Il 13 gennaio del 1992 venivano trasmesse sulla rete di punta del regno mediatico di Silvio Berlusconi le prime tre edizioni del TG5 condotte da Cristina Parodi, Enrico Mentana e Cesara Bonamici. Esattamente trent’anni dopo, il 13 gennaio del 2022, Il Giornale pubblica sulla sua quinta pagina un manifesto redatto dalla sezione over 65 di Forza Italia, Forza Seniores, in cui vengono elencati ventidue punti a favore della candidatura di Silvio Berlusconi come prossimo Presidente della Repubblica. “E quindi, chi come lui?”, recita a caratteri cubitali il poster a conclusione di una lista che proclama meriti quali l’essere una persona buona e generosa, padre di cinque figli e nonno di quindici nipoti, nonché “l’eroe della libertà che, con grande sprezzo del pericolo, è sceso in campo nel ‘94 per evitare a tutti noi un regime autoritario e illiberale”.
Il motivo per cui trent’anni fa Canale Cinque lanciava il suo storico telegiornale era politico: la legge Mammì, una norma emanata dopo che il decreto Berlusconi del 1984 era stato giudicato incostituzionale, prevedeva che una televisione privata per andare in onda in diretta nazionale dovesse necessariamente avere un telegiornale all’interno del suo palinsesto. Nel gennaio del 1992, l’Italia era all’alba di uno degli scandali più gravi e decisivi della sua Storia, e mentre i partiti si sbriciolavano sotto la morsa di Mani pulite, l’imprenditore lombardo che fino a quel momento si era limitato a invadere l’etere dei suoi connazionali con le trasmissioni più accattivanti e ipnotiche che ci fossero in circolazione, preparava il terreno per quella sua ormai storica “Discesa in campo”.
Nel primo mese del 2022, ci troviamo nel pieno di una crisi politica – e morale, sotto molti aspetti – dovuta alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella e alla conseguente elezione di un nuovo Presidente della Repubblica. C’è chi invoca genericamente la possibilità di una donna, chi chiede quasi implorante a Mattarella di non andare via, chi vorrebbe un passaggio diretto di Mario Draghi dalla presidenza del Consiglio al Quirinale e chi, invece, chiede che questo ruolo vada a Silvio Berlusconi. All’inizio – come fu per Trump nel 2016 e per la Brexit quella stessa estate – la sensazione che si percepiva era che fosse una cosa impossibile. Poi, il 14 gennaio, la proposta è stata ufficializzata dalla coalizione di destra e quella che sembrava essere una barzelletta – una profezia di Angelino Alfano generata da un suo lapsus nel lontano 2012 – ha cominciato a prendere una forma diversa e invadente.
È superfluo elencare i motivi per cui Silvio Berlusconi non è neanche lontanamente associabile alla figura che propone di ricoprire in questo ultimo slancio di gloria. Gli anni di Berlusconi al governo sono talmente tanto vicini che anche una persona nata nel 2002, seppur in modo sommario, può avere memoria di ciò che ha significato per l’Italia quel periodo e la lista di cose a suo sfavore – non me ne vogliano i signori di Forza Seniores – è così lunga e nota che non ha neanche senso farla. L’aspetto più interessante di questo ennesimo, e parzialmente inaspettato, colpo di testa di Silvio Berlusconi è che in trent’anni di vita politica il suo modus operandi non è mai cambiato, si è solo adattato. Berlusconi è la prima persona in Italia ad aver compreso e sfruttato a suo favore l’enorme potenziale di qualcosa che oggi è il centro della nostra vita in ogni frammento di quotidianità: la pubblicità.
La pubblicità, il desiderio e il consumo sono le tre colonne portanti dell’impero del Caimano, come lo chiamava nel 2006 Nanni Moretti, senza le quali non solo non esisterebbe, ma non avrebbe reso possibile miliardi di altre piccole o grandi realtà del Paese. Il marketing, l’arte retorica, la barzelletta perenne, il jingle onnipresente, lo sfruttamento di tutti gli spazi esistenti a disposizione per vendere un prodotto, che sia un bene materiale o la sua stessa presentabilità, sono l’essenza di questo personaggio. Questo aspetto di Berlusconi è fondamentale anche per capire perché a oggi, con una mossa anche abbastanza azzardata e di possibile, se non quasi sicuro, insuccesso, è arrivato al punto di proporsi come volto della carica più importante del nostro Paese. Già dall’inizio della sua carriera, quando da giovane laureato in giurisprudenza cominciava a muovere i suoi primi passi nell’imprenditoria, Berlusconi vendeva aria, immagini impalpabili di realtà inventate, confezionate con le parole a regola d’arte.
Che si tratti di una promessa in campo edilizio o politico, il sistema è sempre lo stesso, la leva su cui fa pressione Berlusconi è quella del desiderio e dell’apparenza. Quando da Milano 2 e dalle abitazioni a misura di uomo-consumatore l’imprenditore si è spostato alla televisione, fu Mike Bongiorno – “l’everyman”, come lo ha ribattezzato Umberto Eco nel suo famoso saggio del 1961 – a vendere sogni e a tenere in piedi questa fabbrica di immagini, prima con Telemilano e poi con Canale Cinque e tutte le altri reti che si sono aggiunte negli anni al gruppo Fininvest. A fare da ariete per il successo di Berlusconi è stata una grande bugia – o un’ottima strategia di marketing, dipende dai punti di vista: i pizzoni spediti in tutta Italia per eludere la legge dell’interconnessione – da cui poi nacque la legge Mammì, forte della sua alleanza con Craxi, fatta proprio per consentire la nascita del duopolio Rai-Mediaset – e le televisioni accese su Canale Cinque per gonfiare gli ascolti, i prodotti inseriti in tutte le trasmissioni, i presentatori che diventarono parte di una perenne televendita che si è propagata fino agli anni della sua prima candidatura a Presidente del consiglio, quando il prodotto da sponsorizzare non era un prodotto da acquistare alla Standa ma lo stesso Silvio Berlusconi in persona.
Quando quasi trent’anni fa Berlusconi si impose nel dibattito politico italiano – solo ed esclusivamente per i suoi interessi personali di imprenditore, l’immagine – lo spot da mandare a reti unificate era quello del volto nuovo. Finita la guerra fredda, finito il “Secolo breve”, finiti la sinistra e il comunismo, finita l’era dei partiti novecenteschi, dopo la valanga di Mani pulite, serviva un homo novus, un faro nella notte buia dei tempi infausti. “Che il capo della Fininvest corra non per il Paese ma per sé è evidente a chiunque lo conosca. Ed è confermato dalla pratica selvaggia dell’auto elogio, dall’esaltazione delle qualità vere o supposte di Berlusconi: egli è una stella fissa, tutto ruota e deve ruotare intorno a lui”, diceva Claudio Rinaldi in un articolo del 7 gennaio 1994 su L’Espresso. E cosa stiamo vivendo oggi, se non una copia di questa prevaricante e allo stesso tempo ammaliante strategia di potere? Dopo un decennio in cui la fiammella della sua presenza sembrava essersi quasi estinta, siamo di nuovo di fronte a un’ultima grande performance di trasformismo, un ultimo tassello necessario al compimento supremo della mitopoiesi di un personaggio. Berlusconi indossava il caschetto da muratore quando andava nei cantieri dei terremotati a L’Aquila, il colbacco con Putin, la bandana bianca in vacanza sulla Costa Smeralda: lo Zelig del Parlamento oggi indossa un ennesimo nuovo travestimento.
Non si tratta più di raccontarsi come grande imprenditore, né come uomo del popolo adatto a risollevare le sorti di un Paese ferito da scandali giudiziari che ribaltano la storia del Novecento; adesso, Berlusconi è il nonno d’Italia, il vecchio saggio che ci invita a essere prudenti, che si vaccina con fare goffo ma fiero, che riporta sui social articoli in cui si ricordano le sue prodezze nella politica estera, che difende il reddito di cittadinanza e che, soprattutto, porta in braccio un tenero cagnolino. “Il patriarca di Arcore nel 2021 ha aumentato del 46,85 per cento il numero dei follower raggiunti su Facebook, Instagram e Twitter”, ha detto Emanuele Lauria sul Corriere pochi giorni fa. I tempi sono cambiati e, come per tutti gli altri politici, non è più solo la televisione a essere il campo di battaglia principale del Cavaliere. Sembra passata una vita da quando usava questo mezzo di comunicazione per stupire il pubblico, pulendo per esempio la sedia di Travaglio in un grande colpo da maestro dell’auto-promozione, o chiamando in diretta Bruno Vespa per dire a Rosy Bindi che era “Più bella che intelligente”. Adesso Berlusconi appare etereo, con un sorriso bonario, si presenta al fianco della sua nuova compagna, Marta Fascina, di svariate decine d’anni più giovane, sempre vestita di abiti istituzionali con colletti da educanda e tinte pastello. Niente a che vedere con il Berlusconi che diventava famoso in tutto il mondo per le sue cene “eleganti” e le sue “dame da compagnia”: ora è un simpatico nonno che posa con Donnarumma, brinda agli Europei, saluta allegro dalla sua villa sull’Appia Antica che fu di Zeffirelli. Anche l’operazione di rastrellamento voti per il Quirinale condotta dal fido Vittorio Sgarbi in questi giorni di corsa ha un nome buffo e familiare che la rende quasi innocua, per non dire tenera: “Operazione scoiattolo”.
In un altro articolo di Claudio Rinaldi, sempre su L’Espresso, datato 8 aprile 1994, Umberto Eco dice che gli attacchi di questo giornale contro Berlusconi cominciarono troppo presto: “L’Espresso ha contribuito a fare di Berlusconi un mito, sia pure cercando di dargli una connotazione negativa: gli ha riconosciuto in anticipo la qualifica di capo della destra italiana”. In un certo senso, oggi stiamo assistendo a uno spettacolo molto simile, con la differenza che stavolta il vestito che indossa il Cavaliere è quello buono e valoroso del capo di Stato, non solo del capo della destra ma dell’intera nazione. Ancora una volta, Berlusconi ha confezionato uno spot perfetto, una pubblicità progresso, un’immagine irresistibile di cui non si può non parlare, costruita così bene da affievolire tutte quelle precedenti. Ancora una volta, ha costruito una “truffa legale”, tocca vedere se nel frattempo abbiamo capito come smontarla.