Il mondo è pieno di persone che si considerano al di sopra delle regole, credendo di essere dei ribelli. I veri ribelli, però, si oppongono alle ingerenze dell’autorità e alle costrizioni, sapendo distinguere tra quelle ingiuste e quelle motivate, per il bene di tutti; durante la pandemia, invece, diverse persone hanno – e stanno – dimostrando di non rispettare le restrizioni temporanee imposte per il bene della collettività, come degli irresponsabili, particolarmente pericolosi ed egoisti. Chi si reputa superiore alle norme credendo di essere furbo purtroppo, come sappiamo, abbonda nel nostro Paese. Non è un segreto che nelle società influenzate dall’ideologia neoliberista le persone tendano a rigettare le regole e a ignorare la voce delle autorità; e che dove più nette sono le spaccature politiche i cittadini più facilmente si schierino in fazioni pro e contro le norme, in questo caso quelle sanitarie.
Sembra che alcune delle persone che rifiutano di osservare le regole sanitarie, inoltre, siano mosse da particolari meccanismi psicologici, ovvero nella tendenza del nostro cervello ad archiviare problemi e situazioni traumatiche per permetterci di proseguire con la nostra solita vita, che altrimenti rischierebbe di essere messa profondamente in crisi. Questo meccanismo, solitamente utile a superare le difficoltà emotive a cui l’esistenza ci mette di fronte, nel caso dell’attuale emergenza sanitaria rende però molto più difficile contenere l’epidemia.
Il cervello umano è capace di nascondere i brutti ricordi per farci vivere meglio: dimenticare è ancora più importante di ricordare. Ogni giorno dimentichiamo le informazioni inutili, superflue o dannose – come possono esserlo appunto le esperienze traumatiche – per stare meglio e per fare spazio a ciò che invece ci è utile per sopravvivere. A dimostrarlo, tra gli altri, è stato nel 2017 uno studio dell’Università di Cambridge, che ha rilevato come l’aumento della concentrazione del neurotrasmettitore GABA (Acido Gamma-Ammino-Butirrico) faccia aumentare la capacità del cervello di archiviare i ricordi negativi. Qualche volta, però, questo meccanismo è controproducente, come quando le persone, come forma di auto-protezione, sembrano rimuovere i problemi, cosa che impedisce loro di affrontarli e risolverli e finisce per costringerli a ripetere sistematicamente pattern dannosi. Nel contesto di oggi – quello della seconda ondata di contagi, che rende di nuovo necessarie misure stringenti di contenimento – questo meccanismo mentale inconscio fa sì che un numero notevole di persone non si attenga alle norme precauzionali perché mentalmente incapace di reggere il carico di responsabilità richiesto in questa fase.
In genere le persone riescono ad affrontare e superare situazioni difficili, anche emotivamente, grazie, tra le altre cose, alle capacità adattative innate e al supporto sociale, che aiutano il recupero del benessere psicofisico. Le possibili risposte alle situazioni pericolose o traumatiche, però, variano molto, poiché intervengono diversi elementi legati non solo al tipo di stressor, ma anche alla personalità di ciascuno e alla soggettività collettiva del sistema sociale e culturale a cui apparteniamo. Tra le possibili reazioni legate alla situazione attuale ci sono in primis quelle emotive – la paura del contagio e l’ansia per l’incertezza sulla durata della pandemia e per i problemi economici e sociali che ha causato; a queste si sovrappongono distorsioni cognitive che portano a sottovalutare il rischio, come la tendenza a pensare che familiari e amici non possano essere veicoli di contagio, per la naturale fiducia che abbiamo verso di loro, opposta in modo illogico alla diffidenza con cui in questi mesi ci siamo abituati a guardare gli sconosciuti; e infine le manifestazioni di dubbi e sospetti verso le informazioni fornite dal governo e dalle altre autorità competenti. Queste possono a loro volta dare origine a teorie del complotto e atteggiamenti negazionisti, in cui ancora una volta la psicologia gioca un ruolo importante. Se le immagini un po’ patetiche di Enrico Montesano che strepita contro la mascherina, o del complottista di turno che sostiene che il Covid sia tutta una strategia dei “poteri forti” per controllarci, non possono essere giustificate in maniera indiscriminata, è vero però che la rimozione sembra avere un ruolo importante in diverse posizioni nei confronti delle norme anti-contagio. Anche tra i negazionisti c’è chi mette in atto la rimozione per proteggersi da una situazione che non è attrezzato ad affrontare, come fa, in certi casi, anche chi si è convinto, nonostante le evidenze, che la pandemia sia finita.
La rimozione è, in psicoanalisi, un meccanismo inconscio che allontana dalla consapevolezza del soggetto i desideri o i pensieri considerati inaccettabili e intollerabili, la cui presenza causerebbe angoscia. Questo meccanismo cardine di difesa è alla base delle nevrosi, ma entro certi limiti è fisiologico. Negare le evidenze scientifiche potrebbe quindi ricondursi, in parte, alla paura che si è incapaci di gestire e quindi alla mancata accettazione delle situazioni difficili (la pandemia, l’emergenza climatica, solo per citare le due più attuali). Il ministero dell’Interno stesso, nelle sue linee guida per il sostegno psicologico diramate a maggio, riconosce tra le possibili manifestazioni di disagio i comportamenti di evitamento fobico e di negazione; anche nel disturbo da stress post traumatico può verificarsi amnesia (totale o parziale), con l’incapacità di rievocare aspetti importanti dell’evento traumatico. La completa cancellazione è difficile – anche perché dai media alle conversazioni quotidiane, tutto ci costringe a misurarci con le notizie relative alla pandemia – ma le risposte che si attivano hanno radici profonde, che si innestano nella nostra struttura psichica. In questo senso una certa quota di rimozione può intervenire in particolare in quelle persone che non hanno avuto il tempo necessario per riadattarsi in maniera efficace e positiva alla nuova quotidianità e che magari non hanno gli strumenti per reagire in modo proattivo alle notizie angoscianti.
A impattare sul piano psicologico – oltre, ovviamente, al rischio di contagio – è proprio l’introduzione delle politiche di contenimento delle infezioni che ha alterato le nostre abitudini quotidiane. Cambiare il proprio stile di vita è sempre difficile, anche quando il passaggio è graduale e diluito su un lasso di tempo a volte anche molto lungo. La rapidità con cui le misure sono state introdotte, una dopo l’altra, ha provocato quindi un vero e proprio shock collettivo, perché per ovvi e necessari motivi non ha permesso alle persone di vivere le varie fasi di elaborazione e metabolizzazione che portano ad accettare il nuovo contesto: la negazione, l’incredulità, la rabbia per le limitazioni imposte, quindi la contrattazione (quella di chi è convinto che sarebbe stato più bravo a gestire l’epidemia, esprimendo pareri su argomenti che non conosce neanche alla lontana); infine la rassegnazione, l’adattamento e l’accettazione. Non avendo potuto vivere questi passaggi in modo graduale, in tanti sono rimasti bloccati alla fase di negazione e continuano quindi a comportarsi come se nulla fosse.
Rinunciare alle proprie abitudini può scatenare la reattanza psicologica, nome che in psicoanalisi si dà alla ribellione e al tentativo di riappropriarsi a tutti i costi di ciò che viene proibito; si tratta di un pregiudizio cognitivo che alcune persone hanno nella percezione dell’ordine sociale e del proprio ruolo all’interno di esso, cosa che rende loro particolarmente difficile seguire le regole, perché vissute come imposizioni senza senso e, quindi, limitazioni alla propria libertà. La reattanza è fisiologica durante l’adolescenza, ma può verificarsi anche in persone adulte, come viatico per affermare un’identità altrimenti poco riconosciuta. Nel caso attuale, l’effetto è ben più grave della normale tendenza a ribellarsi all’autorità tipica dei teenager ed è a catena: la ribellione contro norme funzionali al bene della collettività fa sì che queste siano meno efficaci e vadano quindi inasprite o almeno prorogate nel tempo, generando di conseguenza ancora più insofferenza, sfiducia verso l’autorità e “ribellione”. Il circolo vizioso che si crea è dannoso per tutti, specialmente in questa fase delicata. E non aiuta certo la confusione provocata dai pareri discordanti di figure autorevoli, che hanno maggiore responsabilità nella legittimazione delle posizioni dei cittadini, in un momento in cui l’unione farebbe davvero la forza. A questo si aggiunge, ora, che indurre le persone a rispettare restrizioni simili una seconda volta, dopo un’estate di allentamento, è più difficile.
Il meccanismo difensivo della negazione può essere utilizzato sistematicamente dai singoli di fronte allo stress e all’angoscia, portando inconsciamente a sminuire rischi reali e ad adottare comportamenti impropri, in questo caso potenziali occasioni di contagio. Sensibilizzazione nei confronti del bene collettivo e supporto psicologico possono essere strumenti utili per combattere questi rischi e favorire la resilienza, quella capacità di reagire positivamente agli eventi traumatici, riorganizzando la propria vita. Per farlo bisogna essere consapevoli di avere un ruolo attivo anche nelle esperienze negative, idea che non riesce a maturare chi rimuove gli avvenimenti drammatici con cui veniamo chiamati a confrontarci. Fare finta che il problema non esista non è sufficiente a risolverlo o a eliminarlo, è anzi uno dei disagi che la pandemia ha portato a galla nell’ambito del benessere psicologico. In questa fase di gestione della pandemia è estremamente dannoso e rischia di farci rivivere un trauma ben peggiore di quello che in tanti si sforzano di ignorare.