Nei frenetici giorni di maggio, quando il governo del presunto cambiamento era ancora a uno stato embrionale, Lega e M5S sedevano attorno a un tavolo per creare le bozze di quello che sarebbe diventato il “contratto di governo”. C’erano i fedelissimi di Di Maio, tra cui spiccava il factotum Rocco Casalino, e quelli di Salvini, tra cui Calderoli e Centinaio. Proprio quel Gian Marco Centinaio che meno di un anno prima gridava al Senato “terrone di merda” contro il Presidente Grasso. Lo stesso che come indirizzo mail, prima della chiocciola, aveva “terronsgohome”. O quel Calderoli che si lamentava in parlamento perché “due terzi degli onorevoli sono terroni” e che ha definito Napoli “una fogna infestata da topi, un insulto per l’intero Paese, da eliminare con qualsiasi strumento.” Luigi Di Maio, nato ad Avellino, cresciuto a Pomigliano D’Arco, studente – rimasto tale – a Napoli, ha negoziato con questi personaggi il futuro dell’Italia.
Per anni il Sud ha rappresentato l’argine contro l’ascesa della Lega, un partito che da Roma in giù vantava percentuali farsesche. Il motto “Il Sud non dimentica” era l’ultimo baluardo di una resistenza che aveva le sue fondamenta nell’orgoglio e nell’appartenenza. Quando Salvini metteva piede a Napoli o a Palermo rischiava il linciaggio, per il semplice fatto che la Lega era “Nord”, e dipingeva il Sud come ostacolo all’ascesa del Nord Italia “avanguardia del Paese”: il Sud era una palla al piede, i meridionali dei parassiti. Poi qualcosa è cambiato.
Alle elezioni del 4 marzo, come è risaputo, il Sud è stato terra di conquista grillina. Le vecchie roccaforti berlusconiane (su tutte la Sicilia) sono state attratte dalle sirene pentastellate. La Sicilia per un ventennio è stata sotto il controllo di Berlusconi, sempre e comunque. Unica eccezione la vittoria di Rosario Crocetta, ma soltanto perché nel centrodestra erano più o meno tutti in gattabuia per associazione mafiosa. Parliamo infatti di una regione dove Salvatore Cuffaro, in seguito finito a Rebibbia per concorso esterno in associazione mafiosa, batteva alle elezioni Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo e personalità di spicco nella lotta contro la mafia, fuori e dentro le istituzioni, recentemente scomparsa. O in cui Raffaele Lombardo fu costretto a dimettersi da presidente della Regione per l’accusa di concorso esterno in associazione di tipo mafioso – dichiarato colpevole in primo grado nel 2014, assolto dalla Corte d’Appello nel 2017, che lo ha condannato a 2 anni di reclusione per voto di scambio. Lo scorso luglio la Cassazione ha riaperto il processo.
La notizia del boom dei grillini al Sud ha posto in secondo piano i primi segnali di crescita della Lega, che ha raggranellato 987.406 voti in quelle regioni che un tempo erano il loro tabù, e viceversa. Il Sud nutriva ancora una diffidenza atavica nei confronti della Lega, nonostante gli sforzi di Salvini in campagna elettorale e le innumerevoli felpe con nomi di città meridionali esposte in favore di telecamera. Adesso, nel giro di pochi mesi, è passata dal 17% delle elezioni al 30% nei sondaggi. Le analisi politiche si sono concentrate sui flussi a livello di partiti e sullo spostamento dei voti – rosicchiati un po’ dal M5S, un po’ dal Pd, parecchi da Forza Italia. Pochi, se non nessuno, hanno provato a ragionare sulla provenienza geografica di queste nuove preferenze, ancora sondaggistiche e non reali. Per ottenere una risposta non occorre trasformarsi in Nando Pagnoncelli: basta fare un giro per la mia città, Catania, e rendersi conto di come alle prossime Europee l’ultima barriera crollerà. Perché il Sud ha ceduto, e Salvini ha la strada spianata.
In questi giorni Catania è finita nell’occhio del ciclone per la vicenda della nave Diciotti. I media hanno mostrato le immagini delle manifestazioni al porto: dalla notte degli arancini alle cariche della polizia; dall’arrivo della poco gradita delegazione del Pd ai tentativi di raggiungere la nave con imbarcazioni di fortuna. Catania è stata descritta come una città che si ribella alla xenofobia. Purtroppo la realtà è diversa. Centinaia di persone al porto rappresentano una minoranza – una splendida minoranza – costretta a combattere il salvinismo dilagante. Prendere un caffè al bar equivale a sorbirsi il mantra “Io sto con Salvini” da chi fino a qualche anno prima veniva considerato da quelli in maglia verde alla stregua di una scimmia (o di un coleroso, fate voi). I principali mezzi di informazione locali su Internet (uno su tutti Catania Today) sono diventati la vetrina di una realtà inedita, dove la maggioranza stride con la solidarietà mostrata al porto. Tra i commenti c’è il trionfo del “rimandiamoli a casa loro”, “buonisti, ospitateli a casa vostra”, “forza Capitano”.
Il Sud ha dimenticato.
Ironia della sorte, in qualche modo Salvini è arrivato al potere grazie a Catania. Nel novembre del 2017 è stato stipulato il “patto dell’arancino”: in una trattoria catanese Salvini, Meloni e Berlusconi hanno fatto fronte comune per sostenere il candidato (poi eletto) presidente della Regione Musumeci, creando un’alleanza per le elezioni del 4 marzo. Senza quel patto Salvini adesso sarebbe soltanto il leader del terzo partito italiano, con meno voti del disastrato Pd. L’arancino è diventato il simbolo della resistenza contro il razzismo. O, più tristemente, il simbolo dei “buonisti che dovrebbero prendere gli immigrati a casa loro,” a detta dei nuovi adepti della Lega Nord.
La parola “Nord” non esiste più nel nome del partito, è stata cancellata con un colpo di spugna, così come gli insulti ai meridionali. Ma se il Sud ha dimenticato, il web resiste come cippo della memoria per portare a galla le antiche malefatte. Nel 2009, al raduno leghista di Pontida, Salvini intonava una canzoncina contro i napoletani, definendoli colerosi, terremotati e puzzolenti. Ha rincarato la dose dichiarando: “Sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, non abbiamo nessuna cosa in comune, siamo lontani anni luce.” Qualche anno dopo ha scattato un selfie con Insigne e Callejon, calciatori del Napoli, porgendo le sue scuse alla città per le parole del passato.
Nel 2012 scriveva su Facebook: “Dire PRIMA IL NORD è razzista? I razzisti sono coloro che da decenni campano come parassiti sulle spalle altrui.” Adesso l’andazzo è cambiato, potendo sostituire “prima gli italiani” alla frase sopra citata. Suona comunque come una forzatura, parlando dello stesso Salvini che indossava le magliette con la scritta “Padania is not Italy” e che nel 2000 conduceva, su Radio Padania, una trasmissione dal titolo “Mai dire Italia”, dove tifava contro la Nazionale e durante la finale sperava spudoratamente in una vittoria della Francia. Salvini per anni ha fatto battaglie feroci contro l’euro, salvo poi diventare mansueto e confortare Mattarella (nel plauso generale) una volta divenuto Ministro. Eppure un tempo dichiarava che: “La Lombardia e il Nord se lo meritano l’Euro, io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece deve avere un’altra moneta, è come la Grecia.” Il Capitano che adesso si erge a rappresentante e collante della nazione una volta chiedeva carrozze metro solo per milanesi. Erano i tempi in cui Borghezio dai palchi rivendicava la propria provenienza: “Noi siamo celti e longobardi, non siamo merdaccia levantina o mediterranea,” oppure spiegava pacatamente i suoi propositi: “Noi che siamo padani abbiamo un sogno nel cuore: bruciare il tricolore,” o si prodigava a gettar fango sulle tragedie, una cosa che gli è sempre riuscita particolarmente bene: “Un sano realismo padano ci ha fatto capire che l’Abruzzo terremotato è un peso morto.”
Salvini è riuscito a far sparire tutte le scorie di questo nauseabondo passato, senza che nemmeno fosse troppo remoto. La sua terrificante abilità risiede nel gesto politico più antico del mondo: trovare un nemico. I “poteri forti” del M5S erano qualcosa di troppo astratto, servivano dei volti, dei nomi e una massiccia dose di propaganda. Ad ampio raggio, quindi uscendo dai recinti padani. Prima ha ammansito gli italiani, avvicinandosi all’inedita (per lui) passione per il tricolore. Poi ha teso la mano ai meridionali, di cui aveva bisogno per fini elettorali. I nuovi terroni adesso sono i migranti. I nemici perfetti.
ll “celodurismo” di bossiana memoria è stato sostituito dall’immagine dell’uomo intransigente a tutto tondo. Salvini trascende lo Stato, la magistratura, la polizia. Le sue squadriglie sono rappresentate dai leghisti che si presentano nelle spiagge pugliesi per la caccia al vucumprà, salvo poi essere cacciati a loro volta in malo modo dai bagnanti, in un barlume di fratellanza civile. La strategia del leader leghista è quella di aggrapparsi al sovranismo da bar, all’amor di Patria sbandierato da chi quella Patria la considerava un cacatoio a cielo aperto. Il popolo ha bisogno di essere difeso dai nemici immaginari, di trovare il colpevole delle loro difficoltà. E Salvini li indirizza nella direzione a lui più congeniale; è il più scaltro dei politici nella sua incoerenza, il più manipolatore nella sua costante belligeranza. Come in guerra vengono assoldate le reclute tra i mercenari, lui ha attinto da quelle che un tempo erano le “truppe nemiche”. E loro hanno abboccato, una volta che nemici sono diventati gli altri: lo straniero invasore, i burocrati di Bruxelles, gli ipocriti buonisti.
Il Sud continua a versare in condizioni da terzo mondo, dunque è normale cercare un appiglio per sguazzare fuori dal fango che lo stesso Stato ha accumulato nei decenni. Cedere alle chimere del reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle appare quasi una logica conseguenza, assimilabile ai posti di lavoro promessi da Berlusconi in passato. Abbracciare il verde di Pontida, però, resta un procedimento contro natura. Il lessico proprio di Salvini che esce dalla bocca di un siciliano, di un calabrese o di un campano risulta tanto dissonante quanto il brindisi di un messicano a Trump e alla Casa Bianca. Ma siamo il Paese delle contraddizioni e della memoria corta: le barricate del Sud sono crollate, lasciando campo aperto per le razzie dei Longobardi contro un popolo inferiore e succube del proprio destino. Alle elezioni europee di maggio questo paradosso risulterà palese, e il Sud dovrà trovare una giustificazione per aver tradito se stesso.