima ditta di giardinaggio, tra un sexy shop e un polo crematorio. Trump, che giocava a golf mentre le tv annunciavano la vittoria dello sfidante Joe Biden, continua a rifiutare i risultati e promette battaglia. Se è vero che non ha alternative ad accettare la sconfitta, e che l’annunciato ricorso alla Corte Suprema non è attuabile, sembra però intenzionato a rendere il lavoro più difficile possibile al nuovo presidente, contribuendo ad aumentare il più possibile la spaccatura della popolazione. Negli Stati Uniti regna già un clima da guerra civile che non promette nulla di buono e sicuramente l’inizio della nuova presidenza Biden-Harris non sarà tranquillo.
Mentre Biden annunciava l’arrivo di una task force sul Coronavirus, per raddrizzare la disastrosa gestione dell’ex-presidente, questo – come un bambino che non sa perdere – dopo aver chiesto invano lo stop al conteggio dei voti, entrava nella fase di negazione. Nonostante le evidenze, infatti, Trump non sembra intenzionato a riconoscere la sconfitta. Una questione d’orgoglio, certo, ma non solo: si tratta di una strategia per fomentare le già nette spaccature all’interno dell’elettorato americano. È quasi solo in questa lotta per il potere: i famigliari – Ivanka per prima, l’unica che forse potrebbe davvero convincerlo e il suo influente marito Jared Kushner – per ora non sono riusciti a fargli accettare dignitosamente la sconfitta, mentre persino alcuni leader repubblicani lo scoraggiano dall’impelagarsi in lunghe e costose battaglie legali; nonostante Trump sostenga che ci siano stati problemi nel sistema di autenticazione dei voti, che avrebbero influito sull’esito finale. A confermare che non ci sono prove di frodi elettorali o casi di corruzione è però persino il senatore repubblicano Mitt Romney, per il quale l’atteggiamento di Trump è “distruttivo per la democrazia”. Anche i top manager e gli investitori della Corporate America, di cui Trump stesso è esponente di punta, premono perché si faccia da parte, anche perché un passaggio di consegne turbolento assesterebbe ulteriori colpi alla borsa, già in crisi da una contingenza economica sfavorevole, complice anche la pandemia.
Ma Trump da quell’orecchio non ci sente e annuncia per oggi l’inizio di una battaglia legale, con l’obiettivo di “assicurare che le leggi elettorali siano rispettate e che venga eletto il legittimo vincitore”. Secondo il giornalista francese Pierre Haski, Trump sta così archiviando definitivamente – in un momento già difficile per il soft power americano – l’immagine democratica degli Stati Uniti. E lo sta facendo usando le carte più sporche. Il suo discorso di giovedì – in cui, a poche ore dalla fine delle votazioni, a spogli ancora in corso ma già annusando la sconfitta, chiedeva invano il riconteggio dei voti e sosteneva che l’avversario stesse cercando di truccare le elezioni – era così ricco di dati non veritieri e accuse infondate che le reti tv statunitensi Abc, Cbs e Nbs l’hanno interrotto in diretta per sottoporlo a fact-checking. Da quel momento Trump si è chiuso per diverse ore nello Studio Ovale, riemergendone con una raffica di tweet del solito tenore, con una furia che non si è placata nel corso del fine settimana. Sabato sui suoi profili social è tornato a denunciare presunti brogli agli scrutini, scrivendo in caps lock che agli osservatori era stato impedito di entrare ai seggi e che sono state inviate milioni di schede per il voto postale a elettori che non ne avevano fatto richiesta. Ieri, invece, lanciando sui social la Election Defence Task Force, che sin dal nome lo presenta come paladino della democrazia contro gli usurpatori, ha scritto “Crediamo che queste persone siano dei ladri […]. Questa è stata una votazione rubata”.
Il tono da guerra non fa che portare avanti una strategia che Trump attua da lungo corso, aizzando la violenza e suggerendo che se Biden avesse vinto nel Paese ci sarebbero stati disordini. Trump non esitò a usare questi toni nemmeno quando, durante un dibattito con lo sfidante, alla richiesta di prendere le distanze dall’estrema destra violenta che manifestava in suo favore rispose che i Proud Boys, uno di questi gruppi, dovessero “Fare un passo indietro e tenersi pronti”, usando le ambigue espressioni “Stand back and stand by”, interpretabili come un segnale sinistro, salvo tentare poi di correggersi il giorno dopo usando questa volta l’espressione “stand down” (ritirarsi). Troppo tardi: non solo non aveva preso le distanze dai violenti, ma li aveva, di fatto, legittimati, chiedendo loro di tenersi pronti. E così è stato interpretato dagli stessi suprematisti bianchi, che di quell’espressione hanno fatto uno slogan. Da allora ci si aspetta un aumento delle violenze, che può verificarsi anche dopo le elezioni. Ora che Trump è stato sconfitto, ha convinto i suoi sostenitori di essere vittime di una frode e non perde occasione di fomentarli, suona sinistra la scritta a caratteri cubitali “We need to fight back” (“Dobbiamo contrattaccare”) che ora campeggia sul sito dell’ex-presidente. In una fase di grandi lacerazioni sociali e in cui il movimento suprematista legato al gruppo terroristico responsabile dell’attentato di Oklahoma City del 1995 è tornato in auge, quelle non sono solo parole, ma una pericolosa chiamata alle armi.
Il comportamento che Trump sta tenendo da sabato non è che il culmine della strategia del presidente più divisivo della storia, che sulla delegittimazione di ogni critica nei suoi confronti ha costruito la sua forza. Entrato in politica sull’onda delle teorie cospirazioniste secondo cui Barack Obama non sarebbe nato negli Stati Uniti, il complottismo – le presunte irregolarità alle elezioni – chiude la grave parentesi della sua presidenza. Questo, però, non significa che verrà meno il sostegno dei suoi fedeli, la stessa base elettorale che credeva al complotto su Obama, che ha creduto a quelli su deep state e satanisti pedofili, e che ora crede ai brogli elettorali. Trump sta facendo crescere la sfiducia nelle istituzioni democratiche per usarla a proprio vantaggio, come dimostra la candida ammissione fatta tempo fa alla giornalista Lesley Stahl sul perché continui ad attaccare i media: “Per screditarvi tutti e sminuirvi, così quando scrivete cose negative sul mio conto nessuno vi crede”. In questi mesi Trump, presagendo la sconfitta, ha tessuto una strategia per screditare anche il sistema elettorale e pur essendo costretto a riconoscere la sconfitta, continuerà a sostenere di essere vittima di brogli, perché tra quattro anni quella base di sfiduciati nei confronti del sistema e complottisti gli tornerà di nuovo molto utile.
Così, a quasi 48 ore dai risultati, non concede ancora la vittoria a Biden, non si è congratulato con lui né l’ha invitato alla Casa Bianca, come da prassi. Nel frattempo alla residenza di Washington regna il caos, perché Trump non sta delineando il passaggio di consegne, lasciando lo staff presidenziale privo di indicazioni. I suoi collaboratori, sostenendo che Trump accetterà il risultato se si stabilirà che le elezioni si sono svolte in modo corretto, escludono che alla fine bloccherà l’insediamento di Biden, anche perché non ha né gli strumenti né le basi legali per farlo, ed è escluso che i ricorsi abbiano successo. D’altro canto, sempre in questi giorni, fonti vicine al presidente hanno commentato: “Non vi aspettate che il presidente conceda la vittoria a Biden”. Per ora, sembra che Trump voglia continuare ad aggrapparsi al potere con ogni mezzo, anche perché è coinvolto in diverse inchieste giudiziarie che, se andranno avanti, potrebbero portarlo in carcere o portargli via gran parte dei suoi cospicui beni. Michael Cohen, il suo ex avvocato, avverte di aspettarsi una transizione turbolenta: quanto turbolenta lo vedremo presto.
La scadenza per risolvere le controversie è fissata per l’8 dicembre, ma se non si dovesse uscire dallo stallo entro il 6 gennaio sarà la Camera a votare il presidente. Intanto, fomentati un po’ per calcolo, un po’ per vendetta dal presidente uscente, montano rancore e sfiducia nelle istituzioni, con cui Biden dovrà fare i conti. Il neoeletto stesso, peraltro – che ora, come inevitabile, veste i panni del presidente di tutti – nei mesi scorsi non sempre si è sottratto ai toni guerreschi, dicendosi convinto che se sarà necessario l’esercito rimuoverà Trump dai suoi uffici, smentito poi da alti rappresentanti militari, che difendono l’estraneità dell’esercito dalla politica. Se si dovesse arrivare a tanto si tratterebbe di un colpo pesante per la democrazia americana e la situazione potrebbe seriamente precipitare. La tensione è alta: se non esploderà, quantomeno al successore verrà consegnata una realtà difficilmente governabile.
Riecheggia in modo inquietante un film del 1997 di Joe Dante, che racconta di un Paese diviso con un politico populista spalleggiato dalle fazioni più violente della destra, sullo sfondo di un’enorme conflittualità sociale. Quella che era una commedia appare oggi come un presagio sinistro. Il titolo di quel film era infatti La seconda guerra civile americana.