Il governo Meloni ha un’idea tutta sua di cosa significhi transizione digitale: tornare al calamaio. - THE VISION

Ci sono parole che in politica vanno e vengono, come a rimarcare il passaggio tra campagna elettorale e insediamento di un governo. Un esempio è la frase “snellire la burocrazia”, il classico buon proposito bipartisan che prima delle elezioni tutti i partiti usano per far capire al cittadino che effettivamente molti meccanismi dello Stato sono ingolfati e occorrerebbe abbreviare i tempi. Vale per ogni campo: la Giustizia, la Sanità, la Pubblica amministrazione. La stessa Giorgia Meloni, quando era all’opposizione, chiedeva di velocizzare il Paese, perché “in Italia tutto è fermo, ma la burocrazia è sempre lì”. Soprattutto nell’ultimo decennio, a questo tema è stata affiancata la parola “digitalizzazione”, un antidoto per rendere meno farraginose queste lentezze. Sulla carta sono tutti d’accordo: destra e sinistra, politici e cittadini. Ora che la destra ha conquistato il potere, però, sembra che qualcosa sia cambiato. Attendersi migliorie sul progresso da partiti conservatori è un ossimoro evidentemente anche in questo contesto, dunque siamo arrivati al rallentamento di un processo già di per sé elefantiaco, addirittura eliminando – o rischiando di perdere – le poche comodità digitali ottenute negli ultimi anni.

Giorgia Meloni

Forse è un problema della destra – e dei suoi elettori? – con la tecnologia, con la digitalizzazione, o semplicemente con la velocità del nostro tempo. Sta di fatto che, in pochi mesi, il governo si sta battendo contro gli strumenti utili a semplificare la vita del cittadino. Se già abbiamo storto il naso per una destra allergica al Pos e allo Spid, è apparso grottesco il possibile stop alla ricetta medica elettronicaoggi ufficialmente prorogata –, la cosiddetta prescrizione dematerializzata, che evita ai pazienti di recarsi fisicamente nello studio del proprio medico potendo ricevere la ricetta da remoto, tramite mail, sms o altri metodi digitali. La misura era stata introdotta durante la fase più drammatica della pandemia di Covid-19 per questioni sanitarie: bisognava infatti evitare assembramenti, i medici di base erano oberati di lavoro e affollare un ambiente al chiuso per farsi prescrivere un farmaco non conveniva a nessuno. ​​Era già incomprensibile che certe semplificazioni non fossero state attuate prima, ma come per molti altri aspetti durante la pandemia, vedasi lo smart working, ci si è resi conto di poter far diventare strutturali alcune misure emergenziali per rendere più comoda la vita della comunità. Anche fuori dall’emergenza, ci si chiede infatti perché un paziente dovrebbe recarsi dal medico per ottenere una ricetta, quando abbiamo i mezzi tecnologici necessari per eliminare quello che è a tutti gli effetti un peso: sia per diversi cittadini, soprattutto gli anziani, che possibilmente vivono lontano dai grandi centri o che sono impossibilitati fisicamente a spostarsi, che per gli stessi medici, costretti a gestire  la consegna fisica delle ricette e quindi dovendo inserire più appuntamenti nell’orario lavorativo, a scapito del tempo a disposizione da dedicare alle visite. La misura d’emergenza sulle ricette elettroniche scadeva il 31 dicembre e il governo  sembra aver dovuto attendere le proteste degli scorsi giorni per prorogarla. L’intenzione a monte, però, dovrebbe essere quella di rendere strutturale questa misura, come auspicato anche da Silvestro Scotti, segretario nazionale della Federazione Italiana di Medici di Medicina Generale, che ha aggiunto un ulteriore obiettivo, ovvero quello di creare un sistema ancora più veloce saltando sia il promemoria digitale o cartaceo per poter usare direttamente la tessera sanitaria elettronica. Al momento, però, nessun membro del governo ha risposto a questi appelli.

Silvestro Scotti

È invece necessario implementare la digitalizzazione e mettere il cittadino nella condizione di poter usufruire dei servizi nel modo più consono alle proprie esigenze. Nel discorso di insediamento alla Camera dei deputati, Meloni ha aggiunto tra i suoi temi la transizione digitale. Peccato che le sue parole siano in contrasto con i fatti. Alla celebrazione dei dieci anni di Fratelli d’Italia Alessio Butti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Innovazione tecnologica, ha dichiarato di voler “spegnere gradualmente lo Spid”, ovvero il Sistema Pubblico di Identità Digitale che permette di accedere ai servizi della Pubblica Amministrazione online. Ci sono state certamente alcune problematiche riguardo a questo mezzo, come una difficoltà di utilizzo in certi frangenti, oppure code virtuali causate da lentezze dei portali e un’organizzazione digitale non ancora del tutto messa a punto. Eppure, sarebbe ingiusto cancellarlo, soprattutto dopo gli sforzi fatti dai cittadini per ottenerlo. Subissato dalle polemiche, Butti ha ricevuto anche il fuoco amico di Forza Italia, come spesso è successo in queste settimane di conflitti interni per realizzare la manovra, con gli stessi membri del governo a contraddirsi tra loro. È intervenuto infatti Alessandro Cattaneo, capogruppo di Forza Italia alla Camera, per chiarire che lo Spid non verrà cancellato, in quanto “strumento che semplifica la vita dei cittadini, permette di risparmiare tempo, evitando le file agli sportelli, e consente di agire in piena sicurezza”. Stona con l’idea di Butti di concentrarsi maggiormente sulla carta d’identità elettronica (CIE), avendo quindi un’unica identità digitale – non si sa ancora come, visto che CIE e Spid sono strumenti diversi. L’impressione è che siamo di fronte a un governo schizofrenico che cerca di assecondare la quota di popolazione più resistente al progresso tecnologico – anche a causa di una mancata alfabetizzazione digitale – e si rende conto degli effetti controproducenti della stessa solo a seguito delle reazioni di esperti e opinione pubblica, facendo poi retromarcia, come qualunque dilettante allo sbaraglio.

Alessandro Cattaneo
Alessio Butti e Giorgia Meloni

Il problema principale è che il concetto di digitalizzazione viene strombazzato come slogan, ma l’Italia rispetto agli altri Paesi europei è molto indietro. Gli ultimi dati disponibili parlano chiaro: nell’indice Ue della digitalizzazione dell’economia e della società (Desi) l’Italia è al diciottesimo posto sui ventisette Stati membri. Secondo lo stesso rapporto di Bruxelles, più di metà dei cittadini italiani non dispone di abilità digitali di base e la percentuale degli specialisti digitali nella forza lavoro è inferiore alla media europea. C’è da dire che sotto il governo Draghi c’è stato un miglioramento, considerando che nel 2020 eravamo al venticinquesimo posto della classifica e adesso al diciottesimo, ma siamo ancora lontani dalla meta e, con questo governo così retrogrado sul progresso digitale, il rischio è quello di restare bloccati o addirittura regredire.

Viene da chiedersi come possa Meloni gonfiare il petto parlando di transizione digitale  quando poi è diventata la nemica numero uno del Pos, un po’ per un’ideologia di facciata e un po’, permettetemi la malizia, per favorire una fetta del suo elettorato dall’evasione facile  – salvo ricevere una strigliata da Bruxelles e tentare poi di tornare sui suoi passi. L’Italia non può permettersi di regredire e restare il fanalino di coda di un’Europa sempre più digitale. All’estero, nei Paesi più all’avanguardia ed estranei alla cancrena dell’evasione fiscale, è normale andare in giro e pagare sempre con la carta, ricevere dal medico una mail con la prescrizione di una ricetta, accedere ai servizi più basilari con un click senza stare in fila per ore alle poste. ​​Ad esempio, tra i Paesi dell’Unione Europea l’Italia è quello ad avere il numero maggiore di Pos ma quello con il numero più basso di operazioni digitali (per intenderci, quattro volte meno della Germania e nove dell’Olanda).

La destra, oggi, appare invece come una fune che ci lega al passato e ci impedisce di raggiungere la semplificazione del progresso, quelle novità che gli stessi cittadini abbracciano ma che la natura retrograda della macchina burocratica politica vive con impeto luddista, quasi a temere l’innovazione, il passo avanti. Se per il Pos può esserci appunto la fascinazione della destra per il nero, non si capisce il motivo di non prorogare la misura sulle ricette elettroniche. Forse il tema della burocrazia da snellire è il vezzo di qualche spin doctor durante le campagne elettorali e i politici stessi lo usano senza nemmeno crederci davvero. Altrimenti non si capirebbe la riluttanza all’alleggerimento della macchina dello Stato una volta giunti al potere, come se l’arrivo a Palazzo Chigi trasformasse certi “nobili” intenti in una fossilizzazione dello status quo. E nulla cambia, perché la comodità di un cittadino è un lamento in meno, e senza la frustrazione creata nella massa dalla burocrazia – o almeno in chi non riesce, per mancanza di strumenti o supporto idonei, ad accettare le semplificazioni della gestione digitale, contro una quota di popolazione che invece desidera emanciparsi dalle scartoffie e assecondare il progresso – la politica dovrebbe cibarsi d’altro. Di fatti e non di narrazioni, principalmente, e quindi crollerebbe tutto il suo castello di carte.

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