“Lo leggiamo insieme? Chi c’è collegato in questo momento Fabio? Chi possiamo salutare? Ci sono 25 mila persone collegate…”
Così, dopo aver aperto la Sua diretta Facebook come una televendita di materassi (“Buon venerdì pomeriggio, venerdì di settembre, riapre la scuola tra poco”), dopo aver fatto gli onori di casa, perché un buon ospite accoglie sempre i suoi invitati nel migliore dei modi (“Guardate che bello, questo è l’ufficio del ministro”), dopo aver intimato al suo cameraman di spostarsi, come farebbe un bravo regista, il ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio ha lanciato il suo personale attacco al potere giudiziario tutto, che non può colpirlo perché lui è eletto dal popolo.
Se il carattere a dir poco destabilizzante delle dichiarazioni di Salvini è stato notato da molti, generando la consueta indignazione a breve termine, le analisi – tutte – si sono ancora una volta fermate a ciò che per il momento fa più rumore, tralasciando tutto il resto. Così, mentre ci si concentrava sul nuovo scontro fra un politico e la magistratura, nessuno ha prestato attenzione all’efficacia dei modi. Una dimenticanza che rende inutile qualsiasi tentativo di comprensione di ciò che sta avvenendo. Esempio di questo patologico difetto cognitivo è stato l’ennesimo parallelismo fra le dichiarazioni di Salvini e quelle old school di Berlusconi.
La prassi di Berlusconi, nel suo delirio di onnipotenza, consisteva nel difendere un proprio privato interesse (quasi sempre le sue aziende) che riusciva a far passare come innocuo e ininfluente rispetto al suo ruolo politico. Salvini, invece, nel discorso specifica: “Qui c’è la certificazione che un organo dello Stato indaga su un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato… È stato eletto da Voi.” Salvini vuole far passare l’idea che il suo è stato un atto il cui fine era la salvaguardia del bene supremo della patria e che sono i magistrati a volergli impedire di svolgere questo compito – compito che è stato lui, e solo lui, a definire.
Per questo, se si considera il contenuto delle parole del ministro e vice premier, il parallelismo più lampante non è quello con Berlusconi, ma con Benito Mussolini, che, il 3 gennaio 1925, in piena crisi dopo l’omicidio Matteotti, davanti alla camera dei Deputati, così si pronunciò: “Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto… L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario.” Le immediate conseguenze di quel discorso furono la fine della secessione dell’Aventino e i provvedimenti che portarono alla graduale delegittimazione e annullamento delle funzioni democratiche del Parlamento.
Su Facebook il ministro punta poi il dito verso la telecamera: “Voi me l’avete chiesto e vi ritengo miei amici, miei sostenitori, miei complici.” Sta in questa ricerca di complicità il cuore del progetto di Salvini, che è culturale prima ancora che politico. Un progetto che però resta inspiegabilmente sconosciuto ai commentatori e a chi in teoria dovrebbe fare opposizione. Impegnata a ostentare il massimo grado di indignazione nel minor tempo possibile, la sinistra italiana fatica ancora a vedere che oltre le sparate (ribadite e smentite a piacimento) c’è la costruzione e l’imposizione di un paradigma di cui ogni dichiarazione, tweet e post costituiscono elementi fondamentali. Quello che la sinistra sembra non capire è che per raggiungere l’obiettivo dell’egemonia culturale, il leader della Lega non ha bisogno che le sue dichiarazioni si traducano in azioni concrete: in questa eterna campagna elettorale, basta che il suo popolo ne condivida la linea (e il fatto che oggi il primo partito d’Italia sia proprio la Lega sembra dimostrarlo). Salvini sa che probabilmente l’inchiesta si chiuderà con un nulla di fatto, e non ha la minima intenzione di proporre un riforma della giustizia, che era invece una delle ossessioni di Berlusconi. Ma a lui interessa esclusivamente azionare la macchina di conquista dei complici. Una macchina alla cui guida c’è Luca Morisi.
Prima di tutto va ricordato che (oltre che per i reati contestatigli dalla Procura di Palermo) Salvini è moralmente condannabile per essere stato artefice dello sfruttamento per fini di propaganda di 177 persone, tenute a oltranza a bordo di una nave solo ed esclusivamente come strumento politico di distrazione di massa. Nel caso Diciotti, era infatti chiaro fin dall’inizio che le rivendicazioni sbandierate dal ministro (coadiuvato dal concentratissimo, ma evidentemente confuso Toninelli) non avevano alcun fondamento né speranza di trovare risposta, come è stato dimostrato anche dall’incontro di Vienna, nato proprio per rispondere a quella crisi. L’obiettivo di Salvini era un altro. Andrebbe sottolineato che lo scoppio del caso Diciotti, sollevato il 18 agosto, è stato concomitante al crollo del ponte Morandi, alla rivelazione dei finanziamenti da parte del gruppo Benetton alla Lega e del voto favorevole di Salvini al “salva-Benetton”. Salvini poteva solo difendersi con il solito “Sì ma”. E appena due giorni dopo ha bloccato la nave della Guardia Costiera Diciotti. Il 20 agosto, dopo che la nave per 5 giorni era rimasta ferma al largo di Lampedusa, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli comunicava via Twitter il porto di approdo: Catania. Salvini ha subito fiutato l’occasione e dopo qualche ora il Viminale ha annunciato di non aver autorizzato lo sbarco. In questo modo è riuscito a raggiungere i due obiettivi che realmente gli interessavano: da una parte far dimenticare il voto del 2008 e i finanziamenti alla Lega da parte dei Benetton; dell’altra riaffermare il progetto politico-culturale xenofobo che passa sotto lo slogan “Prima gli italiani”. Per questo motivo il reato contestato a Salvini è assume i caratteri di un reato politico.
E non è un caso che la diretta Facebook del “C’è Posta per Te” ministeriale sia stata organizzata due giorni dopo la notizia della sentenza del Riesame su quei 49 milioni che sta creando al loro Capitano più di un problema. Oggi di quella sentenza non parla più nessuno. La centralità di Luca Morisi sta qui, più che nell’ideazione dell’abbondantemente sviscerato meccanismo di funzionamento della Bestia. Grazie a Morisi infatti non solo si mette a punto il sistema di distrazione, ma si compie il passo successivo, il più pericoloso: l’imposizione del modello culturale. A preoccupare maggiormente non deve essere la sparata di Salvini contro i magistrati, ma la trovata del #complicediSalvini, che ha l’obiettivo di normalizzare la scelta di tenere sotto sequestro 177 persone innocenti fino a prova contraria e per di più richiedenti asilo, uomini, donne e bambini che erano stati recuperati in mare. Il messaggio che passa è così quello per cui “se il Capitano l’ha fatto per difendervi allora va bene, è quello per cui l’avete votato.” Diventa così normale un atto che è prima di tutto un reato politico, perché dettato unicamente da quell’ideologia che si sta cercando di rendere egemonica, affinché investa ogni ambito della vita dell’elettorato. È qui che diventa sensato un parallelismo con Berlusconi. Per questo, non comprendere o peggio minimizzare le sparate social del duo Morisi-Salvini è dannoso quanto sostenerle, visto che l’effetto è il medesimo: lasciar loro campo libero. Non comprendere che è in atto un conflitto culturale, prima ancora che politico, non fa altro che favorire l’avanzata di un pensiero, xenofobo, privo di “buon senso”, retrogrado e non conservatore, anti-democratico più che populista.
Da più parti sento illuminati opinionisti e commentatori che con fermezza affermano che “No, Morisi non esiste, non dovete considerarlo. E non bisogna neanche ribattere alle sparate di Salvini.” Sentenze solitamente accompagnate da una lungimirante proposta: “Noi dobbiamo costruire una nuova narrazione che non si faccia fregare dalla retorica di Salvini. Noi dobbiamo parlare di altro.” Addirittura in molti si sono detti contenti di scoprire che attraverso l’utilizzo di qualche filtro si può eliminare l’esistenza di Salvini dai propri motori di ricerca. E ascoltando queste brillanti considerazioni diventa chiaro che ci si scontrerà per almeno altri 20 anni con la cultura professata da Salvini (che poi è la stessa di quelli che “Mussolini prima di entrare in guerra aveva fatto tante cose buone”). Non può essere altrimenti se, proprio mentre si commentano i dati dei sondaggi elettorali che vedono la Lega guadagnare punti ogni giorno, non si comprende la ragione di questa escalation.
Ciò che trovo più deprimente è che la ragione di questo deficit di comprensione da cui è afflitta l’opposizione è unicamente l’egocentrismo – tanto miope quanto presuntuoso – di una sinistra che crede che se la propria bacheca Facebook è libera dalla presenza di Salvini, allora lo è anche l’intero scenario politico. Una sinistra capace al più di rimuginare sui propri errori, senza mai comprendere le vittorie degli altri. Come si fa a non comprendere che i tweet di Morisi, che fanno ironia sui minori presenti sulla Diciotti, vanno considerati insieme a quelli di denuncia contro i migranti che stuprano, o quelli che danno avvio alla gogna nei confronti degli attivisti contro le politiche di Salvini? Come si fa a non capire che con quei tweet Morisi non solo riesce a sondare il terreno (non è un caso che quelli che hanno ottenuto più seguito finiscano poco dopo rimodulati sui social del ministro), ma soprattutto getta le basi per la narrazione del migrante bugiardo che non ha bisogno di aiuto e che viene in Italia solo per delinquere? Quindi chiudiamo tutto, frontiere, porti e portoni.
Come si fa a non capire che se Morisi attacca Asia Argento lo fa per dare il via alla guerra contro le lotte femministe – guerra che poi è il ministro dell’Interno a portare avanti, date un’occhiata agli orari dei tweet – e affermare il “modello Isoardi”, quello della donna tipicamente italiana nella sua bellezza mediterranea che può avere successo se parla di cucina (altrettanto italiana) e bada al focolare, per nulla interessata al sovvertimento di questo schema precostituito? O che attraverso il #nessunotocchiSalvini Morisi riesce a rendere condivisibile via social l’idea dell’intoccabilità del Leader al di sopra della legge? Come si fa a non rendersi conto che in questo gioco perverso anche un tweet di cordoglio diventa un mezzo per divulgare l’immagine dell’uomo d’onore che mantiene la parola data a chi gli ha dimostrato fiducia? L’account di Luca Morisi rappresenta in purezza il modello onnicomprensivo di Salvini: tutto ha lo scopo di ribadire e propagandare un modello culturale che è totalizzante quanto totalitario.
La campagna #complicediSalvini è stata un successo. La diretta in cui Matteo Salvini ha aperto la busta della procura di Palermo – ma davvero qualcuno pensava che non fosse preparata? – è stata vista più di 1 milione di volte, ricevendo centinaia di migliaia di reactions, quasi 100mila commenti e oltre 25mila condivisioni su Facebook. L’hashtag #complicediSalvini su Twitter ha viaggiato al ritmo di 192 tweet e 833 retweet ogni ora. E mentre le brillanti menti di sinistra cercano di convincersi che se non si parla di Morisi allora anche Morisi non esiste, l’efficacia della propaganda del duo Morisi-Salvini resta intatta.
A questo punto sono tutti complici. È complice il premier Conte – o chiunque gli detti ogni singola parola – che ha deciso di dedicare uno dei suoi rarissimi interventi nel dibattito politico del Paese di cui in teoria è presidente del Consiglio, per annunciare il suo desiderio, per ora irrealizzabile vista la carica che accidentalmente ricopre, di passare da avvocato del popolo a avvocato di Salvini.
Sono complici tutti i vertici del M5S che, ormai del tutto privi dei ricordi del passato giustizialista e dell’amore verso la magistratura, hanno deciso di optare per un simpatico richiamo telefonico al compagno di governo. Curioso poi che proprio Salvini abbia smentito Di Maio dicendo di non aver ricevuto alcuna chiamata, e per giunta la domenica abbia smentito qualsiasi “retromarcia”. Ma è complice allo stesso modo chiunque diventa parte di questo gioco: sia chi lo fa inconsciamente perché non ne ha ancora compreso la portata, sia chi invece lo fa per opportunismo. È complice chi non si rende conto di quello che sta succedendo oggi nonostante abbia vissuto vent’anni di modello berlusconiano, un universo dove il successo economico e finanziario poteva annullare qualsiasi giudizio etico e morale, in cui per entrare in Regione Lombardia bastava conoscere la persona giusta, e se in realtà facevi il massaggiatore del Milan o l’igienista dentale poco importava; un modello che ha definitivamente sancito il distacco fra la sinistra e quella che era stata da sempre la sua base e che aveva visto nell’austerità di Berlinguer un esempio di vita. È complice chi oggi, dopo tutto questo, si ostina a non vedere la pericolosità del conflitto in atto e da cui, con buona pace di molti, non ci si può sottrarre. Che non si potrà mai contrastare se non se ne capiranno le dinamiche, lasciando come unica “visione di lungo termine” possibile la faccia di Salvini.
A conclusione del discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini disse: “Voi state certi che, nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area.” Ma ci volle una guerra mondiale per far sì che la situazione fosse chiara a tutti. Sono passati quattro giorni dalla diretta Facebook di Salvini, speriamo che non ci voglia un’altra guerra per svegliarci.